Omessa dichiarazione di plusvalenze derivanti dal contratto di sale and lease back

04 Novembre 2016

I giudici della Corte, nel decidere il ricorso proposto, affrontano la tematica afferente alle modalità di imputazione temporale delle componenti reddituali che emergono dalle operazioni di sale and lease back, al fine di chiarire, in particolare, se esse debbano essere ripartite in più annualità, tante quante sono quelle di durata del contratto di leasing ovvero se debbano essere imputate, per intero, all'esercizio dell'annualità in cui sia stata realizzata la cessione del bene.
Massima

La disciplina contenuta nel Tuir non è applicabile alle plusvalenze patrimoniali derivanti da operazioni di compravendita con locazione finanziaria al venditore poiché la causa del contratto di sale and lease back differisce da quella del contratto tipico di vendita, ne consegue che la ripartizione della somma finanziata per la durata del contratto di sale and lease back è il criterio da adottare per il computo della plusvalenza e che tale criterio appare assolutamente coerente con la causa effettiva del contratto.

Il caso

Il tribunale di Sassari respingeva la richiesta di riesame proposta dall'imputato avverso il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni allo stesso intestati, corrispondenti all'importo dell'imposta non dichiarata ed evasa, emesso dal Gip sulla base della ritenuta sussistenza di indizi di reato, in merito alla fattispecie di cui all'art. 5, d.lgs. 74 del 2000.

L'imputato ricorreva per Cassazione, per mezzo del proprio difensore, eccependo, con il primo motivo, l'erronea applicazione e l'inosservanza degli artt. 322-terc.p., art. 321 e 125 c.p.p., poiché il sequestro era stato disposto senza una previa verifica della disponibilità del profitto del reato e omettendo del tutto la motivazione o comunque impiegando una motivazione solo apparente.

Con il secondo motivo, l'imputato si doleva dell'erronea applicazione e dell'inosservanza degli artt. 322-ter c.p., art. 321 e 125 c.p.p. e art. 2425-bis c.c., argomentando che la plusvalenza derivante dal contratto di sale and lease back dell'immobile, ammontante a 455.950,03 euro, era stata erroneamente imputata per intero all'anno di imposta 2010, dovendo, invece, essere distribuita per tutta la durata della locazione finanziaria, così come disposto dal principio di competenza contenuto nell'art. 2425-bis c.c.

Il proponente, peraltro, rappresentava che il tribunale non aveva neppure considerato, al fine di stabilire l'importo del reddito imponibile, con conseguente incidenza sull'entità dell'imposta evasa, la perdita d'esercizio ammontante a 234.000,00 euro nonché le spese notarili sostenute per la stipula dell'atto.

Da ultimo, il ricorrente, richiamandosi ad una pronuncia della Corte costituzionale, la n. 37 del 2015, secondo cui i funzionari dell'Agenzia delle Entrate, ai quali sono stati illegittimamente attribuiti incarichi dirigenziali, sarebbero privi di poteri di attribuzione, lamentava che il tribunale del Riesame avesse apoditticamente fatto proprie le conclusioni dell'avviso di accertamento che doveva, invece, ritenersi nullo ed inesistente poiché sottoscritto da un dirigente carente di potere.

La questione

I giudici della Corte, nel decidere il ricorso proposto, affrontano la tematica afferente alle modalità di imputazione temporale delle componenti reddituali che emergono dalle operazioni di sale and lease back, al fine di chiarire, in particolare, se esse debbano essere ripartite in più annualità, tante quante sono quelle di durata del contratto di leasing ovvero se debbano essere imputate, per intero, all'esercizio dell'annualità in cui sia stata realizzata la cessione del bene.

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente, per motivi di opportunità logico-giuridica, la Corte risolveva la questione relativa all'inesistenza o alla nullità dell'avviso di accertamento sottoscritto dal funzionario carente di potere che avrebbe determinato, secondo l'assunto difensivo, l'automatica inutilizzabilità, in sede penale, dell'avviso stesso nonché degli atti su cui esso si fonda, con particolare riguardo al processo verbale di constatazione.

Ebbene i giudici respingevano la questione superando l'eccezione difensiva.

Anzitutto, la Corte dava atto della sentenza del giudice delle leggi, cui faceva richiamo il ricorrente, che ha sancito l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, comma 24, del d.l. 16 del 2012, che aveva autorizzato, per quanto di interesse nel caso in esame, l'Agenzia delle Dogane, quella delle Entrate e quella del Territorio, ad attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, da cui conseguiva la nullità degli avvisi di accertamento sottoscritti da funzionari privi di qualifiche dirigenziali e incaricati in base ad una norma dichiarata anticostituzionale.

Affermavano, tuttavia, i giudici che, in primo luogo, il ricorrente non aveva dato prova della mancanza della qualifica dirigenziale in capo al funzionario sottoscrittore dell'avviso.

In secondo luogo, oltrepassando anche tale circostanza, affermavano un importante principio di diritto. In particolare, la suprema Corte sanciva che le patologie afferenti all'avviso di accertamento spiegano i loro effetti nell'ambito del rapporto giuridico processuale-tributario, non incidendo, in alcun modo, sulla portata probatoria che questi hanno invece nel processo penale.

Del resto, a tale conclusione il supremo Consesso giungeva precisando che, diversamente da quanto avviene in sede tributaria, laddove l'avviso di accertamento costituisce l'atto d'impulso processuale con cui l'Erario promuove la pretesa all'adempimento dell'obbligazione tributaria, per cui deve possedere specifici requisiti per la sua validità, ciò non accade invece nel processo penale.

In tale ultima sede, invero, l'avviso di accertamento è unicamente un mezzo di prova, che veicola le informazioni necessarie all'esercizio dell'azione penale ma non è l'atto che la incorpora. Pertanto, la circostanza – eventualmente sussistente – che esso sia affetto da nullità non inficia l'atto di impulso che rimane, invece, nelle mani del pubblico ministero.

Risolta tale questione, i giudici si concentravano sul merito delle doglianze.

Il primo motivo di ricorso, relativo alla asserita mancanza di una preventiva verifica della disponibilità del profitto del reato, veniva ritenuto infondato dalla Corte di cassazione, atteso che il tribunale aveva correttamente dato atto del mancato rinvenimento delle somme costituenti il profitto del reato.

Passando all'esame del secondo motivo di ricorso, i giudici di legittimità offrivano, preliminarmente, una chiara definizione del contratto di sale and lease back, richiamando la giurisprudenza civile della stessa Corte, secondo la quale tale negozio giuridico atipico si sostanzia nella vendita di un bene strumentale ad una società di leasing, la quale a sua volta retrocede in locazione finanziaria il bene medesimo al venditore.

Riconosciuta la liceità di tale contratto, l'attenzione del supremo Consesso si soffermava sulle modalità di computo, ai fini fiscali, del corrispettivo della vendita ricevuto dal venditore da parte della società di leasing acquirente.

La Corte richiamava, a tale proposito, il disposto dell'art. 2425-bis, comma 4, c.c., che, nel prevedere le modalità di contabilizzazione delle voci del conto economico di cui all'articolo precedente, stabilisce che le plusvalenze derivanti da operazioni di compravendita con locazione finanziaria al venditore sono ripartite in funzione della durata del contratto di locazione.

A tale riguardo, invece, il Testo unico delle imposte sui redditi, non prevede espressamente una disciplina specifica per tali tipi di operazioni, stabilendo, in generale, all'art. 86, che le plusvalenze dei beni relativi all'impresa concorrono a formare il reddito se sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso, per l'intero ammontare, nell'esercizio in cui sono state realizzate, salvo espressa scelta del contribuente di ripartire la plusvalenza in quote costanti nell'esercizio in cui è stata realizzata e nei quattro successivi, quando il bene sia posseduto da almeno tre anni.

Nel caso posto all'esame dei giudici, il contribuente non aveva potuto scegliere tale ultima facoltà, poiché l'impresa era posseduta da meno di tre anni e, pertanto, l'amministrazione finanziaria aveva attribuito per intero la plusvalenza derivante dalla cessione dell'immobile al reddito maturato nell'anno 2010, anno in cui si era realizzata l'operazione.

La Corte, tuttavia, riteneva che la disciplina contenuta nel Tuir non fosse applicabile alle plusvalenze patrimoniali derivanti da operazioni di compravendita con locazione finanziaria al venditore, poiché la causa del contratto di sale and lease back differisce da quella del contratto tipico di vendita.

Secondo il dictum dei giudici di legittimità, proprio la diversa causa finanziaria del contratto di sale and lease back impedisce di assimilare, ai fini fiscali, la somma ricevuta dal concedente al corrispettivo dell'acquirente, precisando che, la circostanza che il Legislatore tributario non abbia dettato una specifica disciplina per tali tipi di contratti, non può valere a dedurre l'inapplicabilità della normativa civilistica che stabilisce la ripartizione pluriennale della plusvalenza ottenuta con la cessione del bene.

Del resto, tale criterio è l'unico al momento espressamente previsto dal Legislatore e, in assenza di norme derogatorie esplicite, deve essere applicato al caso concreto.

I giudici concludevano che la ripartizione della somma finanziata per la durata del contratto di sale and lease back è il criterio da adottare per il computo della plusvalenza e che tale criterio appare assolutamente coerente con la causa effettiva del contratto che, all'evidenzia, si differenzia dal corrispettivo derivante da una normale compravendita.

Secondo il supremo Consesso, un'assimilazione dei succitati tipi di contratto – ai fini del computo fiscale – rappresenterebbe un un'ingiustificata forzatura del dettato normativo, che non avrebbe alcun fondamento.

Per le ragioni esposte, la Corte aveva annullato l'ordinanza impugnata, con rinvio al tribunale di Sassari affinché questo effettuasse un nuovo calcolo, ripartendo la plusvalenza derivante dalla cessione del bene per la durata del contratto di locazione, al fine di accertare se, nel caso in esame, era stata superata, per l'anno di imposta di riferimento (segnatamente l'annualità 2010), la soglia di punibilità prevista dall'art. 5, del d.lgs. 74 del 2000 e, in caso positivo, rideterminare l'entità effettiva dell'imposta evasa.

Osservazioni

Il tema delle modalità di imputazione temporale delle componenti reddituali derivanti da operazioni da sale and lease back è molto dibattuto e vede un continuo confronto tra i diversi orientamenti interpretativi della letteratura giuridica e dell'amministrazione finanziaria.

Secondo il testo dell'art. 2425-bis c.c., introdotto dall'art. 16 del d.lgs. 310 del 2004, nell'ambito della riforma societaria, nel bilancio d'esercizio le plusvalenze generate dalle operazioni di sale and lease back vanno ripartite su tutta la durata del contratto di locazione finanziaria.

In altre parole, l'eventuale plusvalenza che si genera dalla differenza positiva tra prezzo della vendita ed il valore contabile netto del bene, viene ripartita in più esercizi in funzione della durata del contratto di leasing.

Tale criterio contabile si ispira al principio generale della prevalenza della sostanza sulla forma giuridica dell'operazione, espresso dall'art. 2423-bis c.c., per effetto del quale l'operazione di sale and lease back appare – dal punto di vista sostanziale – come un'operazione unitaria, non rilevando autonomamente le due parti del contratto (vendita e leasing).

La questione aperta riguarda, invece, se tale criterio possa ritenersi valido ed utilizzabile anche nel computo ai fini fiscali.

Già prima della sentenza in commento, la dottrina maggioritaria aveva ritenuto tali criteri validi anche in ambito fiscale, atteso che non si rinviene una disciplina specifica nel Testo unico delle imposte sui redditi.

Di segno avverso è, invece, l'orientamento seguito dall'Agenzia delle Entrate, in base al quale il regime di tassazione fiscale della plusvalenza si discosterebbe da quello contabile.

A mente delle direttive contenute nella circolare 38 del 23 giugno 2010, il contratto in commento deve essere suddiviso nei due autonomi negozi giuridici, della vendita e della cessione, che devono essere trattati in modo distinto.

Conseguentemente, ad avviso dell'amministrazione finanziaria, la suddivisione del contratto atipico in due autonome operazioni negoziali, comporterebbe l'applicazione, in relazione alla cessione del bene, dell'art. 86 Tuir, che fissa i criteri per la tassazione delle plusvalenze realizzate, tra le altre, mediante cessione a titolo oneroso.

Secondo questa impostazione, dunque, la plusvalenza derivante dalla cessione del bene dovrebbe concorrere interamente alla porzione del reddito nell'esercizio in cui il bene è stato ceduto, così come stabilito dal criterio di competenza per l'imputazione temporale dei proventi, di cui all'art. 109, comma 2, Tuir

Viene fatta salva, per il contribuente, allorquando il bene è posseduto da almeno tre anni, la facoltà di scegliere se ripartire la plusvalenza derivante dalla cessione in quote costanti nell'esercizio in cui si è realizzata e nei successivi quattro esercizi.

Appare evidente, alla luce delle considerazioni sopra svolte, che seguendo il criterio offerto dall'amministrazione finanziaria si verifica una divergenza tra la disciplina di imputazione civilistica e quella fiscale.

Del resto, la posizione dell'Agenzia delle Entrate è stata oggetto di vivaci critiche in quanto penalizzerebbe eccessivamente il contribuente che effettua tale tipo di operazione contrattuale, che secondo quanto detto, dovrebbe essere tassata, al più, in cinque esercizi.

Sul tema constava, già prima dell'intervento della Corte di cassazione, una presa di posizione da parte della giurisprudenza di merito tributaria che criticava e si discostava dall'interpretazione dell'Agenzia delle Entrate.

A parere di chi scrive, quanto affermato dai giudici di legittimità nella pronuncia in commento appare senz'altro più condivisibile rispetto all'illogica posizione dell'amministrazione finanziaria, che finisce per distorcere la ratio dell'art. 86, comma 4, Tuir.

La norma citata mira, invero, ad agevolare il contribuente nelle ipotesi in cui la plusvalenza è in realtà di competenza di un unico esercizio, prevedendone, come detto, la tassazione in cinque anni.

Di conseguenza, sarebbe un paradosso addurre che la stessa norma può essere applicata per rendere peggiorativa la tassazione della plusvalenza derivante dalla cessione del bene locato, quando questa, per espressa previsione dell'art. 2425-bis c.c., è già ripartita in più esercizi.

Appare evidente che una simile applicazione della norma, nel caso in esame, rappresenterebbe una forzatura interpretativa in contrasto con l'essenza stessa della previsione legislativa.

La soluzione offerta dal supremo Consesso appare, quindi, maggiormente condivisibile e più aderente non solo alla natura del contratto di sale and lease back, che è quello di finanziare l'impresa, ma anche ai principi contabili che regolano l'imputazione dello stesso nel bilancio d'esercizio.

Guida all'approfondimento

PELLEGRINO, Le nuove regole sul leasing rilanciano il lease back, in ecnews.it;

GARRINI, La plusvalenza da lease back è tassabile per competenza, in ecnews.it;

BARONE, La plusvalenza da lease back si ripartisce in base al contratto in ipsoa.it;

GAIANI, L'imputazione a periodo delle plusvalenze da lease back: regole contabili e disciplina fiscale in bluedi.it

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