Gli aspetti processuali dell’attività sotto copertura

01 Settembre 2015

L'individuazione dei limiti entro i quali le indagini sotto copertura possono essere giustificate riverbera, inevitabilmente, sull'uso che può farsi del materiale raccolto: l'investigatore, pur sotto mentite spoglie e pur integrando condotte penalmente rilevanti, raccoglie dati ed elementi che potranno successivamente essere utilizzati.

L'individuazione dei limiti entro i quali le indagini sotto copertura possono essere giustificate riverbera, inevitabilmente, sull'uso che può farsi del materiale raccolto: l'investigatore, pur sotto mentite spoglie e pur integrando condotte penalmente rilevanti, raccoglie dati ed elementi che potranno successivamente essere utilizzati.

La veste processuale dell'agente infiltrato

La qualifica da assegnare all'agente infiltrato nel procedimento penale relativo ai fatti rispetto ai quali è chiamato a rendere dichiarazioni rappresenta, quindi, un primo profilo di criticità.

Invero, sembra facilmente intuibile che l'infiltrato assumerà la qualifica di testimone nel processo a carico dell'imputato “incastrato” dalle operazioni sotto copertura, sempre e solo se siano state rispettate le procedure descritte dalla legge, con la consequenziale applicazione della speciale causa di giustificazione di cui all'art. 9, l. n. 146/2006; al contrario, rivestirà quella di imputato o coimputato in procedimento connesso o collegato, qualora l'agente sotto copertura abbia superato i limiti imposti dal legislatore, ravvisando così nel suo comportamento un fatto penalmente rilevante.

La diversa qualifica giuridica dell'infiltrato nel processo penale a carico del provocato andrà, poi, ad incidere anche sul regime di acquisizione – e conseguente utilizzazione – delle sue dichiarazioni, sia nel caso in cui abbia agito in conformità alle previsioni di legge, sia – soprattutto – in quello in cui abbia esorbitato dai limiti da esse fissati e sia risultato punibile.

Ed infatti, se ha operato nel rispetto delle disposizioni di cui all'art. 9, l. n. 146/2006, l'agente sotto copertura sarà considerato “testimone” alla stregua di ogni altro agente accertatore appartenente alla polizia giudiziaria, senza alcun ostacolo all'utilizzazione delle dichiarazioni da lui rese (pur sempre nei limiti previsti dal codice di rito in ordine alla testimonianza degli agenti di polizia giudiziaria sulle dichiarazioni acquisite durante le indagini), con la conseguenza della inapplicabilità del combinato disposto degli artt. 210 e 192, commi 3 e 4, c.p.p. (Cass. pen., Sez. II, 28 maggio 2008, n. 38488, secondo cui «in tema di criminalità organizzata, con riferimento alle speciali tecniche di investigazione preventiva previste dalla l. n. 146 del 2006 (di ratifica della convenzione Onu contro il crimine organizzato), e alla figura dell'agente infiltrato o sotto copertura, qualora questi commetta azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili, ed esorbiti dai limiti legislativi posti alla sua azione così determinando con il suo comportamento fatti penalmente rilevanti, egli assume la figura di coimputato in procedimento connesso o collegato, e di conseguenza, alle sue dichiarazioni si applica la disciplina di cui agli artt. 192 e 210 c.p.p.»)

Al contrario, quindi, se l'infiltrato è coimputato o imputato, alle sue dichiarazioni devono applicarsi le regole di assunzione e di valutazione di cui agli artt. 210 e 192 c.p.p. (in giurisprudenza, da ultimo, Cass. pen., Sez. III, n. 33322/2013, che ha ribadito il precedente arresto del 2008 appena richiamato chiarendo che «qualora l'agente infiltrato agisca fuori dei limiti legislativi posti alla sua azione, commettendo un reato, assume la posizione di coimputato in un procedimento connesso o collegato ed alle sue dichiarazioni dovrà essere applicata la disciplinai di cui all'art. 210 c.p.p. (esame di persona imputata in procedimento connesso) e art. 192 c.p.p. (necessità di riscontri estrinseci). Al contrario, qualora agisca nei limiti previsti, assume la posizione di testimone ed alle informazioni da questi apprese dall'imputato durante le investigazioni non si applica l'art. 62 c.p.p. (divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese dall'imputato)».

E così, secondo la Suprema Corte, eventuali abusi da parte delle forze di polizia durante le fasi di indagini under cover, consistenti nella induzione e nell'incitamento al reato, possono generare non solo sul piano del diritto penale sostanziale la responsabilità penale degli agenti, ma anche sul piano probatorio l'inutilizzabilità della prova acquisita, per contrarietà dei principi del giusto processo, in violazione dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cass. pen., Sez. III, n. 1235/2013, secondo cui, tuttavia, «risulta pur sempre legittimo e utilizzabile come prova, il sequestro del corpo di reato o delle cose pertinenti al reato, anche se rinvenute a seguito di un'attività di polizia di cui venga riconosciuto il superamento dei limiti imposti dalla legge per le attività di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti» (conforme anche Cass. pen., Sez. Un, n. 5021/1996, in Cass. pen., 1996, XI, 3268).

Tale pronuncia si pone in linea con il costante orientamento giurisprudenziale «fondato sul principio “male captum bene retentum”: la censura dell'inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. degli atti raccolti mediante provocazione non avrebbe l'effetto di far propagare il vizio alla successiva apprensione, pur ottenuta attraverso un modus procedendi illegittimo e/o illecito; l'antigiuridicità della ricerca non inciderebbe, infatti, sulla liceità dell'eventuale sequestro» (Piattoli, Agenti provocatori, indagini “under cover” e diritto alla prova tra limiti di utilizzabilità interni e profili di internazionalizzazione, in Dir. pen. proc., 2013, 567).

Tuttavia, nell'ambito dell'uso delle indagini sotto copertura per contrastare il fenomeno della pedopornografia, dopo una serie di pronunce di segno analogo a quello riscontrato in materia di sostanze stupefacenti con le quali si sostiene la legittimità del sequestro probatorio del corpo di reato o delle cose pertinenti al reato, rinvenuti a seguito di attività di contrasto da parte di un agente provocatore in relazione a fattispecie che non consentano tale tipo di indagine (Cass. pen., Sez. III, n. 29616/2010, in Dir. pen. proc., 2010, 1166 ss.; Cass. pen., Sez. III, n. 19887/2009; Cass. pen., Sez. III, n. 40036/2008; Cass. pen., Sez. III, n. 41957/2005; Cass. pen., Sez. III, n. 29496/2004), si è espresso un orientamento interpretativo diametralmente opposto secondo il quale «l'attività di contrasto attraverso un agente provocatore non può essere espletata per accertare elementi di prova in ordine al reato di cui all'art. 600-quater c.p. (detenzione di materiale pedopornografico), sì che gli elementi di prova così acquisiti sono inutilizzabili e tale inutilizzabilità è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche durante la fase delle indagini preliminari. Di conseguenza, l'eventuale sequestro probatorio del materiale pedopornografico è illegittimo in quanto non si può affermare la sussistenza del fumus delictiin base ad un risultato investigativo inutilizzabile» (Cass. pen., Sez. III, n. 13500/2005. Analogamente, Cass. pen., Sez. III, 24000/2004; Cass. pen., Sez. III, n. 37074/2004, in Cass. pen., 2005, 2679).

La natura della "ricerca" mediante le operazioni sotto copertura

Particolarmente dibattuta è l'ontologia processuale delle operazioni under cover in ordine alla possibilità di utilizzare il risultato di tali attività anche rispetto a reati per i quali non sia consentito dalla legge il ricorso ad esse.

In realtà, allorquando prevale la prospettiva di carattere sostanziale, la giurisprudenza unisce tutti i presupposti stabiliti dalla legge in un'unica categoria – escludendo solo la mancata comunicazione delle attività poste in essere sotto copertura al pubblico ministero – e dichiara illegittima ogni operazione compiuta per acquisire elementi di prova concernenti reati diversi rispetto a quelli tassativamente indicati dalla norma, in assenza dell'autorizzazione a procedere delle autorità competenti così come in presenza di personale diverso da quello autorizzato dalla legge (da ultimo, Cass. pen., Sez. III, n. 1258/13: «in tema di operazioni antidroga, la prova acquisita dall'agente provocatore è inutilizzabile per contrarietà ai principi del giusto processo». La sentenza segna un riconoscimento del principio di legalità probatoria, negando l'utilizzabilità delle prove ottenute in disprezzo dei diritti penalmente tutelati. Sul punto, anche, Cass. pen., Sez. III, n. 37805/2013).

Dal punto di vista processuale, in giurisprudenza emerge, invece, un contrasto interpretativo: mentre, da un lato, si esclude radicalmente l'utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti in ordine a reati diversi rispetto a quelli per i quali è ammessa l'utilizzabilità di queste speciali tecniche investigative, pena la vanificazione del divieto sancito nell'art. 191 c.p.p. (Cass. pen., Sez. III, n. 13500/2005); dall'altro, al contempo, si precisa che, ferma restando la inutilizzabilità probatoria di questi elementi così acquisiti, questa non può però riflettersi anche sulla legittimità del sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, che costituirebbe valida notitia criminis, punto di partenza per le indagini successive (Cass., sez. III, n. 26763/2008, rv. 240269).

Si tratta, in realtà, di stabilire il momento in cui è legittimo ricorrere alle operazioni sotto copertura, se previa integrazione della notizia di reato oppure, invece, prescindendo dalla sua sussistenza.

Il silenzio del codice di rito certamente non aiuta, infatti, a comprendere se le operazioni sotto copertura siano attività preventiva o giudiziaria e, dunque, se la notitia criminis rappresenti un presupposto legittimante ovvero il fine a cui si deve pervenire.

Invero, la giurisprudenza di legittimità ha sempre inserito queste speciali tecniche di indagini fra le attività di prevenzione (Cass. pen., Sez. VI, n. 51678/2014), non riconoscendo tuttavia agli ufficiali di polizia giudiziaria infiltrati poteri autoritativi e certificatori (Cass. pen., Sez. IV, n. 6702/2004; Cass. pen., Sez. IV, n. 33561/2001) perché si tratta di soggetti «che partecipano all'azione» (quindi a reato ancora «in corso di svolgimento», Cass. pen., Sez. VI, n. 39216/2013; Cass. pen., Sez. IV, n. 41799/2009), con la conseguenza che possono deporre in aula sulle dichiarazioni rese dai “futuri” indagati, perché l'agente «non agisce al fine di redigere atti servendosi dei propri poteri autoritativi, quanto piuttosto (nei limiti fissati dalla legge) quale partecipe del fatto successivamente testimoniato» (Cass. pen., Sez. IV, n. 46556/2004; Cass. pen., Sez. VI, n. 23035/2004).

In dottrina, già l'introduzione del fictus emptor delle sostanze stupefacenti ha indotto una serie di interrogativi con risposte, di volta in volta, differenti che testimoniano – dal punto di vista speculativo – la sussistenza ancora oggi di due contrapposte posizioni, nonostante le recenti riforme abbiano abrogato le precedenti disposizioni.

Mentre alcuni (D'Amato, Agenti provocatori: le prove eterodosse sono utili solo per avviare altre indagini. Operazioni coperte, il rapporto notitia criminis-elementi raccolti, in Dir. e Giust., 2005, 9, 48; Landolfi, L'acquisto simulato di stupefacente: analisi di esperienze giudiziarie, in Quaderni C.S.M., 1994, n. 71, 182; Piemontese, Art. 4. Attività sotto copertura, in Leg. Pen., 2002, 791; Melillo, Le recenti modifiche alla disciplina dei procedimenti relativi ai delitti con finalità di terrorismo o di eversione, in Cass. Pen., 2002, 906), in considerazione di una chiara voluntas legis, ritengono che tali operazioni possano essere autorizzate anche, in via preventiva, in situazioni rispetto alle quali non si riscontra la preesistenza di una concreta notizia di reato (in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. II, n. 38488/2008; Cass., sez. III, n. 29496/2004); altri, invece, partendo dal tenore delle norme, specificatamente orientate all'acquisizione di “elementi di prova” e dirette ai soli ufficiali di polizia giudiziaria (Filippi, Terrorismo internazionale: le nuove norme interne di prevenzione e repressione. Profili processuali, in Dir. Pen. Proc., 2002, 165, secondo il quale, il fatto che i destinatari dell'esimente siano esclusivamente gli ufficiali di polizia giudiziaria conferma che le operazioni sotto copertura possono essere effettuate nell'ambito di un procedimento penale già instaurato), e richiamando i principi generali del sistema normativo (Bertaccini, subart. 4-terdecies, D.l. 272/2005, in Leg. Pen., 2006, 406, nota 13, il quale richiama gli artt. 109 e 112 Cost. e gli artt. 55, 326 e 347 ss. c.p.p., norme secondo le quali le funzioni repressive della polizia giudiziaria sono tutte finalizzate a svolgere indagini e a raccogliere elementi necessari per consentire al pubblico ministero di determinarsi in ordine all'azione penale; secondo l'autore, invece, «le funzioni preventive si esauriscono sul piano dell'impedimento di conseguenze ulteriori dei reati di cui abbia notizia, non estendendosi alla possibilità della commissione di reati in funzione della prevenzione di altri»), escludono che l'operazione sotto copertura possa esser ricondotta nel novero delle attività ad iniziativa della polizia giudiziaria, prodromiche all'acquisizione della notizia di reato e all'intervento del pubblico ministero (in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. II, n. 6425/1994, secondo cui «non può farsi discendere dall'obbligo della polizia giudiziaria di ricercare le prove dei reati e assicurare i colpevoli alla giustizia l'esclusione, ex art. 51 c.p., della responsabilità del cosiddetto agente provocatore di polizia giudiziaria, giacché è adempimento di un dovere perseguire i reati commessi, non già di suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori»).

In quest'ottica, tali tecniche investigative costituiscono uno speciale mezzo di ricerca della prova, al quale si può attingere nell'ambito di un procedimento penale già instaurato o, comunque, col presupposto di una determinata notizia di reato già acquisita.

Sebbene le operazioni sotto copertura appaiano particolarmente funzionali, oltre che alla raccolta di elementi di prova in considerazione di una notitia criminis già sussistente, anche alla verifica di condotte penalmente rilevanti non ancora iscritte nel registro delle notizie di reato, sembra preferibile la posizione più restrittiva anche in assenza di una puntuale disciplina processuale che delimiti l'ambito dell'intervento nonché dell'attività dell'infiltrato: le operazioni under cover, lungi dall'essere attività di prevenzione, hanno finalità esclusivamente repressive, post-delictum. Del resto, le precise indicazioni normative sulla finalità probatoria delle operazioni e i molteplici richiami alle comunicazioni da trasmettere al pubblico ministero convergono in questa direzione (Curtotti, Operazioni sotto copertura, in A.A.V.V., Le associazioni di tipo mafioso, a cura di Romano, Utet, 2015, 437).

Peraltro, in casi analoghi (come nel corso delle attività ispettive, ex art. 220 disp. att. c.p.p., o delle intercettazioni preventive, ex art. 226 disp. att. c.p.p.), il codice ha specificatamente regolamentato le interazioni tra attività preventiva e attività accertativa, limitando l'uso degli elementi di prova eventualmente acquisiti.

Stante l'uso specifico (e non alterato dalle interpolazioni normative succedutesi nel tempo) dell'espressione “elementi di prova” per individuare il fine cui devono tendere le operazioni dell'agente infiltrato, a dimostrazione di una precisa scelta ideologica da parte del legislatore, non convince anche l'eventuale inserimento di questa particolare forma di investigazione (spesso spinta dalla presenza di meri sospetti di reato) tra le attività pre-procedimentali, ossia quelle indagini c.d. “atipiche” (recte, ibride) della polizia giudiziaria che, pur al di fuori delle attività di polizia di sicurezza, sono dirette a ricercare la notizia di reato e, tuttavia, mantengono una natura ancora amministrativa (Fumu, L'attività preprocedimentale del pubblico ministero, in AA.VV., Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, a cura di Gaito, 1991, Napoli, 135).

Diversamente opinando, sarà inevitabile la violazione della regola fondamentale della “pre-inchiesta”, secondo cui non possono essere compiute, in quell'ambito, attività che incidano negativamente sui diritti costituzionali («in una fase esterna al procedimento penale, non fondata né sul pericolo di futura commissione di un reato, né ancora sulla notizia di un reato già commesso, può farsi uso solo di mezzi che non intacchino il patrimonio giuridico di diritti e libertà oggetto di esplicita tutela … della Costituzione», così Zappulla, La formazione della notizia di reato. Condizioni, poteri ed effetti, Torino, 2012, 249).

Infine, questa impostazione segue la giurisprudenza della stessa Corte europea dei diritti dell'uomo che considera contrario al “fair trial” il processo che abbia fatto uso di indagini under cover poste in essere senza un fondato sospetto e senza un'iscrizione della notizia di reato: tali indagini «richiedono … una legittimazione attiva che non può derivare da situazioni sussumibili nell'ambito di congetture o di sospetti ma deve essere subordinata all'esistenza di indizi di un certo rilievo che abbiano già consentito di individuare un tema probatorio nel cui ambito quella ricerca ha un suo contenuto di concretezza e di specificità» (Curtotti, Operazioni sotto copertura, in AA.VV., Le associazioni di tipo mafioso, a cura di Romano, Utet, 2015, 438).

In definitiva, la possibilità di disporre legittimamente dei risultati di un'operazione sotto copertura presuppone la pendenza di un procedimento penale e, di conseguenza, la formale iscrizione della notizia di reato.

L'unica eccezione sembra potersi estrapolare dal combinato disposto dei commi 4 e 8 dell'art. 9 l. n. 146/2006, che disciplinano l'obbligo di comunicazione al Procuratore Nazionale Antimafia dei risultati raggiunti mediante l'operazione sotto copertura in ordine ai i delitti indicati all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p.

La maggiore ampiezza del riferimento codicistico operato dal citato comma 8 dell'art. 9,l. n. 146/2006 rispetto al comma 1 del medesimo articolo si giustifica con la volontà del legislatore di dover mettere l'autorità giudiziaria (il P.N.A.) competente ad indagare in merito ai delitti, «consumati o tentati, di cui agli artt. 416-bise 630 c.p., ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bisovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché ai delitti previsti dall'art. 74 del Testo Unico approvato con d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309» nella consapevolezza della verificazione del fatto di reato e nella conseguente possibilità di iscrivere la relativa notizia e indagare.

Diversamente non si spiegherebbe il rinvio ad una norma che, per il contenuto così ampio, si discosta dal novero dei reati per cui è attivabile l'indagine sotto copertura: mentre la comunicazione in relazione alle fattispecie previste dal comma 1 dell'art. 9,l. n. 146/2006 discende dalla necessità di mettere in relazione l'autorità requirente con l'agente sotto copertura per la gestione diretta dell'indagine (anche in ragione del ritardo e dell'omissione di atti di competenza della p.g.); viceversa, la comunicazione in ordine a reati per i quali, in astratto, non è contemplata la possibilità di investigare con lo speciale strumento previsto da questa normativa (se non limitatamente ad alcuni delitti-fine) sembra priva di senso e deprivata di uno scopo specifico (del resto, se il legislatore avesse voluto circoscrivere l'obbligo di comunicazione al Procuratore Nazionale Antimafia solo ai delitti in materia di stupefacenti o di sequestro estorsivo lo avrebbe fatto espressamente, come ha fatto nelle altre disposizioni normative inserite negli altri commi dello stesso art. 9, l. n. 146/2006).

In realtà, l'obbligo di comunicazione alla procura nazionale antimafia circa le notizie apprese in merito ai reati di cui all'art. 51, comma 3 bis, c.p.p. da parte degli infiltrati si riferisce all'eventualità che, nel corso dell'operazione sotto copertura disposta in virtù di una delle fattispecie previste dal comma 1 dell'art. 9 l. n. 146/2006, l'infiltrato s'imbatta in condotte riconducibili alle fattispecie previste dalla suindicata disposizione del codice di rito che, sebbene non siano state inserite fra i reati per i quali è consentito quel tipo di operazione, costituiscono quelle notizie di reato che la polizia giudiziaria, nello svolgimento dell'attività disposta dall'autorità giudiziaria, potrà acquisire – eccezionalmente, atteso proprio lo speciale obbligo di comunicazione sancito dal comma 8 dell'art. 9 l. n. 146/2006 – di propria iniziativa, ai sensi del combinato disposto degli artt. 55, commi 1 e 2, e 330 c.p.p., e trasmettere, senza ritardo, al Procuratore Nazionale Antimafia per iscritto o immediatamente in forma orale (cui seguirà, senza ritardo, quella scritta), qualora ricorrano ragioni di urgenza e si tratti di un delitto previsto dall'art. 407, comma 2, lett. a, numeri da 1 a 6, c.p.p. (che ricomprende, peraltro, anche alcuni di quelli previsti dall'art. 51, comma 3 bis, c.p.p.), così come previsto dall'art. 347, commi 1 e 3, c.p.p.

Cosicché, il Procuratore Nazionale Antimafia, deputato a svolgere le funzioni di pubblico ministero per i reati previsti dall'art. 51, comma 3 bis, c.p.p., avvierà le indagini sulla scorta della notizia di reato trasmessa in merito ad uno di quei delitti dall'agente infiltrato il quale continuerà la sua attività di agente sotto copertura solo in ragione del delitto presupposto, a meno che non si tratti di fatti costituenti uno dei reati ricompresi non solo dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. ma anche dal comma 1 dell'art. 9, l. n. 146/2006, potendo in tal caso ottenere ulteriore specifica investitura – ancora una volta – come infiltrato.

La garanzia dell'anonimato

Stabilendo che «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziari, anche appartenenti ad organismi di polizia esteri, gli ausiliari, nonché le interposte persone, chiamati a deporre, in ogni stato e grado del procedimento, in ordine alle attività svolte sotto copertura … invitati a fornire le proprie generalità, indicano quelle di copertura utilizzate nel corso delle attività medesime», il comma 2-bis dell'art. 9, l. n. 146/2006 (introdotto con la l. n. 136/2010) sembra risolvere la vexata quaestio relativa alla legittimità della testimonianza anonima dell'agente infiltrato nel processo penale a carico del provocato.

Tuttavia, per ovviare alle numerose critiche avanzate in dottrina a causa dell'eccessiva genericità della norma, sarebbe stato necessario specificare la natura assolutamente eccezionale e derogatoria della testimonianza anonima dell'infiltrato e, di conseguenza, consentirla solo in casi strettamente necessari, valutati in concreto dal giudice procedente, in modo da scongiurare ogni sorta di presunzione (cfr. Corte E.D.U., Van Mechelen c. Paesi Bassi, 23 aprile 1997; sul punto Miraglia, Spunti per un dibattito sulla testimonianza anonima, in www.penalecontemporaneo.it, 10).

In conclusione

All'interno del procedimento penale, le indagini sotto copertura devono conformarsi alle regole disposte dal legislatore per le indagini preliminari. Di conseguenza, gli agenti di polizia giudiziaria, pur se infiltrati, sono tenuti a redigere apposte annotazioni ex art. 357, comma 1, c.p.p. (in questo senso, Cass. pen., Sez. VI, n. 2399/1999), sulle quali possono rendere poi testimonianza, salvo che si tratti di dichiarazioni rese dall'indagato per le quali opera l'art. 62 c.p.p. (Cass. pen., Sez. VI, n. 41730/2006; Cass. pen., Sez. IV, n. 6702/2004; Cass. pen., Sez. IV, n. 33561/2001. Contra, Cass. pen., Sez. IV, n. 46556/2004; Cass. pen., Sez. VI, n. 23035/2004, secondo cui l'agente infiltrato può deporre in aula sulle dichiarazioni rese dai “futuri” indagati, perché «non agisce al fine di redigere atti servendosi dei propri poteri autoritativi, quanto piuttosto (nei limiti fissati dalla legge) quale partecipe del fatto successivamente testimoniato»).

Quanto alle dichiarazioni auto-indizianti fornite all'agente sotto copertura, l'art. 63 c.p.p. imporrebbe – a pena di inutilizzabilità delle relative dichiarazioni – anche all'infiltrato l'obbligo di interrompere l'esame e manifestare la propria effettiva identità avvertendo il provocato dell'inizio di indagini a suo carico e del diritto di avvalersi di un difensore (in questo stesso senso, Gaeta, Dichiarazioni di indagato “provocate” da agenti infiltrati: la libertà di autodeterminazione quale canone di utilizzabilità, in Cass. Pen., 2000, 972. Contra, Cantone, Tipologia dei dichiaranti e nuove interpretazioni costituzionali dell'art. 208 c.p.p. Cenni sulla deposizione degli agenti infiltrati, in Arch. N. Proc. Pen., 2004, 256).

Tuttavia, dal punto di vista strettamente operativo, si tratta di una soluzione certamente deleteria per il prosieguo delle indagini, in quanto rischia di neutralizzare l'operato dell'agente sotto copertura già nelle fasi che immediatamente seguono il suo inserimento e il suo accreditamento tra gli stessi gruppi criminosi: tale obbligo sancirebbe la perdita di efficienza di questo speciale strumento investigativo nonché l'irrimediabile fine dell'intera operazione (la giurisprudenza ha analizzato le dichiarazione rese all'agente nel corso di un acquisto simulato di stupefacenti da parte chi aveva poi assunto la veste di indagato e ha escluso la sussistenza dell'inutilizzabilità in ragione della considerazione secondo la quale «le dichiarazioni sono state rese nel corso di attività che in alcun modo potevano equipararsi alle acquisizioni di informazioni exartt. 362 e 351 c.p.p. e nei confronti di un soggetto – l'agente sotto copertura – la cui vera qualifica era ovviamente travisata», Cass. pen., Sez. VI, n. 1732/1997).

Epperò, l'art. 63 c.p.p. è norma chiave del sistema accusatorio perché riconosce al soggetto che subisce un procedimento penale il suo diritto ad autodeterminarsi, attribuendogli la possibilità di scegliere in maniera consapevole la propria strategia difensiva. Del resto, proprio la dissimulazione della propria identità, prodromo tipico dell'attività sotto copertura, rappresenta lo strumento per aggirare il diritto al silenzio e carpire dichiarazioni incriminanti.

Siccome sembra illogico e paradossale camuffarsi per infiltrarsi, da un lato, e al primo approccio dover rivelare la propria qualifica di agente di polizia giudiziaria, dall'altro, occorre propendere – nel silenzio del legislatore – per una fedele applicazione del codice: l'agente di polizia giudiziaria “infiltrato”, ai sensi dell'art. 62 c.p.p., non potrà riferire in merito alle dichiarazioni rese dall'indagato nel corso delle indagini preliminari.

Del resto, alcuni indirizzi giurisprudenziali ritengono pienamente operativo l'art. 63, comma 2, c.p.p., in tutte quelle circostanze in cui le dichiarazioni sono state provocate da un operatore di polizia giudiziaria che agendo sotto copertura abbia celato la propria qualifica e funzione (Cass. pen., Sez., II, n. 2204/1998).

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