La portata del divieto di ne bis in idem rispetto alla sentenze non ancora irrevocabili

02 Settembre 2015

In tema di divieto di un secondo giudizio, le situazioni di litispendenza che non trovino soluzione nell'ambito dei conflitti positivi di competenza di cui all'art. 28 c.p.p. devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, l'impromovibilità dell'azione penale in virtù della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem,
Massima

In tema di divieto di un secondo giudizio, le situazioni di litispendenza che non trovino soluzione nell'ambito dei conflitti positivi di competenza di cui all'art. 28 c.p.p. devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l'impromovibilità dell'azione penale in virtù della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, sempre che i due processi che abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del P.M. e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria.

Il caso

Tizio e Caio, rinviati a giudizio per rispondere di due distinte ipotesi di ricettazione, eccepivano la duplicazione del giudizio perché sottoposti ad altro procedimento nel quale erano loro contestate, sia pure in concorso, le medesime condotte di ricettazione.

Il tribunale pronunciava sentenza pre-dibattimentale e dichiarava il non doversi procedere per duplicazione del processo atteso che i fatti in contestazione erano già stati giudicati dal medesimo tribunale con sentenza di condanna, appellata dagli imputati.

Avverso la sentenza pre-dibattimentale proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore Generale eccependo la violazione ed errata interpretazione dell'art. 649 c.p.p., sul rilievo che il divieto della norma opera soltanto rispetto a sentenze irrevocabili e tale non era la prima decisione, ancora sub iudice, giusta l'appello degli imputati.

La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite osservando di non condividere l'orientamento giurisprudenziale formatosi all'interno della Corte che interpreta estensivamente il dato letterale della norma, così da ritenere operante il divieto del doppio processo anche rispetto al giudicato non ancora definitivo.

In motivazione, le Sezioni Unite osservano preliminarmente che occorre verificare «la sussistenza di due premesse logico-giuridiche (…) dovendo accertarsi se nella situazione processuale dedotta sia riconoscibile la duplicazione del processo, stante l'identità delle persone degli imputati e della regiudicanda, per poi stabilire se nel processo anteriormente instaurato sia intervenuta una decisione passata in giudicato (…)>>.

Sulla prima questione <<le Sezioni Unite condividono la valutazione del giudice monocratico, a giudizio del quale i due processi hanno avuto ad oggetto il medesimo fatto, come, del resto, non è stato neppure contestato nel ricorso del Procuratore Generale (…)>>.

La questione

La questione è la seguente: accertata l'identità del fatto, la regola del ne bis in idem stabilita dall'art. 649 c.p.p. si estende anche a quelle sentenze non ancora irrevocabili?

Le soluzioni giuridiche

In motivazione le Sezioni Unite osservano che la collocazione topografica del divieto di ne bis in idem nel Titolo I (giudicato) del Libro X (esecuzione) del codice di procedura penale non ne pregiudica la portata precettiva, da intendersi sia quale diritto dell'imputato a non essere perseguito più volte per il medesimo fatto sia quale regola di contenimento alla “proliferazione dell'unico processo (…) con evidente distorsione dell'attività giurisdizionale” e abuso del processo.

Su tali premesse si è sviluppata quell'interpretazione estensiva del dato letterale della norma (criticata dalla Sezione rimettente) secondo la quale l'art. 649 c.p.p. ha portata generale e di sistema; tende cioè ad evitare la duplicazione dei giudizi, al pari delle norme che regolamentano i conflitti positivi di competenza e dell'art. 669 c.p.p..

Un orientamento intermedio, ormai superato dalla decisione in commento, riteneva che la materia della litispendenza si risolvesse in favore del giudice titolare del procedimento che versasse in fase o grado più avanzati.

Tuttavia, osservano le Sezioni Unite, le regole sui conflitti di competenza codificate riguardano soltanto i “conflitti positivi propri” ovvero “la duplicazione del processo dinanzi a sedi giudiziarie diverse”.

La disciplina dell'art. 28 c.p.p. non può invece applicarsi ai casi di conflitto relativi alla duplicazione del processo “all'interno della stessa sede giudiziaria”. Né sono applicabili le norme sui conflitti c.d. “impropri”, disciplinati dal comma 2 dell'art. 28 c.p.p. (“casi analoghi”) che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, attengono alle ipotesi di “stasi o di paralisi dell'attività processuale”.

Invero, l'art. 28 c.p.p. disciplina i soli conflitti “propri” di competenza “senza indicare alcuna soluzione normativa per la litispendenza dei processi, in fasi o gradi diversi, dinanzi a giudici della medesima autorità giudiziaria”.

Per superare il vuoto normativo non è ammissibile il ricorso all'interpretazione analogica mediante il richiamo dell'art. 39 c.p.c.: il processo civile dà infatti prevalenza al principio di “prevenzione”, mentre quello penale privilegia il principio di competenza del giudice naturale.

Analogamente, sono censurabili le prassi seguite da alcuni uffici con lo scopo di rallentare il processo che versi in fase o stato più avanzata, per consentire al secondo processo di raggiungerne lo stadio ai fini della riunione; oppure di sospendere il secondo processo, in attesa del passaggio in giudicato della prima sentenza. In entrambi i casi, le soluzioni consuetudinarie prospettate mal si conciliano con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e con l'impianto accusatorio del codice. Del resto, i casi di sospensione del processo penale sono tassativi così come lo sono quelli di sospensione o interruzione dell'esercizio dell'azione penale (art. 50 c.p.p.).

Per questi motivi, le Sezioni unite, hanno ritenuto di “condividere l'indirizzo favorevole all'ammissibilità della pronuncia di non doversi procedere per impromovibilità dell'azione penale nelle ipotesi di litispendenza che non implichino un conflitto positivo di competenza e non siano accompagnate dall'esistenza di una sentenza irrevocabile”.

Per superare il dato letterale dell'art. 649 c.p.p., la sentenza evidenzia l'ampia portata del principio positivato dalla norma che, nell'economia del sistema giuridico, tende ad evitare più procedimenti diversi ed altrettanti provvedimenti che originino dal medesimo fatto, contestato al medesimo imputato.

Del resto, l'omessa regolamentazione codicistica di alcune ipotesi di litispendenza impone, in virtù del disposto dell'art. 12 delle preleggi, di indagare le soluzioni di sistema.

Invero, “nella ricostruzione della reale portata di una legge, il fatto pretermesso non è né affermato né escluso” e l'interprete ha il dovere di attribuire al silenzio “il significato più coerente con la ratio legis, enucleando la vis ac potestas della disposizione”. Nel far ciò è necessario tener conto non solo del contesto normativo ma anche “degli interessi tutelati e dei fini effettivamente perseguiti” (cfr. Cass. Sez. unite, 25 febbraio 1998, n. 4265).

Sul punto, ed al di là delle considerazioni già svolte sull'efficienza del sistema processuale e sul diritto dell'imputato a non essere perseguito due volte per il medesimo fatto, giova osservare come proprio il codice di procedura disciplini le ipotesi di “pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona” (art. 669 c.p.p.). Ne segue che è implicito nel sistema il divieto di moltiplicare le decisioni avverso la medesima res.

Osservazioni

Il divieto di ne bis in idem consuma il potere di azione del pubblico ministero ed impedisce l'avvio di un altro e diverso procedimento penale che riguardi il medesimo fatto e la stessa persona.

In corollario, ne segue che l'esercizio dell'azione penale non può essere “rinnovato per porre riparo a nullità assolute ed insanabili verificatesi nel primo procedimento” (sent. cit.).

Alle medesime condizioni di eadem persona e di idem factum, il divieto preclude sia l'azione penale, rendendola improvomibile, sia il potere di ius dicere del giudice.

Laddove la litipendenza non abbia soluzione nella regola codificata dall'art. 28 c.p.p., dovrà farsi luogo all'applicazione analogica dei principi dell'ordinamento e dovrà darsi prevalenza al giudicato intervenuto senza che rilevi il suo mancato passaggio in giudicato.

La soluzione non si pone, poi, in contrasto con il principio di obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.).

Da una parte, infatti, il “vincolo di legalità insito nel carattere di obbligatorietà” impedisce che la medesima azione venga reiterata. Dall'altra, la consumazione del potere di azione con il suo primo esercizio rimane pur sempre soggetta al controllo giurisdizionale. Ed infatti nei casi di accertata diversità del fatto contestato il giudice dovrà determinarsi per la regressione del procedimento (art. 521, comma 2, c.p.p.), in ossequio al principio di correlazione tra il fatto contestato e il fatto ritenuto in sentenza.

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