Detenzione inumana. Retroattività del rimedio risarcitorio e decorrenza della prescrizione

Francesco Faldi
06 Marzo 2017

Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha offerto alcune importanti indicazioni per la definizione dell'ambito di applicazione dei c.d. rimedio risarcitorio disciplinato dall'art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, 354 (ordinamento penitenziario) introdotto dall'art. 1 del d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 117.
Massima

Il rimedio risarcitorio di cui all'art. 35-ter ord. penit., istituito con d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 117, è esperibile anche con riferimento ai pregiudizi subiti dal detenuto nel periodo antecedente alla data di entrata in vigore del predetto decreto legge.

Il diritto del detenuto ad ottenere il risarcimento previsto dall'art 35-ter ord. penit. in relazione al pregiudizio derivante dalla sottoposizione ad un trattamento inumano e degradante per fatti anteriori alla data di entrata in vigore della predetta norma non è soggetto alla prescrizione quinquennale di cui agli artt. 2935 e 2947 c.c.

Il caso

Il condannato, illo tempore detenuto nel carcere di Rossano Calabro, aveva presentato al magistrato di sorveglianza di Cosenza reclamo ex art 35-ter ord. penit. deducendo di aver sofferto a causa delle condizioni materiali nelle quali si era svolta la carcerazione, un pregiudizio di gravità tale da integrare la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che, come noto, stabilisce il divieto di sottoporre le persone detenute a trattamenti inumani e degradanti.

Il magistrato di sorveglianza con decreto emesso de plano in data 29 settembre 2015 aveva dichiarato inammissibile il reclamo in considerazione della impossibilità di esperire il rimedio de quo in relazione a condizioni detentive tali da violare il divieto posto dall'art. 3 della Convenzione europea, verificatesi anteriormente alla data di entrata in vigore della norma istitutiva del reclamo (26 giugno 2014) e comunque non più attuali al momento della presentazione della domanda.

La Corte di cassazione con la sentenza in esame, dopo aver ribadito che l'attualità del pregiudizio non costituisce presupposto per la proponibilità e l'accoglibilità della domanda di risarcimento avanzata dal detenuto mediante la presentazione del reclamo, ha annullato senza rinvio il provvedimento impugnato disponendo contestualmente la restituzione degli atti al magistrato di sorveglianza di Cosenza per la globale rivalutazione della domanda dell'attuale ricorrente.

Sotto il profilo processuale la Corte ha dunque ravvisato l'insussistenza delle condizioni che legittimano l'emissione del decreto di inammissibilità ex art. 666, comma 2 c.p.p. quale epilogo decisorio anticipato del procedimento di reclamo che può trovare applicazione solo in due ipotesi ben precise: reiterazione di istanza già rigettata e fondata sui medesimi elementi, e manifesta infondatezza per difetto delle condizioni di legge (tra le quali non rientra, con riferimento al caso di specie, il requisito dell'attualità del pregiudizio).

Giova rammentare che nella giurisprudenza della Corte si è da tempo consolidata una interpretazione rigorosa delle condizioni alle quali è subordinata l'emissione del decreto di inammissibilità. In particolare si è statuito che il difetto delle condizioni di legge deve essere oggetto di immediata costatazione, senza richieder sforzi interpretativi o valutazioni discrezionali, esito di verifiche circa la situazione di fatto posta a base della richiesta, suscettibili di condurre a soluzioni decisorie opinabili e diversificate; diversamente opinando, infatti, l'eventuale adozione anticipata di pronuncia, espressa in termini di inammissibilità, ma che sostanzialmente investe il merito della domanda, si pone in contrasto col principio del contraddittorio, che, nei procedimenti di esecuzione o sorveglianza è funzionale ad assicurare la partecipazione e l'interlocuzione dell'interessato nell'ambito del confronto dialettico tra le parti (Cass.pen., Sez. I, 19 luglio 2016, dep.il 19 dicembre 2016, n.53892, Utano).

La questione

Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha offerto alcune importanti indicazioni per la definizione dell'ambito di applicazione dei c.d. rimedio risarcitorio disciplinato dall'art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario) introdotto dall'art. 1 del d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 117.

La prima questione riguarda la rilevanza dei c.d. pregiudizi pregressi dovendosi intendere per tali quelli subiti dal detenuto anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legge istitutivo del rimedio: la Corte è stata chiamata a stabilire se il reclamo è esperibile anche per ottenere il risarcimento (o ristoro) di tali pregiudizi.

La seconda questione affrontata dalla Corte riguarda la rilevanza della prescrizione. Infatti la proponibilità del reclamo anche con riguardo ai c.d. pregiudizi pregressi ha indotto la Corte ad affrontare il problema della possibilità per l'amministrazione penitenziaria, che nel procedimento di reclamo viene ad assumere la posizione processuale di parte convenuta, di opporre alla richiesta di risarcimento avanzata dal condannato l'eccezione di prescrizione.

Le soluzioni giuridiche

Occorre preliminarmente rammentare che la Corte europea dei diritti dell'uomo con la nota sentenza Torreggiani dell'8 gennaio 2013 non solo ha esortato l'Italia ad impegnarsi per ridurre il numero dei detenuti ampliando il ricorso sanzioni penali alternative alla detenzione in carcere ma ha inoltre sollecitato il nostro paese ad introdurre procedure attivabili dai detenuti per porre fine e rimedio a condizioni di detenzione in contrasto con l'art. 3 della Convenzione europea. Tale norma nel sancire il divieto di sottoporre le persone soggette alla privazione della libertà personale a tortura e a trattamenti inumani e degradanti consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche (Corte Edu, sentenza 6 aprile 2000, Labita c. Italia), ponendo a carico dello Stato l'obbligo di assicurare che l'espiazione della pena carceraria avvenga con modalità rispettose della dignità umana e tali da non risolversi nella sottoposizione ad un grado di sofferenza eccedente quello inevitabilmente derivante dallo staus detentionis.

Con la sentenza Torreggiani la Corte di Strasburgo ha sollecitato l'Italia ad introdurre procedure che fossero accessibili ed effettive e, in quanto tali, idonee a produrre rapidamente il risultato concreto della cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani ovvero, nel caso in cui la violazione fosse già cessata, idonee ad attuare una riparazione adeguata alla violazione subita dal detenuto

La tutela preventiva (o inibitoria), diretta cioè diretta ad ottenere la cessazione della violazione in atto, è assicurata dall'art. 35-bis ord.penit., norma introdotta nel sistema della legge penitenziaria, con il d.l. 146 del 2013, conv. con legge 10 del 2014, che disciplina il c.d. reclamo giurisdizionale. Tale norma ha attribuito al magistrato di sorveglianza che abbia accertato l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dalla legge penitenziaria e dal relativo regolamento (trattasi, come noto, del d.P.R.230 del 2000), dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti (art. 69, comma 6, lett, b) ord. penit.) il potere di ordinare all'amministrazione porvi rimedio entro un termine indicato dallo stesso giudice.

La tutela risarcitoria è prevista dal successivo art. 35-ter ord. penit. Con questa norma il Legislatore ha introdotto nel sistema della legge penitenziaria uno specifico rimedio a favore dei detenuti che abbiano subito un pregiudizio, costituito dalla sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti, vietati dall'art. 3 della Convenzione europea; in particolare in caso di accertamento della violazione della citata norma convenzionale il detenuto ha diritto di ottenere, a titolo di risarcimento del danno, la riduzione della pena da espiare nella misura proporzionale stabilita dalla legge (un giorno di riduzione di pena per ogni dieci giorni di carcerazione svoltasi in modo dal violazione l'art. 3). In via residuale, in caso di insufficienza della pena residua da espiare a soddisfare il predetto rapporto proporzionale, la tutela risarcitoria prevista dalla norma si attua mediante la corresponsione di una somma di denaro determinata secondo criteri di liquidazione legislativamente predeterminati e non derogabili dal giudice (otto euro per ogni giorno nel quale è stata accertata la sottoposizione del detenuto a trattamenti inumani e degradanti).

Con tali interventi il Legislatore ha inteso perseguire un duplice obiettivo: da un lato far cessare condizioni di espiazione delle pene detentive ritenute in contrasto con l'art. 3 della Convenzione europea e, dall'altro, ristorare i pregiudizi derivanti da tali condizioni e tutto ciò nella prospettiva del“rafforzamento complessivo degli strumenti tesi alla riaffermazione della legalità della detenzione con estensione dei poteri di verifica e di intervento dell'autorità giurisdizionale (Cass. pen., Sez. I, 17 novembre 2016, n. 5515, Sbeglia).

Con la decisione in esame la Corte di cassazione affronta in primo luogo la questione relativa alla rilevanza delle violazioni dell'art. 3 della Convenzione europea verificatesi anteriormente all'entrata in vigore della norma istitutiva del c.d. rimedio risarcitorio (26 giugno 2014).

Il problema nasce dal fatto che il Legislatore non ha previsto una disciplina transitoria di carattere, per così dire, generale, essendosi limitato a contemplare soltanto due ipotesi particolari (art. 2 d.l. 26 giugno 2014, n. 92):

  • quella concernente i detenuti che alla data di entrata in vigore del decreto legge hanno cessato di espiare la pena detentiva, ovvero non si trovano più sottoposti alla misura cautelare della custodia in carcere ex art. 285 c.p.p.;
  • quella riguardante i detenuti che, alla data di entrata in vigore del decreto legge, avevano presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

Al di fuori di questi due ipotesi particolari, che riguardano, appunto, violazioni dell'art. 3 della Convenzione europea verificatesi anteriormente alla data del 26 giugno 2014, sembra possibile sostenere, invocando il principio generale della irretroattività della legge di cui all'art. 12 delle c.d. preleggi, che il rimedio risarcitorio previsto dalla nuova norma può essere esperito soltanto con riferimento a condotte violatrici dell'art. 3 della Convenzione poste in essere dall'Amministrazione penitenziaria dopo la data di entrata in vigore del decreto legge. In assenza di una specifica previsione di irretroattività l'efficacia l'art. 35-ter, che avrebbe pertanto carattere costitutivo del diritto al risarcimento del danno derivante dalla violazione dell'art. 3 opererebbe dunque ex nunc.

Tale soluzione applicativa è stata tuttavia disattesa dalla suprema Corte sulla scorta di due argomentazioni. In primo luogo i giudici di legittimità hanno evidenziato che il divieto di sottoporre le persone detenute a un trattamento inumano o degradante esiste quantomeno dal 1955, anno nel quale è stata ratificata, con la legge 4 agosto 1955, n. 848, la Convenzione europea (il cui art. 3, per altro, ribadisce il principio già enunciato dall'art. 27, comma 3,Cost.). In secondo luogo la Corte ha valorizzato il precedente costituito dalla pronuncia n. 28507 del 2005 emessa dalle Sezione unite civili in tema di indennizzo per la violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 2 della legge 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) e ciò in ragione della marcata affinità tra i due istituti, entrambi correlati alla necessità di offrire adeguato ristoro per intervenute violazioni della legalità convenzionale. Secondo le Sezioni unite in tema di equa riparazione per la irragionevole durata del processo, la fonte del riconoscimento del relativo diritto non deve essere ravvisata nella sola citata normativa nazionale, coincidendo il costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale con la violazione dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 848 del 1955, e, pertanto, di immediata rilevanza nell'ordinamento interno. Ne consegue che il diritto all'equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo, verificatosi prima dell'entrata in vigore della citata legge n. 89 del 2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto prima di tale data il giudizio del quale lamenta la durata eccessiva (Cass. civ. Sez. un. 28507/2005, Centurione-Scotto).

In applicazione di tali principio diviene dunque possibile affermare la tutelabilità ex art 35-ter ord.penit. delle violazioni dell'art. 3 della Convenzione europea verificatesi anteriormente alla data di entrata in vigore della norma posto che il diritto al risarcimento (o alla riparazione) non nasce dal citato art. 35-terord. penit. ma scaturisce direttamente dall'art. 3 della Convenzione Europea: in altri termini, come autorevolmente osservato in dottrina, (MAGI, La tutela dei diritti dei detenuti in ipotesi di trattamento inumano o degradante, Relazione tenuta al Corso di Formazione della S.S.M. dell'8-10 febbraio 2017) la legge istitutiva del rimedio risarcitorio di cui all'art. 35-ter ord. penit., non ha inciso né sull'esistenza del diritto a non subire trattamenti disumani o degradanti, né sulla fonte dell'obbligo di riparazione derivante dalla violazione di tale diritto ma sulle modalità di tutela di tale diritto destinate ad attuarsi attraverso lo strumento del reclamo previsto dal citato art. 35-terord. penit..

La Corte ha inoltre precisato che al fine di escludere la validità di tale soluzione non può assumere rilievo il requisito dell'attualità del pregiudizio di cui all'art, 69, comma 6, lett. b) ord.penit. richiamato dal comma 1 dell'art. 35-terord. penit. atteso che, come il predetto requisito deve essere riferito al rapporto esecutivo (o, come si afferma nella sentenza in esame, allo status di detenuto in espiazione pena). Questa decisione si inscrive dunque nell'orientamento assolutamente maggioritario nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale l'attualità del pregiudizio subito dal detenuto a causa di condizioni detentive tali da violare il divieto dell'art. 3 della Convenzione europea, non costituisce un presupposto per l'ammissiblità o l'accogliblità della domanda di risarcimento (o di riparazione) proposta mediante la presentazione del reclamo (Cass. pen., Sez. I, 11. giugno 2015, n.43722, Salierno, inedita; Cass. pen., Sez. I, 16 luglio 2015, n.876, Ruffolo; Cass.pen., Sez. I, 8 settembre 2016,n.3257, Morreale, inedita; Cass.pen., Sez. I, 19 ottobre 2016, n. 5509, Cavagnini).

La proponibilità del reclamo anche in ordine ai pregiudizi pregressi introduce un ulteriore problema costituito dalla rilevanza della prescrizione.

Infatti se si muove dalla premessa secondo la quale il divieto di sottoporre le persone detenute a trattamenti inumani o degradanti non trova la sua fonte nell'art 35-ter ord. penit. ma preesiste all'introduzione di tale norma in quanto discende direttamente dall'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge 848 del 1955 e, prima ancora, nell'art 27, comma 3, Cost., si deve riconoscere che la condotta violatrice di tale divieto da parte dell'amministrazione penitenziaria costitutiva un illecito civile, fonte di un danno risarcibile, anche anteriormente all'entrata in vigore della legge istitutiva del rimedio, con la conseguenza che il detenuto, prima del 26 giugno 2014, avrebbe potuto azionare il diritto al risarcimento del danno convenendo in giudizio l'amministrazione penitenziaria davanti al giudice civile secondo i principi generali dell'ordinamento. Ed invero la Corte di cassazione con riferimento al periodo anteriore all'entrata in vigore dell'art 35-ter ord. penit. aveva affermato la competenza del giudice civile a pronunciarsi sulle domande di risarcimento del danno avanzate dai detenuti che avevano lamentato la violazione di diritti soggettivi da parte dell'amministrazione penitenziaria (Cass.pen., Sez. I, 15 novembre 2013, n.3803, Musard; Cass.pen., Sez. I, 27 settembre 2013, n.42901, Greco; Cass.pen., Sez. I, 15 gennaio 2013, n.4772).

Tale ipotesi ricostruttiva sembrerebbe trovare conferma anche nel tenore letterale della norma posto che la rubrica dell'art. 35-ter definisce il reclamo come rimedio risarcitorio ed tutti e tre i commi nei quali si articola la struttura della norma contengono un esplicito riferimento al risarcimento del danno, espressione che evoca la possibilità di qualificare in termini di illecito civile extra-contrattuale la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea da parte dell'amministrazione penitenziaria. La lettera della legge sembra quindi aver configurato il reclamo come un rimedio tipicamente risarcitorio avente carattere speciale rispetto ai tradizionali rimedi civilistici ai quali è pertanto destinato a sostituirsi a decorrere dal 26 giugno 2014.

Da tale premessa discende la rilevanza della prescrizione quinquennale o decennale in funzione della natura, aquiliana o contrattuale, che si ritiene di attribuire alla responsabilità dell'Amministrazione penitenziaria per la violazione della citata norma convenzionale.

A favore di tale soluzione si è espressa soprattutto la giurisprudenza civile (come detto il giudice civile è competente a decidere sul reclamo ex art. 35-ter nei casi previsti dal comma 3 della norma). Sul punto merita di essere segnalato il decreto 27 aprile 2016 del tribunale di Firenze che, aderendo alla secondo la quale la responsabilità dell'Amministrazione penitenziaria costituisce una forma di responsabilità aquiliana, ha affermato che: la violazione del diritto ad una detenzione conforme all'art. 3 Carta Edu appartiene quindi al genus del danno ingiusto risarcibile ex 2043 c.c., senza dubbio un danno non patrimoniale, poiché la natura della responsabilità, in assenza di preesistente rapporto obbligatorio tra Amministrazione penitenziaria e detenuto, resta di tipo extracontrattuale a cui si applica pertanto la prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c.. Non si ritiene neppure applicabile la ritardata la decorrenza del termine prescrizionale (ex l'art. 2935 c.c.) a partire dall'entrata in vigore della normativa che ha introdotto la riparazione oggi richiesta: il d.l. 92/2014, infatti, ha solo introdotto una nuova disciplina per il risarcimento di questo specifico danno, già riconosciuto varie volte in precedenza alla sua emissione (vedi propria la giurisprudenza della Corte Edu ove era parte l'Italia e le citate sentenze Suleimanoviç del 2009 e la stessa sentenza ‘pilota' Torreggiani del 2013) senza alterare la natura e la preesistenza della responsabilità risarcitoria. Va ritenuta quindi l'estinzione per prescrizione del diritto per i danni lamentati relativi alla detenzione di cui ai 5 anni precedenti il 10 dicembre 2014 (data di presentazione del ricorso odierno) e quindi relativi a parte della detenzione nel carcere di Pistoia.

Generalmente contraria alla rilevanza della prescrizione è invece la giurisprudenza degli uffici di sorveglianza. A titolo di esempio possono richiamare le argomentazioni svolte dal magistrato di sorveglianza di Siena secondo cui l'impossibilità giuridica di azionare il detto rimedio anteriormente all'introduzione dell'istituto in esame impediscono il decorso della prescrizione stessa. Inoltre, la natura indennitaria e non propriamente civilistica del rimedio in esame porta a ritenere estranea alla materia l'operatività della prescrizione, che verrebbe, altresì, esclusa in forza del principio actio nondum nata non praescribitur, codificato nell'art. 2935 c.c., per cui è preclusa la possibilità di decorso della prescrizione da data anteriore a quella in cui la relativa pretesa è divenuta azionabile. In ogni caso, anche con riferimento all'azione esperibile in sede civile, si osserva che il dies a quo di decorso della prescrizione per far valere il pregiudizio nel corso di un rapporto di durata non coincide con il momento di esaurimento della condotta abusiva, ma con quello della cessazione del rapporto stesso. La disciplina in esame prevede che in costanza di detenzione, in relazione al titolo (o ai titoli) in esecuzione cui devono riferirsi i periodi in cui si afferma sia avvenuto il trattamento disumano e degradante, il rimedio è sempre azionabile, azionabile cioè finché dura la pena detentiva, ossia finché permane l'interesse a detrarre lo sconto di pena che è il principale rimedio risarcitorio previsto dall'art. 35-ter ord. penit., quello pecuniario avendo carattere sussidiario e integrativo.

Con la sentenza in esame la Corte di cassazione ha viceversa escluso che il reclamo previsto dall'art 35-ter ord. penit. possa essere considerato come un tipico rimedio risarcitorio ascrivibile alla categoria concettuale dell'illecito aquiliano e di conseguenza ha escluso, rispetto ai pregiudizi pregressi, la rilevanza della prescrizione (nel caso di specie quinquennale). A sostegno di questa soluzione la Corte ha svolto le seguenti argomentazioni:

  • il reclamo di cui all'art 35-ter ord. penit. costituisce uno strumento riparatorio del tutto nuovo, rappresentato da una riduzione di pena (in misura proporzionale alla durata del pregiudizio sofferto), fatto che incide sul limite di durata del trattamento sanzionatorio pubblicistico prescindendo dalla meritevolezza del destinatario, sì da porsi come inedita forma di restitutio in integrum;
  • la previsione, quale forma alternativa (ma, talvolta, anche concorrente) di ristoro del danno subito dal detenuto, della attribuzione di una somma di denaro presenta una marcata natura indennitaria, piuttosto che risarcitoria in senso stretto e ciò in quanto il quantum da liquidare al detenuto è predeterminato dalla legge in modo vincolante per il giudice con conseguente irrilevanza della effettiva entità del pregiudizio realmente sofferto anche in ragione delle condizioni soggettive del singolo detenuto come viceversa dovrebbe accadere in forza del criterio della c.d. personalizzazione del danno;
  • l'assenza di qualsiasi riferimento all'accertamento della colpa dell'Amministrazione penitenziaria essendo l'effetto riparatorio connesso al mero accertamento della sottoposizione del condannato a condizioni detentive tali da violare l'art. 3 della Convenzione;
  • la previsione, per quanto riguarda i reclami proponibile davanti al giudice civile, di un termine di decadenza, indicato dalla norma in mesi sei dalla cessazione dello stato di detenzione, e dunque non decorrente fino a quanto perdura tale stato. Con riguardo a quest'ultimo aspetto la Corte rammenta inoltre il principio espresso dalle Sezioni unite civili con la sentenza emessa in data 22 luglio 2015, n. 15352, concernente l'azione diretta ad ottenere l'indennizzo in caso di danno da emotrasfusioni (introdotto dalla legge 238 del 1997) secondo cui la previsione di un termine di decadenza determina l'inapplicabilità dell'istituto della prescrizione.

Da tali premesse discende la qualificazione del rimedio de quo in termini di strumento di riparazione della violazione francamente atipico, con carattere prevalentemente indennitario e di matrice solidaristica […], sganciato dalle tradizionali categorie dogmatiche di inquadramento civilistico, con la conseguenza che l'atipicità del rimedio rende non rilevabile alcuna ipotesi di prescrizione quantomeno con riguardo al periodo anteriore all'entrata in vigore della legge istitutiva del reclamo.

Ulteriore conseguenza di tale inquadramento, secondo cui il rimedio de quo si connota per la natura indennitaria più che risarcitoria, è costituito dal fatto che il reclamo (inteso come atto attraverso il quale viene esercitata l'azione finalizzata ad ottenere la riparazione del pregiudizio derivante dalla violazione dell'art. 3 della Convenzione europea) non deve necessariamente essere corredato dall'indicazione analitica, precisa e completa di tutti gli elementi che si pongono a fondamento della domanda, essendo per contro sufficiente che il reclamo contenga l'indicazione dei periodi di detenzione, degli Istituti di pena e del trattamento penitenziario subito in contrasto col divieto stabilito dalla norma convenzionale (Cass. Sez. I, 12.07.2016, n.2773, Mazzalupi).

Osservazioni

La sentenza in esame offre lo spunto per svolgere alcune brevissime considerazioni in ordine alla questione relativa alla natura della responsabilità dell'amministrazione penitenziaria per la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea.

Dalla motivazione della sentenza si evince che la Corte, al fine di escludere l'operatività della prescrizione in relazione ai pregiudizi pregressi (vale a dire subiti dal detenuto anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legge istitutivo del c.d. rimedio risarcitorio), sembra dare per scontata, tramite il riferimento agli artt 2043 e 2059 c.c., la natura extracontrattuale della responsabilità dell'amministrazione penitenziaria, con la conseguente operatività della prescrizione quinquennale sia pure limitatamente ai pregiudizi subiti dal detenuto in epoca successiva al 26 giugno 2014. Tale soluzione deriva dalla mancanza di un rapporto obbligatorio preesistente tra Amministrazione penitenziaria e detenuto, presupposto indispensabile ai fini della configurabilità della responsabilità contrattuale e difficilmente ipotizzabile con riguardo al rapporto esecutivo penale, caratterizzato da una evidente connotazione pubblicistica, che vede il condannato-detenuto soggetto al potere autoritativo dello Stato che si esplica nella sua forma più intensa: quella della privazione della libertà personale.

Tuttavia il riferimento all'istituto dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo, ampiamente valorizzato, come detto, nella motivazione della decisione in esame, avrebbe forse consentito di qualificare l'obbligazione nascente nei confronti dell'Amministrazione penitenziaria per effetto della violazione dell'art. 3 della Convenzione europea come obbligazione ex lege riconducibile, nel sistema delle fonti delle obbligazioni delineato dall'art 1173 c.c., alla categoria generale degli altri atti o fatti idonei a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico. Tale inquadramento sistematico era stato proposto da Cass. civ., Sez. I, 8 agosto 2002, n.11987, Adamo e altri; nella motivazione la Corte ha evidenziato che il diritto all'equa riparazione deriva da una attività lecita dell'amministrazione, quale innegabilmente è l'attività giudiziaria. La quale non diviene illecita per il solo fatto del suo, sia pure eccessivo, protrarsi e rileva, comunque, in funzione esclusiva del suo porsi in contrasto con il termine ragionevole di cui all'art 6 della CEDU, indipendentemente da qualsiasi connotato di colpa di organi giudiziari.

Tale soluzione, dalla quale consegue l'operatività della prescrizione decennale, sembrerebbe inoltre maggiormente rispondente alla natura indennitaria, piuttosto che risarcitoria, affermata anche dalla sentenza in esame, del rimedio previsto dal più volte citato art 35-ter ord. penit..

Si potrebbe tuttavia replicare che l'attività avente ad oggetto l'esecuzione della pena detentiva, di per sé astrattamente lecita nella misura è diretta a dare attuazione concreta al giudicato penale di condanna, diviene illecita nel momento in cui si svolge con modalità ed in condizioni tali da violare l'art 3 della Convenzione europea. In quest'ottica risulterebbe dunque confermata la tesi che attribuisce alla fattispecie di responsabilità introdotta dal Legislatore del 2014 natura extra-contrattuale, con la particolarità che, una volta accertata la violazione del diritto a non subire trattamenti disumani o degradanti, il danno è da ritenersi in re ipsa, costituendo la lesione del diritto allo stesso tempo sia il fatto causativo danno sia l'evento di danno in sé (c.d. danno evento che, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n.184 del 1986 in materia di diritto alla salute, deve essere sempre risarcibile quando correlato alla violazione dei diritti fondamentali della persona).

Guida all'approfondimento

DEGL'INNOCENTI-FALDI, Il rimedio risarcitorio ex art 35-ter ord. penit., Giuffrè, 2016;

FIORENTIN, Risarcimento per l'inumana detenzione: bilancio a un anno dall'introduzione dei rimedi compensativi di matrice europea, in Studium Iuris, 2016, p.266 ss.;

GIOSTRA, in DELLA CASA-GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2015, p.415 ss.;

MAGI, La tutela dei diritti dei detenuti in ipotesi di trattamento inumano o degradante, Relazione tenuta al Corso di Formazione della S.S.M. dell'8-10 febbraio 2017.

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