Il credo religioso non costituisce “giustificato motivo” al porto d'armi non autorizzato

Michele Sbezzi
04 Luglio 2017

È sufficiente, perché il porto costituisca reato, la semplice possibilità che, per le potenzialità intrinseche dell'aggeggio stesso, un qualsiasi portatore decida improvvisamente di farne uso offensivo? Oppure, argomentando a contrariis, si tratta forse, e soltanto, di quelle circostanze (comunque da individuare) che rendono evidente come il porto sia, in quello specifico e singolo caso ...
Massima

Lo straniero che viene a vivere in Italia non deve rinunciare alla propria cultura ed alle proprie tradizioni; deve però uniformare le proprie condotte alle regole che sovrintendono alla pacifica convivenza.

Il suo credo religioso non scriminerà eventuali condotte cui la legge italiana connetta un'oggettiva rilevanza penale.

Il caso

Il Sig. Si. Ja., indiano sikh, circolava a Goito il 6 marzo 2013 recando alla cintola un coltello lungo oltre 18 centimetri, che si rifiutava di consegnare alla polizia locale asserendo di aver tenuto una condotta perfettamente conforme ai precetti della religione che dichiarava di professare. Si trattava del coltello detto kirpan che, come il turbante che indossava, era per lui il simbolo della propria religione.

Lo indossava dunque, in modo tanto evidente, proprio per mostrare aderenza e rispetto al proprio credo.

Venne quindi instaurato procedimento penale a carico del Sig. Si. Ja., imputato del reato contravvenzionale di porto ingiustificato di arma.

Nel corso del processo, il cittadino indiano si è difeso chiedendo gli venisse riconosciuta la ricorrenza della scriminante dell'esercizio del diritto a professare liberamente la propria fede. Il giudice di merito, però, ha respinto la tesi, ritenendo invece che le usanze religiose non possano integrare altro che una mera consuetudine culturale, che in quanto tale non può avere effetto abrogativo di una norma penale dettata a fini di sicurezza pubblica.

Il cittadino indiano ha quindi proposto ricorso alla Suprema Corte (n.d.a. personalmente, secondo la regola che la Riforma Orlando ha abrogato), richiamandosi più compiutamente alla tutela di cui all'art. 19 della nostra Costituzione, che garantisce, con la sola esclusione dei riti contrari al buon costume, il diritto di professare, liberamente ed in qualsiasi forma, la propria fede religiosa.

La Corte ha definitivamente rigettato tale interpretazione, confermando la sentenza di condanna con la decisione qui in commento.

La questione

L'art. 4 della l. 110/1975, al primo comma, pone il divieto, salve le autorizzazioni previste dall'art. 42, comma 3, Tulps, di portare fuori dalla propria abitazione armi e al secondo comma estende tale divieto per qualsiasi altro strumento che, per le circostanze di tempo e di luogo e senza giustificato motivo, sia chiaramente utilizzabile per l'offesa alla persona.

Evidente e indiscutibile il motivo che sottende all'emanazione di tal normativa.

Chiarissimi e condivisibili motivi di ordine pubblico e di difesa pubblica impongono che non si possa andare in giro armati, o comunque recando strumenti atti all'offesa che, in quanto tali, siano genericamente inquadrabili nel novero delle armi.

Poiché la regola non è mai tale se non soffre di eccezioni, la stessa norma in commento fa espresso richiamo all'art. 42 del Tulps, laddove si legge che «il questore ha facoltà di dare licenza per porto di armi lunghe ed il prefetto ha facoltà di concedere, in caso di dimostrato bisogno, licenza di portare rivoltelle o pistole di qualunque misura o bastoni armati […]»

Siamo nel campo della licenza di porto d'armi, che però nulla ha a che fare con l'argomento della presente trattazione.

Ciò che vi rientra in pieno, e che ha dato luogo a interpretazioni e contrasti, è invece il testo del secondo comma dell'art. 4, sopra richiamato, che fa cenno ad un giustificato motivo, purtroppo affidato alla libera valutazione dell'interprete, che rende scriminato e quindi lecito il porto, seppur in difetto di licenza, di strumenti chiaramente considerabili come armi; decisamente ancor più criptici, infine, il limite, il significato ed il senso di quelle circostanze di tempo e di luogo alla luce delle quali è illecito il porto di qualsiasi altro strumento, che solo per la presenza di quelle circostanze, diventa inquadrabile nel novero delle armi.

È sufficiente, perché il porto costituisca reato, la semplice possibilità che, per le potenzialità intrinseche dell'aggeggio stesso, un qualsiasi portatore decida improvvisamente di farne uso offensivo?

Oppure, argomentando a contrariis, si tratta forse, e soltanto, di quelle circostanze (comunque da individuare) che rendono evidente come il porto sia, in quello specifico e singolo caso, finalizzato ad un uso lecito, che esclude l'offesa alla persona?

Negli anni, la giurisprudenza si è orientata verso interpretazioni restrittive, negando la ricorrenza di ogni giustificazione in tutti quei casi in cui non fosse addirittura evidente la finalizzazione della condotta di porto a un uso “pacifico” di oggetti che, pur solo potenzialmente, fossero utilizzabili contro l'integrità fisica.

Così, va considerata certamente lecita la condotta del contadino che, recandosi in campagna, porta con sé in macchina una vanga, un'accetta, una lama affilata o altro; e, allo stesso modo, lecita è la condotta di chi vada a mare portandosi l'attrezzatura subacquea, fucile, arpione e pugnale compresi.

In tali casi, infatti, sembra potersi dire evidente che l'uso che ci si propone di strumenti, aggeggi ed armi è del tutto pacifico e, quindi, giustificabile perché non diretto all'offesa.

Ovviamente, però, essendo la decisione affidata al giudice-interprete, può anche accadere che, al contrario, un apparecchio che produce scosse elettriche, «essendo naturalmente destinato ad offendere l'eventuale aggressore, costituisce arma il cui porto non autorizzato[…]integra la contravvenzione prevista e punita dall'art. 4, comma 1,l. 110/75». (Cass. pen., Sez. I, 18 dicembre 2003, n. 25912). Eppure, proprio in tal caso, il giudice aveva addirittura ritenuto che l'aggeggio in questione fosse finalizzato a offendere l'eventuale aggressore; cioè, che fosse destinato a difendersi nel caso fosse stato necessario. Esclusa era quindi ogni possibilità di condotta offensiva.

Un mazza da baseball, portata fuori dall'abitazione senza giustificato motivo, è stata ritenuta arma impropria perché il soggetto agente non si stava recando a farne un uso sportivo; la condotta è stata quindi perciò solo ritenuta tale da integrare reato e fondare una sentenza di condanna (Cass. pen., Sez. VII, 15 gennaio 2015, n. 34774). Non poteva ritenersi sussistente alcuna scriminante e la condotta, oggettivamente considerata, rispondeva esattamente alla tipicità espressa dalla norma penale. Evidentemente, ove il soggetto agente si fosse trovato sulla strada del campo sportivo, avrebbe potuto ottenere che si ritenesse sussistente una circostanza giustificatrice di luogo e tempo.

In buona sostanza, possiamo probabilmente sostenere che, in questo come in altri casi, l'eccessiva genericità di norme destinate ad integrare o informare precetti penali ha rischiato di fondare decisioni, a volte, apparentemente incompatibili tra loro se non addirittura contrastanti.

Le soluzioni giuridiche

A ciò pone rimedio la I Sezione penale della Suprema Corte, che ha definitivamente giudicato il caso del cittadino indiano di religione sikh con una più chiara esposizione di fatti e riferimenti normativi.

La sentenza si muove nel difficoltoso ambito dei reati culturalmente orientati, cioè di quelle condotte che, seppur ispirate a usi e costumi (culture, dunque) perfettamente leciti in altri Paesi, perdono in Italia ogni rilevanza di giustificazione culturale e tradizionale di condotte oggettivamente previste dalle nostre norme penali.

Significativamente, la Corte indica chiaramente che il porto di un coltello è giustificato quando il portatore si stia recando in giardino a potare alberi; così come il porto di un bisturi è giustificato nel caso del medico chirurgo che, durante le proprie visite, abbia con sé una borsa professionale in cui custodisca anche quell'affilatissimo aggeggio. Ciò perché il giustificato motivo ricorre «quando le esigenze dell'agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell'oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento ed alla normale funzione dell'oggetto(ex multis, sez. 1° n. 4498 del 14.1.2008, rv. 238946)»

Ma indica, altresì, chiaramente che solo le circostanze di luogo e tempo possono far considerare scriminate quelle condotte; tanto che esse, tenute dai medesimi soggetti ma in circostanze diverse da quelle, costituirebbero certamente reato.

Da ciò, la Corte argomenta che un comportamento riconducibile ad un fattore culturale o religioso non può rientrare nel significato di circostanza di tempo e di luogo e, seppur abbia chiaramente orientato la condotta del soggetto agente, non può esser valutato alla stessa stregua del giustificato motivo.

Ciò perché il Legislatore, nel formulare l'art. 4, della l. 110 del 1975, come già riconosciuto e sottolineato da Sez. un. 7739 del 9 luglio 1997, ha posto in forma di tipicità necessaria una clausola scriminante connessa in via esclusiva al giustificato motivo.

È proprio la tipicità, dunque, a rendere inestensibili ambito e significato della clausola.

Né il soggetto agente, il quale dichiari di aver assunto quella tal condotta solo a motivo del proprio credo religioso, può far riferimento a una pretesa posizione di buona fede, che è invece inammissibile in chi è consapevole di essersi trasferito in un Paese diverso e non può quindi pretendere di avere il diritto di proseguire in condotte che, lecite nel Paese di origine, risultano oggettivamente incompatibili con le regole dello Stato in cui ha deciso di venire a vivere. Peraltro, argomenta la Corte, il reato contestato ha natura contravvenzionale e, quindi, è punibile anche a titolo di colpa. Ovvero, nessuna considerazione va concessa al fatto che il soggetto abbia agito con colposa disattenzione piuttosto che con dolo.

La decisione di stabilirsi in un Paese in cui si sappia che i valori di riferimento sono diversi da quelli della terra da cui si proviene, impone il rispetto delle nuove regole, cui è indispensabile uniformarsi.

L'integrazione non impone affatto l'abbandono della cultura di origine; impone, però, l'obbligo di uniformare i propri valori a quelli del mondo in cui si è scelto di inserirsi, verificando preventivamente la compatibilità dei propri valori a quelli dell'ordinamento in cui si è deciso di vivere.

Peraltro, come ricorda la Corte, anche l'art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo stabilisce che «la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell'ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui».

Osservazioni

Espressamente, la Corte sottolinea che l'art. 4 della l. 110/1975 ha base nel diritto nazionale ed è accessibile a qualsiasi interessato, il quale può anche far ricorso a consulenti “illuminati” per meglio comprenderne la portata e la consequenziale esigenza di regolare (rectius, uniformare?) la propria condotta; afferma dunque il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o oggetti atti ad offendere.

Con ciò la Corte ribadisce, altresì, l'indiscutibile principio dell'applicabilità della legge penale italiana a tutti i fatti commessi sul territorio italiano, a prescindere dalla nazionalità dell'agente.

La valenza della sentenza, però, è ovviamente ben altra, soprattutto in un'epoca come la nostra, in cui gli spostamenti di masse di migranti rendono assolutamente doveroso prendere atto del dato di fatto storico-sociale consistente nel contesto di multietnicità, che comporta a sua volta l'inevitabile e continuo confronto tra etnie profondamente diverse tra loro, portatrici di culture, usi e costumi – anche religiosi – spesso incompatibili.

Indispensabile, sempre di più, sarà trovare un nucleo comune, fatto soprattutto di regole condivise o quantomeno accettate, in cui migranti e società di accoglienza dovranno tutelare la reciproca, pacifica convivenza.

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