La Cassazione dopo la Riforma Orlando

Sergio Beltrani
05 Luglio 2017

La legge 23 giugno 2017, n. 103, c.d. Riforma Orlando incide, sotto più profili, sull'attività della Corte di cassazione. Vengono anzitutto sottratte alla Corte di cassazione alcune competenze: 1. in tema d'impugnazione dei provvedimenti di archiviazione (art. 1, comma 33, l. 103/2017), trasferite al tribunale; 2. in tema d'impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere emesse dal Gup (art. 1, comma 38), trasferite in prima battuta alla Corte d'appello; contro le sentenze di non luogo a procedere pronunciate in appello, possono ricorrere per cassazione ...
Abstract

La legge 23 giugno 2017, n. 103, c.d. Riforma Orlando incide, sotto più profili, sull'attività della Corte di cassazione. Vediamo come.

Le competenze

Vengono sottratte alla Corte di cassazione alcune competenze:

  • in tema d'impugnazione dei provvedimenti di archiviazione (art. 1, comma 33, l. 103/2017), trasferite al tribunale (chissà mai perché in composizione monocratica: che senso ha prevedere il controllo di un magistrato monocratico da parte di un altro magistrato monocratico? È tra l'altro notorio che le funzioni di Gip sono tradizionalmente ricoperte da magistrati con particolare esperienza, il che non sempre accade in tribunale, dove giudice monocratico può essere anche un Got);
  • in tema d'impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere emesse dal Gup (art. 1, comma 38), trasferite in prima battuta alla Corte d'appello; contro le sentenze di non luogo a procedere pronunciate in appello, possono ricorrere per cassazione – ma solo per i motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell'art. 606 c.p.p. e quindi non anche per vizi di motivazione – l'imputato e il procuratore generale: sull'impugnazione la Corte di cassazione decide in camera di consiglio nelle forme previste dall'art. 611 c.p.p. (e quindi con rito camerale non più partecipato, ex art. 127 c.p.p., ma non partecipato); è stata eliminata tout court (art. 1, comma 39) la facoltà d'impugnazione della parte civile che non sia anche persona offesa (ma mero danneggiato);
  • in tema di rescissione del giudicato: l'art. 1, comma 70 ha abrogato l'articolo 625-ter c.p.p., ridisciplinando l'istituto nel nuovo art. 629-bis c.p.p. (introdotto dal successivo comma 71), il cui secondo comma prevede che la richiesta di rescissione del giudicato sia presentata (personalmente dall'interessato o dal difensore munito di procura speciale autenticata nelle forme previste dall'articolo 583, comma 3, c.p.p. entro trenta giorni dal momento dell'avvenuta conoscenza del provvedimento) non più alla Corte di cassazione, bensì alla Corte d'appello nel cui distretto ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento (la corretta individuazione del giudice competente è richiesta a pena d'inammissibilità); la sentenza della Corte di appello è ricorribile per Cassazione (come previsto dal richiamato art. 640 c.p.p. in materia di revisione). In proposito, sorge spontanea una domanda: ma non ci si potrebbe pensare un po' meglio prima, sulle disposizioni da introdurre, per non doverle cambiare dopo appena tre anni (l'art. 625-ter era in vigore dal 2014)?

Trattasi di modifiche sulle quali non c'è molto da dire, se non che perseguono dichiaratamente la finalità di alleggerire (ma si tratta di una goccia di mare nell'oceano) il carico di lavoro – unanimemente ritenuto non ragionevole – gravante sulla Corte di cassazione, trasferendone limitate competenze in parte al tribunale, in parte alla Corte d'appello (a sua volta “alleggerita” dalla reintroduzione del “patteggiamento” in appello: cfr. nuovo art. 599-bis c.p.p.).

I limiti alla facoltà di ricorso

La novella introduce due diverse tipologie di limiti, la prima per così dire oggettiva, l'altra discutibilmente soggettiva:

  • l'art. 1, comma 50, introduce nell'art. 448 c.p.p., dopo il comma 2, il nuovo comma 2-bis, in tema di impugnazione della sentenza di “patteggiamento”, stabilendo che il P.M. e l'imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la predetta sentenza solo per motivi attinenti «all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza»;
  • l'art. 1, comma 69, aggiunge all'art. 608 c.p.p., dopo il comma 1, in tema di ricorso del P.M. contro le doppie conformi sentenze di proscioglimento, un successivo comma 1-bis, a norma del quale «Se il giudice di appello pronuncia sentenza di conferma di quella di proscioglimento, il ricorso per cassazione può essere proposto per i soli motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell'articolo 606», così precludendo al P.M. - in caso di conferma in appello della sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado - la facoltà di ricorso per cassazione per mancata assunzione di una prova decisiva né per vizio di motivazione.

Non può che essere accolta con favore la riduzione dei casi nei quali è possibile ricorrere per cassazione contro una sentenza di “patteggiamento”: tali ricorsi, nella stragrande maggioranza dei casi meramente dilatori (“si è vero ho patteggiato, ma perché non mi avete assolto lo stesso?”; “la pena che ho chiesto è troppo alta, perché me la avete data”; “non avevo chiesto le generiche, ma perché non me le avete date lo stesso?” … per non parlare dei molteplici ricorsi che lamentano la mancata concessione di benefici in realtà già chiesti ed ottenuti), che ingolfano le cancellerie della Corte di cassazione ed ostacolano la celere definizione dei ricorsi “seri”.

Desta invece allarme per la sua ingiustificata pretestuosità la modifica dell'art. 608 c.p.p. La nuova disposizione è all'evidenza incostituzionale per violazione dell'art. 111 Cost., negando immotivatamente al solo P.M. l'esercizio di una facoltà al contrario sempre e comunque consentita – a parti invertite – all'imputato. Certa la sua illegittimità costituzionale, certi gli sconquassi che si verificheranno prima dell'immancabile declaratoria della Corte costituzionale (le vicende della legge Pecorella docent …). Ma perché farci del male ?

Le disposizioni generali

Il ricorso. Dal combinato disposto delle modifiche apportate dall'art. 1, commi 54 e 63, della L. 103/2017, rispettivamente agli artt. 571 e 613 c.p.p. emerge che la facoltà di proporre impugnazione personalmente è stata soppressa limitatamente al solo ricorso per cassazione. Finalmente! aggiungiamo. In precedenza, fatta la legge (art. 613, comma 1: «atto di ricorso, le memorie ed i motivi nuovi devono essere sottoscritti, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell'albo speciale della Corte di cassazione»), veniva immediatamente indicato l'escamotage (art. 613, comma 1: «salvo che la parte non vi provveda personalmente») che in concreto – in palese elusione di quanto previsto, in via di principio – consentiva la proposizione del ricorso anche con l'ausilio di un difensore non abilitato al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, avendo cura di sottoscrivere personalmente il ricorso.

La modifica va accolta con favore, perseguendo evidenti finalità deflattive (in Francia una tale restrizione è già operante da anni) e non comportando, in concreto, un serio vulnus per l'esercizio del diritto di difesa, in considerazione dell'estremo tecnicismo che è connaturale al giudizio di legittimità ed al relativo ricorso.

Il contenuto dell'atto d'impugnazione. L'art. 1, comma 55, della novella sostituisce la precedente formulazione dell'art. 581 c.p.p., prevedendo che l'impugnazione si propone con atto scritto indicante il provvedimento impugnato, la data del medesimo e il giudice che lo ha emesso, con enunciazione specifica a pena di inammissibilità:

a) dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione;

b) delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione;

c) delle richieste, anche istruttorie;

d) dei motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

Si prevede, tuttora, che l'impugnazione deve essere proposta con atto scritto, nel quale devono essere indicati il provvedimento impugnato, la data del medesimo ed il giudice che lo ha emesso: in relazione a tali elementi, le precedenti elaborazioni conservano in toto la loro validità.

La violazione di queste disposizioni comporta l'inammissibilità dell'impugnazione ex art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p.

Diversamente dalla precedente formulazione della disposizione (che prevedeva la necessità di indicare specificamente soltanto, nell'ambito dell'enunciazione dei motivi, le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta), la nuova prevede, espressamente a pena d'inammissibilità, l'enunciazione specifica:

  • dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione (lett. a)): in precedenza, di tali elementi era richiesta la mera enunciazione, non la «enunciazione specifica», e quindi, la sanzione d'inammissibilità (ex art. 591, comma 1, lett. c)) non operava in presenza di un'enunciazione non specifica, ma soltanto in difetto dell'enunciazione;
  • delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa od erronea valutazione (lett. b)): in precedenza, la necessità delle predette indicazioni, pur non espressamente richiesta, era desumibile (e correntemente desunta dalla giurisprudenza) dalla già prevista necessità di specifica indicazione degli elementi di fatto che sorreggevano ciascuna doglianza [e sanzionata a pena d'inammissibilità ex art. 591, comma 1, lett. c));
  • delle richieste, anche istruttorie (lett. c)): in precedenza, le predette indicazioni non erano richieste, e, pertanto, la novella comporta l'inammissibilità per difetto di specificità delle richieste soltanto implicitamente desumibili, in precedenza ritenute dalla giurisprudenza ammissibili;
  • dei motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta (lett. d)). L'indicazione di tali elementi in precedenza era già necessaria, ed in difetto operava la sanzione d'inammissibilità ex art. 591, comma 1, lett. c).

La novella persegue lodevolmente l'esigenza di propiziare una maggiore specificità degli atti d'impugnazione, particolarmente sentita con riferimento ai ricorsi per cassazione (non rientrando tra i poteri-doveri del giudice di legittimità l'indiscriminato accesso agli atti): invero, il carattere autonomo di ogni atto di impugnazione postula che esso sia idoneo a consentire il controllo devoluto al giudice superiore; in difetto, i motivi di gravame non potrebbero assolvere la loro tipica funzione di critica, ma si risolverebbero in una mera apparenza.

Tutte le impugnazioni trovano fondamento giuridico nell'esigenza di consentire alla parte, legittimata e che vi abbia interesse, di far valere asserite discordanze tra un determinato provvedimento emesso da un giudice penale e la legge, che rendano il provvedimento contra ius; in difetto, si sarebbe al cospetto di una “non impugnazione”. Nessuna disposizione di legge, nazionale o sovranazionale, attribuisce all'imputato (od al suo difensore) il diritto di proporre impugnazione unicamente “per provarci”, o comunque per lucrare sui tempi necessari per esaminare l'impugnazione stessa e, quindi, in definitiva, per giungere al giudicato.

Di qui l'esigenza, evidentemente condivisa dal legislatore, di imporre alle parti più rigorosi oneri di specificità (e, contestualmente, di prevedere forme semplificate e tempi più celeri per la definizione delle impugnazioni puramente dilatorie: cfr. sub art. 610), per evitare strumentalizzazioni dell'istituto, e riservare tutte le risorse alla disamina delle impugnazioni proposte da quanti abbiano effettivamente qualcosa da lamentare.

Inizia così, anche nell'ordinamento processualpenalistico italiano, a farsi strada, sia pur timidamente, l'idea che l'atto d'impugnazione meramente dilatorio non costituisce un diritto per l'imputato, e provoca danni per l'amministrazione della giustizia, e quindi per l'intera collettività.

Il rito

I ricorsi in materia cautelare reale. L'art. 1, comma 60, modifica il comma 3 dell'art. 325 c.p.p., prevedendo che i ricorsi in cassazione aventi ad oggetto provvedimenti cautelari reali siano trattati con rito camerale partecipato, ex art. 127 c.p.p., come per venticinque anni si era pacificamente (ed, a nostro avviso, correttamente: cfr. in questo sito S. BELTRANI, Il rito applicabile ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti cautelari reali) ritenuto anche nella vigenza della precedente formulazione della norma, sulla scia di due autorevoli decisioni delle Sezioni unite (sentenze n. 4/1990, e n. 14/1993), fino al frettoloso revirement operato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 51207/2015, che aveva optato per il rito camerale non partecipato ex art. 611 c.p.p.

La modifica va indubbiamente accolta con favore.

L'indicazione della causa d'inammissibilità del ricorso rilevata all'atto dello “spoglio”. L'art. 1, comma 61, aggiunge, alla fine del comma 1 dell'art. 610 c.p.p., le seguenti parole: «con riferimento al contenuto dei motivi di ricorso».

Ai sensi dell'art. 610, comma 1, se il magistrato addetto per delega del Primo Presidente all'esame preliminare di un ricorso ravvisa la sussistenza di una causa di inammissibilità, il ricorso è assegnato alla VIISezione, che decide, ex artt. 610, comma 1, e 611, con procedura camerale non partecipata: le parti hanno, pertanto, unicamente facoltà di presentare motivi nuovi (nella ristretta accezione accolta dalla giurisprudenza, ex art. 585, cui si rinvia, e quindi ammissibili solo se ed in quanto in relazione con le questioni già devolute con il ricorso) e memorie fino a quindici giorni prima dell'udienza, e, se qualcuna di esse si avvale di tale facoltà, le altre possono presentare memorie di replica fino a cinque giorni prima dell'udienza.

Il procuratore generale, i difensori delle parti private e gli imputati sprovvisti di difensore di fiducia, almeno trenta giorni (liberi) prima dell'udienza, ricevono comunicazione dell'avviso di fissazione, che contiene l'indicazione della causa di inammissibilità rilevata all'atto dell'esame preliminare.

La modifica introdotta dalla legge 103 intende ottenere che, all'atto dell'esame preliminare dei ricorsi per cassazione penali, sia indicata con maggior specificità di quanto attualmente avviene la causa d'inammissibilità rilevata prima facie come motivo di trasmissione degli atti alla VII Sezione della Corte di cassazione, con effettivo riferimento ai motivi di ricorso e, quindi, indicazione differenziata, motivo per motivo, in caso di rilievo di distinte cause d'inammissibilità. In tal modo, si assicura alle parti una difesa cartolare (dinanzi alla VII sezione non è prevista la partecipazione, ma il mero invio di memorie) più consapevole, calibrata sulla specifica ragione della trasmissione degli atti alla VII Sezione. Nei casi (plurimi) in cui i ricorsi siano meramente dilatori e tutti i motivi siano affetti dalla medesima causa d'inammissibilità, l'indicazione sollecitata potrà continuare ad essere estremamente sintetica; negli altri casi, concernenti ricorsi non meramente dilatori ma ciononostante prima facie ugualmente inammissibili, la più specifica indicazione richiesta dalla novella potrà meglio orientare le difese nell'esercizio della facoltà di presentare memorie.

Nel complesso, maggiori oneri per i magistrati addetti all'esame preliminare dei ricorsi ma ricadute non negative per il sistema, tenuto anche conto del fatto che l'eventuale inosservanza della disposizione non appare in alcun modo processualmente sanzionata, e che, come si riteneva in precedenza, la chiesta indicazione non è vincolante, potendo la VII Sezione anche dopo la novella, come in precedenza – in difetto di un chiaro divieto desumibile dalla novella - dichiarare l'inammissibilità del ricorso anche per una causa diversa da quella rilevata all'atto dell'esame preliminare del ricorso.

La declaratoria d'inammissibilità del ricorso de plano. L'art. 1, comma 62, introduce, nell'art. 610 c.p.p., il nuovo comma 5-bis, a norma del quale «nei casi previsti dall'articolo 591, comma 1, lettere a), limitatamente al difetto di legittimazione, b), c), esclusa l'inosservanza delle disposizioni dell'articolo 581, e d), la corte dichiara senza formalità di procedura l'inammissibilità del ricorso. Allo stesso modo la corte dichiara l'inammissibilità del ricorso contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e contro la sentenza pronunciata a norma dell'articolo 599-bis. Contro tale provvedimento è ammesso il ricorso straordinario a norma dell'articolo 625-bis».

La disposizione, inserita con evidenti e lodevoli intenti deflattivi, prevede la possibilità di dichiarare l'inammissibilità dell'impugnazione senza formalità di procedura (e quindi con procedura de plano, senza avvisi e senza facoltà di partecipazione all'udienza: la presentazione di memorie, pur non specificamente prevista, deve comunque ritenersi consentita - purché prima della decisione – dalla generale previsione di cui all'art. 121 c.p.p.) nei seguenti casi:

  • impugnazione proposta da chi non è legittimato (ex art. 591, comma 1, lett. a));
  • impugnazione proposta contro un provvedimento non impugnabile (ex art. 591, comma 1, lett. b)): la previsione (eccezionale, e quindi di “stretta” interpretazione) sembrerebbe non ricomprendere i ricorsi presentati contro provvedimenti ricorribili, ma per motivi non consentiti;
  • impugnazione proposta senza l'osservanza delle disposizioni di cui agli artt. 582 (per violazione delle disposizioni in tema di presentazione dell'impugnazione), 583 (per violazione delle disposizioni in tema di spedizione dell'atto d'impugnazione), 585 (per violazione delle disposizioni in tema di termini dell'impugnazione), 586 (per violazione delle disposizioni in tema di impugnazione di ordinanze emesse nel dibattimento) (ex art. 591, comma 1, lett. c));
  • rinuncia all'impugnazione (ex art. 591, comma 1, lett. d)).

Sempre senza formalità di procedura, ovvero de plano, andrà dichiarata l'inammissibilità del ricorso per cassazione:

  • contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444 ss. c.p.p. (ricorribile per i soli motivi previsti dal nuovo art. 448, comma 2-bis, c.p.p. pure inserito dalla novella: la previsione della declaratoria d'inammissibilità de plano del ricorso, per la sua generale formulazione, deve in questo caso ritenersi riferibile sia al ricorso presentato per motivi diversi da quelli consentiti, che a quello proposto per i predetti motivi, ma ugualmente inammissibile, ad es. per manifesta infondatezza);
  • contro la sentenza pronunciata a norma del nuovo art. 599-bis c.p.p. (concordato anche con rinuncia ai motivi di appello): naturalmente ciò non vuol dire che la predetta sentenza non sia ricorribile per cassazione, né che il ricorso sia sempre inammissibile.

La previsione della suddetta disciplina all'interno dell'art. 610 c.p.p., la cui disposizione iniziale (cfr. comma 1) prevede la trasmissione sempre e comunque (e senza la possibilità di deroghe) alla VII Sezione dei ricorsi prima facie inammissibili, lascia chiaramente intendere che, anche in questi casi, l'inammissibilità debba essere dichiarata – pur se de plano – dalla predetta Sezione (la tesi avversa sarebbe all'evidenza illogica, e comunque priva di fondamento giuridico).

Contro il provvedimento che dichiara l'inammissibilità del ricorso per cassazione senza formalità di procedura (che la legge non qualifica, ma che dovrà assumere la forma dell'ordinanza, emessa dal collegio, a somiglianza di quanto previsto per i provvedimenti emessi – questa volta anche previo espletamento delle formalità di rito – dalla VII Sezione) è ammesso il ricorso straordinario ex art. 625-bis.

La decisione

La rettifica della sentenza di patteggiamento.

L'art. 1, comma 49, inserisce, dopo il comma 1 dell'art. 130 c.p.p., il nuovo comma 1-bis, a norma del quale, quando, nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, devono essere rettificate solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la correzione è disposta anche d'ufficio, da parte del giudice che ha emesso il provvedimento; laddove quest'ultimo sia impugnato, alla rettificazione provvede la Corte di cassazione ex art. 619, comma 2.

I rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni unite. L'art. 1, comma 66, della novella aggiunge i nuovi commi 1-bis ed 1-ter all'art. 618, prevedendo, rispettivamente:

  • che, «Se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso»: con questa modifica si prevede l'impossibilità per le Sezioni della Corte di cassazione (ma, verosimilmente, nelle intenzioni del Legislatore, anche, sia pur indirettamente, per i giudici di merito, come ineludibile conseguenza) di non conformarsi al principio di diritto enunciato su una questione controversa dalle Sezioni Unite (per metterlo in discussione sarà necessaria una nuova rimessione alle stesse Sezioni unite, consentita soltanto alle Sezioni semplici della Corte di cassazione). La modifica intende all'evidenza tutelare l'esigenza di certezza del diritto, valorizzata anche da plurime decisioni della Corte Edu (che considerano tradizionalmente anomala l'esistenza di contrasti in seno alla Corti di legittimità: cfr. ad es., di recente, Corte Edu 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo), ma rischia di incidere pesantemente sul sistema, implicitamente affermando una sorta di vincolatività di determinati precedenti, ovvero quelli delle Sezioni unite, dai quali sarebbe possibile distaccarsi solo in presenza di nuova, diversa, decisione delle stesse Sezioni unite. È un prezzo certamente alto (in una realtà nella quale tradizionalmente i precedenti giurisprudenziali, pur autorevoli, non sono vincolanti), ma inevitabile, da pagare: i contrasti tra decisioni, soprattutto in sede di legittimità, oltre ad esporre il Paese agli strali della Corte di Strasburgo, non sono più tollerati dall'opinione pubblica, agli occhi della quale appaiono incomprensibili ed ingiustificabili;
  • che «Il principio di diritto può essere enunciato dalle sezioni unite, anche d'ufficio, quando il ricorso è dichiarato inammissibile per una causa sopravvenuta»: la modifica è sicuramente apprezzabile, poiché persegue le medesime esigenze di certezza del diritto (attualmente il sopravvenire di cause di inammissibilità del ricorso impedisce la risoluzione della questione controversa, che potrà essere esaminata solo nell'ambito di altro procedimento, previa nuova rimessione alle Sezioni Unite, con fisiologico protrarsi dell'incertezza derivante dal contrasto).

I nuovi casi di annullamento senza rinvio. L'art. 1, comma 67, sostituisce la lett. l) del comma 1 dell'art. 620 c.p.p., a norma del quale la Cassazione può pronunciare sentenza di annullamento senza rinvio, oltre che negli altri casi elencati, anche se «ritiene di poter decidere, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, o di rideterminare la pena sulla base delle statuizioni del giudice di merito o di adottare i provvedimenti necessari, e in ogni altro caso in cui ritiene superfluo il rinvio».

La disposizione rafforza i poteri decisori della Corte di cassazione, che viene legittimata a decidere l'annullamento della sentenza impugnata senza disporre la celebrazione del giudizio di rinvio quando è possibile decidere in tal senso (e quindi, con verdetti assolutori o d'improcedibilità) non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatti, ovvero quando è possibile conseguentemente rideterminare correttamente la pena, anche sulla base delle statuizioni del giudice del merito. La modifica persegue evidenti e condivisibili finalità deflattive, mirando a ridurre la durata del procedimento nei casi in cui il giudizio di rinvio si palesa in concreto fonte di lungaggini e, quindi, sostanzialmente inutile, potendo la stessa Corte di cassazione, anche sulla base delle statuizioni del giudice del merito, pronunciare le residuali statuizioni accessorie che si rendano necessarie all'esito del giudizio rescindente.

Le sanzioni per i casi d'inammissibilità dei ricorsi

Come noto, il ricorrente, nel caso in cui il ricorso per cassazione sia dichiarato inammissibile, può essere condannato al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende.

Le modifiche apportate dall'art. 1, commi 59, 64 e 65, rispettivamente agli artt. 48 (ricorso per rimessione) e 616 c.p.p. (ricorso ordinario) elevano gli importi delle predette sanzioni pecuniarie, il cui importo dovrà in concreto essere quantificato in considerazione della causa d'inammissibilità rilevata, e, conseguentemente, del grado di colpa ascrivibile al ricorrente per la proposizione del ricorso inammissibile.

In entrambi i casi, gli importi saranno aggiornati con cadenza biennale agli indici Istat.

Le modifiche perseguono evidenti finalità deflattive, mirando a scoraggiare la presentazione di ricorsi privi del benché minimo fondamento (non infrequenti in Cassazione), e vanno accolte con favore, naturalmente a condizione che la riscossione delle somme de quibus sia effettiva e celere; in caso contrario, la modifica risulterebbe meramente canzonatoria.

Il ricorso straordinario

L'art. 1, comma 68, aggiunge al comma 3 dell'art. 625-bis c.p.p., le parole «e senza formalità. L'errore di fatto può essere rilevato dalla corte di cassazione, d'ufficio, entro novanta giorni dalla deliberazione».

La disposizione rafforza i poteri officiosi della Corte di cassazione: era già previsto che l'errore materiale di cui al comma 1 dell'art. 625-bis c.p.p. potesse essere rilevato dalla Corte di cassazione d'ufficio; per effetto della modifica, esso può essere rilevato d'ufficio senza formalità, ovvero con procedimento de plano, nel termine di 90 giorni dalla deliberazione.

La modifica desta perplessità sia per la previsione di una disciplina ad hoc del termine (pari alla metà di quello previsto per il ricorso straordinario del condannato, e decorrente non – come per il condannato – dal deposito della sentenza, ma dalla deliberazione), ingiustificatamente disomogenea rispetto a quella ordinaria, sia per l'adozione del rito de plano, e quindi in difetto di contraddittorio, francamente improponibile ove un errore di fatto non sia evocato solo strumentalmente (come nei casi di cui al comma 4 dell'art. 625-bis c.p.p. nella sua attuale formulazione) ma possa sussistere effettivamente, tanto da essere rilevato di ufficio; essa appare, comunque, ingiustificata ed inopportuna nella misura in cui sacrifica il contraddittorio, non è ben chiaro in nome di quali concorrenti esigenze, e crea una evidente disarmonia con l'art. 130 c.p.p. che, nei casi residuali e di minor rilievo di correzione di errori materiali, continua a prevedere come regola generale l'adozione del rito camerale partecipato ex art. 127 c.p.p.

Le disposizioni transitorie

L'art. 1, comma 95 della novella prevede la sua entrata in vigore il trentesimo giorno successivo a quello della pubblicazione della novella nella Gazzetta ufficiale.

A partire da quel momento si porranno plurimi problemi di successione di leggi processuali nel tempo.

La novella contiene la previsione di alcune disposizioni transitorie ad hoc:

  • l'art. 1, commi 2, 3 e 4, con riferimento al nuovo art. 162-ter c.p. (ma il tema esula da quelli esaminati in questa sede);
  • l'art. 1, comma 36, con riferimento ai nuovi artt. 407 e 412 c.p.p. (ma anche questo tema esula da quelli esaminati in questa sede);
  • l'art. 1, comma 81, con riferimento alle modifiche di cui ai commi da 77 ad 80, riguardanti rispettivamente gli artt. 146-bis, 45-bis, 134-bis disp. att. c.p.p. e 7 d.lgs. 159 del 2011, tutti in tema di partecipazione a distanza al procedimento (ma ancora una volta il tema esula da quelli esaminati in questa sede).

Con specifico riferimento ad uno dei temi esaminati in questa sede, l'art. 1, comma 51, stabilisce che le disposizioni introdotte dal precedente comma 50 (in tema di limiti alla facoltà di presentare ricorso contro sentenze di patteggiamento) non si applicano nei procedimenti in cui la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 sia stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della novella.

Fuori da questi casi, esclusa da sempre la possibilità di ritenere la retroattività delle sole disposizioni favorevoli all'imputato (cfr. Sez. un., n. 44895 del 2014: «Il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza Cedu del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio tempus regit actum»), si porrà il problema di individuare l'actum che deve essere retto dal tempus.

In proposito le variabili sono molteplici, poiché è in astratto possibile avere riguardo:

  • alla data di emissione del provvedimento impugnato o della sua motivazione (ma in quest'ultimo caso l'individuazione del regime applicabile all'impugnazione verrebbe rimessa nella sostanza alla discrezionalità del giudice a quo, che può depositare il provvedimento prima o dopo dell'entrata in vigore della novella, o comunque alla casualità delle sue determinazioni);
  • alla data di presentazione dell'impugnazione (ma in questo caso l'individuazione del regime applicabile all'impugnazione verrebbe rimessa, nel caso in cui il termine per il ricorso inizi prima dell'entrata in vigore della novella e finisca dopo, nella sostanza, alla discrezionalità della parte interessata; si porrebbero, inoltre, gravi inconvenienti nei procedimenti con più parti, alcune delle quali potrebbero proporre l'impugnazione prima dell'entrata in vigore della novella ed altre dopo);
  • alla data di fissazione dell'udienza (ma in questo caso l'individuazione del regime applicabile all'impugnazione verrebbe rimessa, nel caso in cui il termine per il ricorso inizi prima dell'entrata in vigore della novella e finisca dopo, nella sostanza, alla discrezionalità dell'Autorità giudiziaria nella fissazione dell'udienza di trattazione).

Per ovviare alle possibili incertezze, e nella ferma ed ineludibile convinzione che l'individuazione del regime processuale applicabile all'impugnazione, in caso di successione di leggi nel tempo, non possa essere rimessa alla discrezionalità di chicchessia né alla pura casualità, ma debba essere collegata ad un riferimento certo, le Sezioni unite (sentenza n. 27614 del 2007) hanno già avuto modo di chiarire autorevolmente che «Ai fini dell'individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall'una all'altra, l'applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell'impugnazione» (fattispecie riguardante l'abrogazione dell'art. 577 c.p.p.).

A sostegno dell'affermazione, le Sezioni Unite hanno osservato che la formula tempus regit actum, se intesa nel suo significato letterale, riferita cioè alla legge del tempo in cui l'atto, isolatamente considerato, è compiuto (nella specie, presentazione dell'impugnazione), conduce ad esiti irragionevoli: «Si pensi al caso in cui, in pendenza del termine per impugnare e in prossimità della sua scadenza, una nuova legge abroghi il grado di appello, mantenendo il ricorso per cassazione: l'imputato (o altra parte) può venirsi a trovare in grave difficoltà nella predisposizione del mezzo di gravame appropriato, può determinarsi una dissimmetria tra le posizioni, sostanzialmente analoghe, di due imputati (o di altre parti); si immagini ancora il caso, assolutamente emblematico, di due soggetti in identica posizione processuale che maturano nella stessa data il termine, di medesima durata, per impugnare la sentenza: l'uno deposita l'impugnazione diversi giorni prima della scadenza e nel vigore della legge che la consente, l'altro attende gli ultimi giorni per proporla ma, essendo nel frattempo intervenuta la norma che abroga tale facoltà, la relativa domanda non può sfuggire alla sanzione dell'inammissibilità».

Secondo le Sezioni unite, pertanto, «si intuisce agevolmente che il regime di impugnabilità di una sentenza non può essere condizionato da elementi meramente aleatori, come quelli affidati alla tempestività o meno del deposito della stessa ovvero alla puntualità degli adempimenti di cancelleria o ancora alla iniziativa più o meno tempestiva della parte interessata; tanto si verificherebbe, ove si avesse riguardo al momento di presentazione dell'atto di impugnazione».

È pur vero che nel fenomeno della successione di norme nel tempo è insita una certa disparità di trattamento: essa, tuttavia, per non essere censurabile sotto il profilo della legittimità costituzionale (cfr. Corte cost., sentenza n. 381 del 2001), non deve essere altrimenti evitabile e/o irragionevole e non deve coinvolgere, in senso penalizzante, l'autonomia di azione e il diritto di difesa della parte processuale interessata.

Per ovviare agli inconvenienti cui innanzi si è fatto cenno, il regime delle impugnazioni va ancorato, a parere delle Sezioni Unite, in base alla regola intertemporale di cui all'art. 11 delle preleggi, non alla disciplina vigente al momento della loro presentazione ma a quella in essere all'atto della pronuncia della sentenza, posto che è in rapporto a quest'ultimo actus e al tempus del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e i termini per esercitarla: «Il potere d'impugnazione trova la sua genesi proprio nella sentenza e non può che essere apprezzato in relazione al momento in cui questa viene pronunciata, con la conseguenza che è al regime regolatore vigente in tale momento che deve farsi riferimento, regime che rimane insensibile a eventuali interventi normativi successivi, non potendo la nuova legge processuale travolgere quegli effetti dell'atto che si sono già prodotti prima dell'entrata in vigore della medesima legge, nè regolare diversamente gli effetti futuri dell'atto».

Nei medesimi termini si sono successivamente espresse Cass. I, n. 40251 del 2007 (che, in applicazione del principio, ha annullato senza rinvio l'ordinanza con la quale la Corte di appello aveva dichiarato l'inammissibilità dell'appello proposto dal P.M. e dall'imputato avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa prima dell'entrata in vigore della l. 20 febbraio 2006, n. 46, disponendo altresì la trasmissione degli atti alla Corte stessa per lo svolgimento del giudizio di appello), Cass. I, n. 53011 del 2014 e n. 5697 del 2015 (che, in applicazione del principio, hanno conformemente ritenuto di essere competenti a decidere sul ricorso per cassazione proposto avverso la decisione del magistrato di sorveglianza in tema di reclamo giurisdizionale, emessa nel vigore dell'art. 35-bis, comma 4, l. 354 del 1975, nel testo introdotto dall'art. 3, comma 1, lett. b), d.l. 146 del 2013, prima delle modificazioni apportate dalla legge di conversione n. 10 del 2014, ed ha conseguentemente escluso di dover procedere alla qualificazione dell'atto di impugnazione come reclamo al Tribunale di sorveglianza, così come stabilito dalle previsioni della legge di conversione), e Cass. I, n. 18789 del 2015 (che, in applicazione del principio, ha escluso che dovesse essere riqualificato come opposizione il ricorso per cassazione proposto contro provvedimento pronunciato prima della introduzione del comma 1-bis dell'art. 678 c.p.p. ad opera del d.l. 146 del 2013, convertito nella legge 10 del 2014).

La proposta interpretazione – in verità, mai posta in discussione dalla Corte di cassazione a partire dal 2007 - trova una indiretta conferma nella disposizione transitoria ad hoc dettata in tema di patteggiamento, che colloca il discrimine tra l'applicazione delle disposizioni previgenti e l'applicazione della novella in un momento ancora antecedente (quello in cui sia stata formalizzata la richiesta di patteggiamento).

Né potrebbe ritenersi valido il predetto principio soltanto quando si discorra di modifiche riguardanti l'ampiezza del potere di impugnazione, e fare riferimento, per le modifiche riguardanti unicamente il rito con il quale l'impugnazione debba essere trattata, quale actum discriminante tra l'applicazione della vecchia o della nuova disciplina, alla data dell'udienza di trattazione, poiché in tal modo, da un lato, in materia cautelare reale, si privilegerebbe il rito camerale partecipato (con distonia tutto sommato innocua, poiché intuibilmente considerata favorable dalla difesa dell'indagato), dall'altro, per la concettualmente analoga modifica riguardante la declaratoria di talune tipologie d'inammissibilità dei ricorsi senza formalità, ovvero con procedura de plano, in luogo che con procedura camerale non partecipata ex artt. 610 e 611 c.p.p., dovrebbe ritenersi operante la novella, pur se in parte qua non certo favorable, e sopprimere la - in precedenza prevista - realizzazione del contraddittorio, pur se meramente cartolare.

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