Sul diritto del detenuto imputato di partecipare all'udienza dopo la legge 47/2015

10 Ottobre 2016

L'indagato detenuto o internato fuori dal circondario del tribunale competente ha diritto di presenziare all'udienza per essere sentito personalmente solo se la richiesta di audizione è formalizzata in modo tale da manifestare la volontà di rendere dichiarazioni su questioni di fatto concernenti la propria condotta.

L'indagato detenuto o internato fuori dal circondario del tribunale competente ha diritto di presenziare all'udienza per essere sentito personalmente solo se la richiesta di audizione è formalizzata in modo tale da manifestare la volontà di rendere dichiarazioni su questioni di fatto concernenti la propria condotta.

Con la sentenza qui analizzata la Corte di cassazione, chiarendo e precisando il significato del diritto dell'imputato di partecipare al giudizio davanti al tribunale delle libertà (nella specie giudizio di appello), afferma che questo diritto trova estrinsecazione solo se l'imputato detenuto che chiede di intervenire manifesta la volontà di voler rendere dichiarazioni su questioni di fatto concernenti la propria condotta (a supporto la Corte richiama la decisione Cass. pen., Sez. II, 5 novembre 2014, n. 6023).

Prima della riforma di cui alla l. 47 del 2015, il tema della partecipazione dell'imputato al giudizio di gravame era regolato dall'art. 127, comma 3, c.p.p. e dall'art. 102 disp. att. c.p.p., richiamato dal comma 8 dell'art. 309 c.p.p., a mente del quale l'interessato ha diritto di essere sentito se compare mentre, qualora sia detenuto o internato in un luogo posto fuori dalla circoscrizione e ne faccia richiesta, ha diritto di essere sentito prima dell'udienza camerale dal magistrato di sorveglianza del luogo.

Sul punto, con una sentenza piena di ambiguità, era intervenuta la Corte costituzionale affermando che il coordinamento tra l'art. 309, comma 8, c.p.p. e l'art. 127, comma 3, c.p.p. consente di affermare che non è esclusa la comparizione personale dell'imputato che ne abbia fatto richiesta oppure se il giudice d'ufficio lo ritenga opportuno (Corte cost. 45 del 1991).

In altri termini, non risultava particolarmente chiaro se ci fosse veramente il riconoscimento di un diritto di partecipazione di cui il soggetto titolare.

Con una sentenza delle Sezioni unite si era affermato che ai sensi dell'art. 127 c.p.p. l'imputato che avesse tempestivamente in qualche modo manifestato la volontà di comparire aveva il diritto di presentazione al giudizio camerale (Cass. pen., Sez. unite, 24 giugno 2010, n. 35399).

In materia, è intervenuta la modifica dell'art. 309, commi 6 e 8-bis, c.p.p. disponendo che con la richiesta di riesame l'imputato può chiudere di comparire personalmente e che l'imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente.

Al riguardo, si prospettano alcuni interrogativi, al di là, delle ricadute sulla validità del rito. In primo luogo, si tratta di definire i rapporti tra la nuova previsione ed il mantenuto richiamo all'art. 127 c.p.p. contenuto nel comma 8 dell'art. 309 c.p.p.

Sul punto, Cass. pen., Sez. I, 6 ottobre 2015, n. 49882, ha affermato che la nuova previsione costituisce una vera e propria lex specialis in materia, con conseguente superamento di quanto disposto dagli artt. 127 c.p.p. e 102 disp. att. c.p.p. Invero la decisione sembra confondere tempi e contenuti dei due atti ritenendo il secondo, sicuramente più ampio, assorbito nel primo mentre, invece, proprio in relazione alla diversità dei tempo, nulla esclude una maturata diversità di atteggiamenti (partecipazione e dichiarazioni).

In secondo luogo, va precisato – sul punto non sembrano prospettarsi dissensi – che la domanda di partecipazione vada presentata con la richiesta di riesame, il che pone in evidenza le implicazioni legate al riferito rapporto tra l'art. 309, commi 6 e 8-bis, c.p.p. e l'art. 127, comma 3, c.p.p.

Infine, vanno chiarite le modalità e il contenuto della richiesta dell'imputato.

Si potrebbe discutere se la richiesta debba essere personale ovvero se possa essere contenuta nell'atto di riesame del difensore ovvero se debba essere allegata all'atto di gravame. Tuttavia, ai sensi dell'art. 99 c.p.p. al quesito deve darsi risposta positiva. Nulla dice, invece, la legge in ordine al contenuto o alla finalità che deve assumere l'atto.

Invero la specificazione della citata decisione del supremo Collegio, forse operante nel regime precedente non trova nessun supporto normativo. Non solo. Quid iuris nel caso in cui il soggetto dichiari di voler rendere dichiarazioni e magari successivamente, re melius perpensa, ovvero all'esito degli sviluppi dell'udienza ritenga di rivedere il proprio orientamento? Come non considerare la possibilità che l'imputato che non aveva intenzione di rendere dichiarazioni possa orientarsi ad interloquire in relazione agli sviluppi del confronto tra accusatore e difensore?

Come non considerare che la volontà di rendere dichiarazioni potrebbe maturare sulla base dei nova introdotti dall'accusa, sopravvenuti favorevoli e soprattutto contrari?

La decisione della Cassazione qui considerata, pur ispirata da esigenze di astratta funzionalità, calpesta il dato normativo ma soprattutto il diritto dell'imputato ad una consapevole e cosciente partecipazione al processo. Anche nel caso di specie si confondono tempi e contenuti, con un percorso inverso a quello della decisione precedentemente riportata. In questo caso, infatti, si fa rifluire il contenuto della richiesta di rendere una dichiarazione all'interno della richiesta di partecipazione personale. Il soggetto ristretto nella libertà non è un soggetto titolare di diritti di rango inferiore, anzi, forse, proprio la restrizione ne rafforza la valenza.

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