Con la Riforma Orlando arrivano le modifiche all'ordinamento penitenziario

Fabio Fiorentin
06 Luglio 2017

La legge 103/2017 costituisce il punto di sintesi di una molteplicità di precedenti proposte e dovrà ora trovare concreta attuazione con l'emanazione dei relativi decreti delegati. Le direttive introdotte dalla riforma nella materia dell'esecuzione penale e penitenziaria ...
Abstract

La legge, 23 luglio 2017, n. 103 (Gazz. ufficiale n. 154 del 4 luglio 2017) costituisce il punto di sintesi di una molteplicità di precedenti proposte e dovrà ora trovare concreta attuazione con l'emanazione dei relativi decreti delegati. Le direttive introdotte dalla riforma nella materia dell'esecuzione penale e penitenziaria sono racchiuse nel comma 85, lett. a)-v), dell'unico articolo di cui si compone la legge e riguardano molteplici profili dell'attuale ordinamento penitenziario, tra cui alcune importanti novità in materia procedurale, quali la semplificazione dei procedimenti di sorveglianza con utilizzo di modelli a contraddittorio “differito” o “eventuale”, una revisione delle condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione, la sterilizzazione delle preclusioni che attualmente impediscono o rendono molto difficile, per gli autori di determinate specie di reati, l'accesso ai benefici penitenziari (c.d. doppio binario penitenziario) e l'utilizzo delle “videoconferenze” per fini processuali.

Semplificazione delle procedure

La direttiva contenuta nella lett. a)prevede la «semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione». L'obiettivo è quello di una migliore efficienza del sistema con riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti di sorveglianza, sul presupposto che una semplificazione del rito, anche con l'estensione delle pur già presenti ipotesi di contraddittorio “differito” o “eventuale”, possa contribuire a rendere più rapida la risposta alle istanze di benefici penitenziari da parte dei condannati, favorendo così tempi più rapidi per la concessione delle eventuali misure extramurarie. Con l'introduzione del criterio in analisi il Legislatore si è, quindi, mosso nel solco della già avviata semplificazione delle procedure che ha, nel tempo, ridisegnato i modelli procedimentali adottati dal magistrato e dal tribunale di sorveglianza, nel quadro di una progressiva “monocratizzazione” delle competenze attribuite alla magistratura di sorveglianza.

La rinuncia al contraddittorio per alcune fasi o gradi dei procedimenti di sorveglianza, già adottata nel recente passato dal Legislatore in relazione ad alcune materie (es. liberazione anticipata, riabilitazione, applicazione delle sanzioni sostitutive) sembra avere lasciato ben pochi spazi per un ulteriore intervento nella prospettiva indicata dalla delega, se si considera che alcune materie che costituiscono l'essenza della giurisdizione rieducativa (a es. i procedimenti in tema di misure di sicurezza o di applicazione delle misure alternative alla detenzione comprese nel Capo VI della l. 354/1975) mal si conciliano con una rinuncia totale al contraddittorio che escluda la facoltà di interlocuzione dell'interessato con il proprio giudice, considerato che, in materia di benefici penitenziari, la possibilità di contatto tra il giudice monocratico o collegiale e l'interessato risponde, oltre che all'opportunità di meglio assicurare l'esercizio del diritto di difesa, altresì a esigenze correlate alla formulazione di una valutazione sulla personalità del condannato o dell'internato (i collegi del tribunale di sorveglianza sono, infatti, integrati dalla presenza dei componenti esperti di saperi specialistici, il cui contributo è fondamentale nella formazione del giudizio sulla personalità che costituisce il proprium della giurisdizione rieducativa). Recenti interventi del Legislatore, tra l'altro, hanno optato per un modello procedimentale che prevede l'attivazione del contraddittorio pieno fin dal primo grado del procedimento (es. i procedimenti di cui all'art.35-bis ord. penit., o i reclami risarcitori previsti dall'art. 35-ter della medesima legge, rispettivamente introdotti dai d.l. 146/2013 conv. in l. 10/2014 e d.l. 92/2014 conv. in l. 117/2014).

In forza di tali non trascurabili considerazioni, un intervento sostanzialmente conservativo dell'assetto esistente potrebbe limitarsi, sul versante delle competenze collegiali, a incidere su alcune materie in relazione alle quali la rinuncia al contraddittorio diretto appare compatibile, per un verso, con le peculiarità della giurisdizione rieducativa e, per l'altro verso, con la pienezza delle facoltà e garanzie difensive. In questa prospettiva, le procedure relative alla declaratoria di estinzione della pena a seguito di liberazione condizionale (art.177, comma 2, c.p.) e di estinzione della pena in seguito alla sospensione dell'esecuzione della medesima prevista dall'art.90 d.P.R. 309/1990 (art. 93, d.P.R. 309/1990) potrebbero essere definite con la procedura di cui all'art.667, comma 4, c.p.p. che prevede un contraddittorio meramente “eventuale” a istanza dell'interessato nei casi – statisticamente residuali – di esito sfavorevole del giudizio de plano. Analogo intervento potrebbe aversi sul procedimento in materia del differimento obbligatorio della pena (artt. 146 c.p.) trattandosi – in tali fattispecie – di decisione sostanzialmente vincolata alle risultanze istruttorie e di procedura che già prevede l'intervento dell'organo monocratico inaudita parte, sia pure sotto il profilo “cautelare” (art. 684, comma 2, c.p.p.).

Una riforma di tale limitato contenuto non avrebbe tuttavia – stante l'esiguità, sul piano quantitativo, delle procedure che ne sarebbero coinvolte – alcun significativo impatto sull'efficienza del sistema, che rimarrebbe sostanzialmente inalterato, laddove la direttiva di delega sembra sottendere interventi di ben maggiore ampiezza. Tra le ipotesi possibili, si può ipotizzare un riassetto delle procedure fondato su tre principi-cardine: a) monocratizzazione delle competenze in primo grado; b) generalizzazione del modello caratterizzato dal contraddittorio “eventuale”; c) doppio grado di merito. Precisamente, la ristrutturazione delle procedure di sorveglianza potrebbe articolarsi, in materia di applicazione delle misure alternative alla detenzione, su un modello caratterizzato da un primo grado di merito di competenza del magistrato di sorveglianza (ad eccezione dei procedimenti di revoca delle misure alternative e dei procedimenti di accertamento della collaborazione con la giustizia di cui all'art.58-ter, ord. penit., che resterebbero di esclusiva competenza collegiale, attesa la delicatezza degli interessi coinvolti), mentre al tribunale di sorveglianza resterebbe affidata l'eventuale fase di secondo grado che si svolgerebbe secondo il modello del procedimento camerale “partecipato” (artt. 666, 678 c.p.p.). Per quanto concerne le procedure in primo grado, il modello da utilizzare potrebbe individuarsi in quello introdotto in materia di liberazione anticipata dall'art. 69-bis della l. 26 luglio 1975, n. 354 per effetto della l. 19 dicembre 2002, n. 277: si tratta di un modello-archetipo già sperimentato con positivi risultati in termini di celerità delle procedure non solo con riferimento alla liberazione anticipata, bensì anche con riguardo ad istituti affini alle misure alternative disciplinate dalla legge di ordinamento penitenziario, quali la sospensione condizionata della pena (c.d. indultino) di cui alla l. 207/2003 e l'esecuzione della pena presso il domicilio disciplinata dalla l. 199/2010. Dovrebbe essere introdotta, in tale contesto, una previsione generale di incompatibilità a comporre il collegio del tribunale di sorveglianza del magistrato che ha trattato il procedimento in primo grado.

I presupposti di accesso alle misure alternative

La lett. b) della delega in materia penitenziariaesprime la necessità della «revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale». Il criterio direttivo in analisi intende creare le condizioni per una maggiore applicazione delle misure alternative anche al fine di contenere le eccessive presenze nelle carceri ed accrescere le possibilità di ottenere un effettivo e duraturo reinserimento sociale delle persone sottoposte a esecuzione penale. Questi auspicabili risultati potranno, peraltro, avere una probabilità di essere conseguiti soltanto qualora si introducano anche strumenti idonei a evitare o, comunque, rendere più difficile l'ingresso nel circuito penitenziario dei condannati per i quali la detenzione ordinaria appaia sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva del reato e al grado di pericolosità sociale del condannato stesso, agendo quindi sinergicamente tanto sui flussi in entrata che su quelli in uscita dal sistema carcerario. In questa prospettiva, del resto, già operano gli istituti di recente introduzione con la l. 67/2014, in tema di trattamento sanzionatorio e di deflazione processuale e, in particolare, la messa alla prova dell'imputato adulto, e alla medesima ratio risponde l'introduzione del nuovo istituto deflativo dell'estinzione del reato per condotte riparatorie (art. 162-ter c.p.).

I punti che potrebbero essere interessati dalla attuazione della delega si individuano negli attuali limiti di pena posti all'accesso alle misure alternative, e nella modifica della disciplina di alcuni benefici penitenziari, così da favorire una più ampia concessione dei benefici alternativi già dallo stato di libertà mentre il soggetto si trova in sospensione dell'ordine di esecuzione (i c.d. liberi sospesi: art. 656, comma 5, c.p.p.).

La lett. d),della delega contiene alcune innovazioni sul versante della disciplina delle misure alternative, prevedendo «una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell'esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria». Si tratta di una previsione che – per quanto indubbiamente positiva tanto sul piano della qualità del materiale istruttorio su cui si formeranno le decisioni della magistratura di sorveglianza, quanto su quello della riqualificazione del ruolo e delle funzioni della Polizia penitenziaria – necessiterà sul piano attuativo di una implementazione delle risorse materiali e umane attualmente disponibili, con un rafforzamento dell'organico degli UEPE che verranno investiti del carico delle indagini sociali integrate con l'osservazione della personalità nel gran numero di casi in cui si tratti di valutare, ai fini della concessione dei benefici penitenziari, la posizione dei condannati “liberi sospesi”. Particolarmente complesso si configura, inoltre, disciplinare l'attività della Polizia penitenziaria nei controlli dei soggetti ammessi alle misure alternative (che comunque potrebbe limitarsi, alla luce delle funzioni istituzionali svolte dal Corpo, alla vigilanza sui detenuti domiciliari e semiliberi) e, in particolare, definire normativamente i rispettivi ambiti di competenza e interrelazione tra gli UEPE (già investiti del controllo sull'osservanza delle prescrizioni delle misure alternative dal disposto del comma 8, lett. c), art. 118, d.P.R. 230/2000) e la Polizia Penitenziaria nonché i rapporti di quest'ultima con la magistratura di sorveglianza quale organo giudiziario deputato alla gestione dei benefici penitenziari extramurari. In tale prospettiva, in alternativa alla collocazione di personale di Polizia penitenziaria presso gli UEPE potrebbe essere valutata l'istituzione di nuclei di Polizia penitenziaria presso gli Uffici di sorveglianza, sotto il coordinamento della magistratura di sorveglianza. Anche con riguardo ai nuovi compiti che verranno attribuiti alla Polizia penitenziaria, non si può non rimarcare l'esigenza di implementare gli organici del Corpo, che già oggi risentono di gravi scoperture.

La sospensione dell'ordine di esecuzione e altre modifiche procedurali

Il criterio codificato dalla lett. c) introduce la «revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell'interessato e la pubblicità dell'udienza». Si tratta di un intervento quanto mai opportuno, attesa l'esigenza di una chiarificazione a livello normativo circa i limiti di pena che consentono la sospensione dell'ordine di esecuzione previsto dalla disposizione del comma 5, art. 656 c.p.p., dal momento che – a normativa vigente - vi è contrasto sulla possibilità di procedere alla detta sospensione nei casi di affidamento in prova al servizio sociale “allargato” (solo recentemente laCassazioneha, infatti, affermato il principio che, in tema di esecuzione di pene brevi, in considerazione del richiamo operato dall'art. 656, comma 5, c. p. p. all'art. 47 ord. penit., ai fini della sospensione dell'ordine di esecuzione, correlata ad una istanza di affidamento in prova ai sensi dell'art.47, comma 3-bis, ord. penit., il limite edittale non è quello di tre anni, ma di una pena da espiare, anche residua, non superiore a quattro anni: Cass. pen., Sez. I, 5 dicembre 2016, n.51864).

Sotto altro profilo, la direttiva interviene sul piano procedurale, rendendo generale il diritto dell'interessato alla pubblicità dell'udienza sancito dalle sentenze costituzionali n. 97 del 2015 (in relazione all'esigenza della pubblicità delle udienze dei procedimenti camerali di sorveglianza in materia di misure alternative alla detenzione) e n. 135 del 2014 (con riferimento al procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza (artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, c.p.p.), la cui attivazione potrà pur sempre rimanere subordinata alla richiesta della parte interessata. L'esercizio della delega dovrà, inoltre, contemperare tale facoltà con la delicatezza delle materie oggetto delle procedure in esame e con il rispetto dei limiti generali alla pubblicità dell'udienza stabiliti dagli artt. 6 § 1 Cedu e dagli artt. 471-473 c.p.p.

Quanto al principio del diritto alla presenza dell'interessato all'udienza, la materia della sorveglianza sembra imporre un intervento sull'attuale disciplina di cui al comma 4, art. 666 c.p.p., che prevede il diritto di presenziare alla camera di consiglio soltanto nei casi in cui il soggetto sia detenuto in luogo compreso nella circoscrizione del giudice di sorveglianza procedente. Nelle materie della sorveglianza, tale disciplina non potrà più sussistere e – a richiesta dell'interessato – questi dovrebbe essere tradotto in udienza, benché sia possibile interpretare il contenuto della delega sul punto come possibilità – quantomeno per i soggetti detenuti fuori della circoscrizione del giudice di sorveglianza procedente – di assicurare tale diritto mediante la partecipazione a distanza in videoconferenza. Quale sia l'opzione prescelta, non sembra consentito mantenere l'istituto dell'audizione dell'interessato da parte del magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione (c.d. rogatoria prevista dall'art. 667, comma 4, c.p.p.), poiché esso appare incompatibile con l'effettività del diritto alla presenza dell'interessato introdotto dalla legge-delega.

Il superamento del “doppio binario penitenziario”

Il fulcro della riforma in materia penitenziaria è contenuto nella lett. e),ove si prevede la «eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonché revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale». Si tratta di uno degli aspetti di novità più gravido di ricadute applicative ed assume – anche per il suo valore altamente simbolico – un'importanza decisiva per la realizzazione delle indicazioni emerse da quel movimento culturale che ha trovato pieno riconoscimento nei lavori degli Stati Generali, in relazione all'incompatibilità di preclusioni normative all'accesso ai benefici penitenziari con le finalità dell'esecuzione penale. Benché il contenuto della direttiva abbia subìto un significativo ridimensionamento in seguito alle critiche mosse al testo originario, con l'inserimento della clausola eccettuativa riferita ai condannati per reati di mafia e terrorismo internazionale, essa mantiene una sua non trascurabile potenzialità riformatrice, che potrà esercitarsi su tre settori di intervento nei confronti di altrettante preclusioni o gruppi di preclusioni, attualmente presenti nella legge di ordinamento penitenziario: a) il doppio binario penitenziario relativo ai condannati per particolari delitti (art.4-bis ord. penit.); b) i c.d. recidivi qualificati (art. 99, comma 4, c.p.); la pena dell'ergastolo non riducibile (c.d. ergastolo ostativo).

Si tratta, dunque, di un intervento molto articolato, che potrebbe portare – se la direttiva di delega fosse integralmente attuata – al quasi completo superamento del c.d. doppio binario penitenziario, introdotto dalla l. 203/1991 inizialmente con riferimento ai condannati per delitti di mafia e successivamente esteso dal legislatore a fattispecie quanto mai diversificate, fino all'attuale disciplina, divenuta incoerente ed ipertrofica a causa di stratificazioni normative succedutesi sotto la spinta dell'allarme sociale, perdendo qualsiasi coerenza sistematica.

Per quanto concerne i condannati recidivi, l'intervento si configura quale opera di “bonifica” delle residue ipotesi in cui tale qualità incide sulla progressione trattamentale: pur dopo gli interventi della Corte costituzionale e dello stesso legislatore vi sono, infatti, nella legge di ordinamento penitenziario alcuni istituti che tuttora soffrono di “sbarramenti” all'applicazione dei benefici penitenziari strutturati sulla condizione di condannato recidivo, come in tema di permessi premio (art. 30-quater ord. penit.), di detenzione domiciliare per condannati ultrasettantenni (art. 47-ter,comma 01, ord. penit.), di preclusioni in seguito alla revoca di precedenti benefici (art.58-quater, comma 7-bis, ord. penit.) e di liberazione condizionale (art. 176, comma 2, c.p.).

Con riferimento ai condannati per i particolari delitti indicati nell'art.4-bis, ord. penit., la prospettiva dovrebbe consistere nel superamento dell'attuale disciplina sotto un duplice profilo: per un verso, si tratta di considerare l'ipotesi di recuperare l'originaria finalità della disciplina, che era essenzialmente diretta nei confronti dei condannati per delitti di criminalità organizzata e, in questa ottica, potrebbe realizzarsi un intervento selettivo sulla evocata disposizione penitenziaria nel senso di espungere quei delitti che non siano riconducibili alla sua originaria ratio ispiratrice (quali a es. le fattispecie indicate nei commi 1 - tranne le ipotesi fatte salve dalla delega in esame - e quelle contenute nei commi 1-ter e 1-quater). Per l'altro verso, in sede attuativa si dovrebbe optare per il superamento degli automatismi preclusivi al percorso trattamentale esterno al carcere, con riguardosia alle disposizioni che “impediscono” (si pensi alla disciplina dell'art. 58-quater, ord. penit.) sia a quelle che “ritardano” l'accesso alle misure (sul piano concreto, il riferimento in quest'ultimo caso è al sistema di “quote di pena” che devono essere espiate dagli autori di determinati delitti per accedere ai benefici penitenziari). La stessa Corte costituzionale, del resto, afferma, invero che «[…] si deve partire dal costante orientamento di questa Corte, che esclude, nella materia dei benefici penitenziari, rigidi automatismi e richiede invece che vi sia sempre una valutazione individualizzata» (Corte cost., sent. 291/2010).

In riferimento al terzo profilo di possibile intervento, una dibattuta questione riguarda il c.d. ergastolo ostativo (la situazione, cioè, di chi è condannato all'ergastolano per delitti di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e non abbia collaborato con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter, ord. penit.). Si tratta di una pena perpetua de facto non riducibile (poiché resta immodificabile e insensibile perfino alle riduzioni di pena concesse a titolo di liberazione anticipata), così ponendosi in oggettivo contrasto con il principio di recupero sociale del reo sancito dalla Carta costituzionale (art. 27, comma 3, Cost.) e con i princìpi elaborati dalla giurisprudenza europea (da ultimo, Corte Edu, II sez., 23 maggio 2017, Matiošaitis and Others v. Lithuania). Fino ad ora, la Consulta ha sempre “salvato” la disciplina dell'ergastolo ostativo non riducibile affermando che tale assetto discriminante trovi giustificazione sul piano costituzionale, attesa la possibilità che, in ogni momento, il soggetto che vi è sottoposto dimostri per facta concludentia, attraverso la collaborazione con la giustizia, il distacco dall'organizzazione mafiosa e la volontà di emenda che l'ordinamento penale deve tendere a realizzare (Corte cost., sentenza n.135/2003 e sentenza n. 273/2001). Tale impostazione, tuttavia, offre il fianco all'obiezione che – secondo l'id quod plerumque accidit – può darsi una collaborazione senza ravvedimento, così come può esistere un ravvedimento senza collaborazione. La stessa Corte costituzionale ha osservato, del resto, che la scelta collaborativa «ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche», così come «la mancata collaborazione non può essere assunta come indice di pericolosità specifica» (Corte cost., sent. n. 306/1993). In altri termini, la collaborazione con la giustizia può comprovare – al massimo – l'abbandono da parte del soggetto dell'associazione malavitosa di appartenenza, ma non certo l'emenda dell'interessato, il cui accertamento non può prescindere dal vaglio delle motivazioni che hanno indotto la persona a scegliere la strada della collaborazione così come quella di non collaborare (a es. il concreto timore per l'incolumità propria o dei propri familiari;il ripudio morale di accusare parenti o soggetti legati da vincoli affettivi; l'impossibilità di rendere dichiarazioni collaborative, in quanto innocente vittima di errore giudiziario, etc.). In definitiva, l'assolutezza della presunzione legale di pericolosità/immeritevolezza che l'attuale disciplina attribuisce al fatto storico dell'assenza di collaborazione con la giustizia non appare dotato del necessario coefficiente di ragionevolezza alla luce del criterio dell'id quod plerumque accidit e si pone in contrasto con gli obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale associabili alla sanzione penale negando, altresì, spazio al (costituzionalmente necessario) esame del giudice di sorveglianza sulla effettiva sussistenza - in termini di concretezza e attualità - della pericolosità sociale del condannato, sintesi tra le esigenze preventive e quelle rieducative nel caso concreto.

La prospettiva di superamento dell'attuale assetto dovrebbe incentrarsi sulla revisione dell'art. 58-ter ord. penit., nel senso già indicato dalla Commissione ministeriale Palazzo istituita per Elaborare proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio penale, che aveva suggerito di trasformare l'attuale previsione della mancata collaborazione da presunzione assoluta di insussistenza dei requisiti per la concedibilità al detenuto o all'internato dei benefici penitenziari, a presunzione relativa, superabile con adeguata motivazione da parte del giudice; ipotesi di riforma che potrebbe completarsi con l'introduzione di ipotesi di accesso alle misure alternative anche in assenza di collaborazione con la giustizia, a fronte di condotte inequivocabilmente indice di distacco dall'organizzazione criminale di appartenenza e riparative del danno arrecato con la commissione del delitto.

Le videoconferenze a fini processuali

La direttiva contenuta nella lett. i)introduce la modifica della «disciplina dell'utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiar». L'attuazione di tale punto di delega dovrà coordinarsi con la riforma dell'attuale disciplina delle “videoconferenze” (artt.146-bis e 45-bis disp.att. c.p.p.) inserita nei commi 77 e 78 della delega, contemperando l'opportunità di migliorare l'attuale disciplina (introdotta per le note, positive ricadute sul piano della sicurezza e del risparmio di risorse finanziarie connesse alla modalità di partecipazione a distanza dell'interessato, che non dovrà più essere tradotto in udienza) e la necessaria garanzia del diritto all'interlocuzione della persona detenuta o internata con il giudice di sorveglianza, diritto che appare rafforzato dal principio – contenuto nella lett. c) della delega penitenziaria – in forza del quale deve essere assicurata la facoltà dell'interessato di presenziare all'udienza di sorveglianza. Il diritto alla presenza dell'interessato sottoposto ai procedimenti di sorveglianza di modello camerale “partecipato” (artt. 666 e 678 c.p.p.) dovrebbe strutturarsi – come si è già suggerito – quale possibilità di presenza effettiva se si tratti di detenuto nell'ambito della circoscrizione del giudice di sorveglianza procedente, ovvero come partecipazione al procedimento mediante videoconferenza nel caso di soggetti detenuti fuori di tale ambito territoriale superando così, per questi ultimi, l'obsoleto e poco garantistico strumento della c.d. rogatoria da parte del magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione, tuttora previsto dal comma 4 dell'art. 666 c.p.p. Nel caso di procedimenti relativi a detenuti sottoposti al regime detentivo speciale di cui all'art.41-bis, ord. penit., si dovrà comunque fare ricorso alla partecipazione a distanza, in linea con quanto già affermato dalla sentenza n. 342/1999 della Corte Costituzionale e con le disposizioni codicistiche (v. il nuovo comma 1-ter, art. 146-bis, disp. att. c.p.p.).

In conclusione

Le legge-delega di riforma dell'ordinamento penitenziario enuncia una serie articolata di princìpi e criteri direttivi destinati cambiare il volto dell'ordinamento penitenziario oggi vigente. Particolarmente rilevanti sono le novità che potrebbero essere introdotte in materia procedurale, con una razionalizzazione delle regole procedurali, calibrate su un modello strutturato su più livelli di garanzia e complessità del rito e con la sterilizzazione del doppio binario penitenziario le cui preclusioni impediscono attualmente il pieno dispiegarsi della giurisdizione rieducativa affidata alla magistratura di sorveglianza e, in ultima analisi, della funzione rieducativa dell'esecuzione della pena iscritta nell'art. 27, comma 3, della Costituzione. Sarà, tuttavia, il delicato compito che attende il legislatore delegato a conferire alla legge, varata dopo oltre due anni di tormentato percorso parlamentare, il carattere di una vera Riforma ordinamentale, al pari di quella intervenuta con la legge Gozzini del 1986 o con la legge Simeone del 1998, ovvero a ridimensionarne la portata a mero maquillage dell'esistente.

Guida all'approfondimento

Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai lavori parlamentari del provvedimento Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario AC 4368 – relatrice Donatella Ferranti (PD) e ai dossier e schede di lettura predisposti dal Servizio studi della Camera dei deputati. Si veda, inoltre, i testi delle proposte da cui ha avuto origine il testo unificato definitivamente approvato, tra i quali si segnala, in particolare, il d.d.l. di iniziativa governativa (C. 2798-S. 2067, Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all'ordinamento penitenziario per l'effettività rieducativa della pena”. Per un panorama dei possibili interventi in sede di attuazione della delega penitenziaria, si rinvia a Proposte per l'attuazione della Delega penitenziaria curate da G. Giostra e P. Bronzo, di prossima pubblicazione.

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