La particolare tenuità del fatto. Finalità ed ambito applicativo dell’istituto

07 Gennaio 2016

La non punibilità per particolare tenuità del fatto non ha finalità deflattive, né costituisce una sorta di “depenalizzazione in concreto” di reati bagatellari. Si tratta di istituto che costituisce la sintesi di alcuni principi cardine del diritto penale sostanziale e processuale.
Abstract

La non punibilità per particolare tenuità del fatto non ha finalità deflattive, né costituisce una sorta di “depenalizzazione in concreto” di reati bagatellari. Si tratta di istituto che costituisce la sintesi di tre principi cardine del diritto penale sostanziale e processuale: 1) la necessaria offensività del reato; 2) la finalità rieducativa della pena; 3) l'obbligatorietà dell'azione penale. La non punibilità del reato, che presuppone l'offesa e non la esclude, incide esclusivamente sulla finalità rieducativa della pena alla quale il legislatore rinuncia per la totale assenza dei suoi presupposti ed, in particolare, della necessità del rimprovero, ascrivendosi a pieno titolo nell'ambito della colpevolezza.

L'ambito di applicabilità oggettiva dell'istituto. Il limite edittale

Il reato non è punibile quando il fatto è di particolare tenuità.

Il limite oggettivo alla applicabilità dell'istituto è costituito dall'entità della pena edittale massima astrattamente prevista per il singolo reato che non può essere superiore a 5 anni di reclusione, congiunta o meno che sia alla pena pecuniaria.

Non ha alcuna rilevanza l'entità del minimo edittale, a prescindere dal fatto, per esempio, che possano darsi reati puniti con pena uguale o inferiore a cinque anni di reclusione ma con un minimo edittale superiore i quali, come noto, condizionano il trattamento sanzionatorio in caso di concorso con altri reati astrattamente più gravi riconducibili ad un'unica ideazione criminosa. È consolidato l'insegnamento giurisprudenziale che in questi casi il giudice è tenuto ad applicare una pena base che non sia inferiore al minimo edittale del reato satellite punito con pena edittale massima meno grave.

Ne deriva un primo segno di debolezza di un istituto che presta il fianco a questo possibile rilievo di irragionevolezza.

Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma – recita il comma 4 – non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest'ultimo caso ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all'articolo 69.

L'oggettività del dato “edittale” perde consistenza di fronte alla possibile incidenza sulla determinazione della pena delle circostanze ad effetto speciale o di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. E ciò non tanto perché è (a mio giudizio irragionevolmente) escluso il giudizio di bilanciamento di cui all'art. 69, c.p., quanto perché è fin troppo evidente che si inseriscono elementi di valutazione che sottraggono il dato massimo edittale della pena alla sua pura e semplice constatazione oggettiva e lo affidano al giudizio e, con esso, alle dinamiche del processo.

L'impossibilità del bilanciamento di incidere sulla punibilità del reato è il chiaro segno della volontà della legge di sottrarre alla discrezionalità del giudice l'area di applicabilità oggettiva dell'istituto ma mi chiedo, per converso, se non si tratti piuttosto di un'utopia, visto che anche la riconducibilità del fatto accertato nell'ambito di questa categoria astratta di reati puniti con pena non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione è il necessario frutto dell'opera di (magari anche diversa) qualificazione del fatto da parte del giudice (che, per fare un esempio, ritenga il reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990), il quale certamente può escludere la particolare tenuità del fatto anche in caso di mancata contestazione, da parte dell'organo titolare dell'accusa, di una circostanza ad effetto speciale o per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato che ritenga sussistente (sempre che non si ritenga, in quest'ultima ipotesi, che il giudice debba restituire gli atti al PM.. perché il fatto è diverso da come descritto nella rubrica, questione controversa vista la ritenuta non incidenza sul fatto delle circostanze aggravanti).

Di certo, però, si deve escludere che possano incidere sul massimo edittale le circostanze attenuanti ad effetto speciale che consentono la diminuzione della pena puramente e semplicemente in misura superiore al terzo (le pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi), piuttosto che da un minimo ad un massimo (la pena è diminuita da un terzo a due terzi). Nel primo caso, infatti, la diminuzione che la circostanza ad effetto speciale opera sul massimo edittale è pari ad un giorno (Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2014, n. 14585; Cass. pen., Sez. I, 13 ottobre 2004, n. 43456). Ne consegue, per fare un esempio, che la violenza sessuale che consista nel mero e fugace toccamento di una zona erogena non potrebbe mai essere considerata un fatto di particolare tenuità.

Nel caso in cui, invece, concorrano più circostanze ad effetto speciale o per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, l'art. 63, commi 3 e 4, c.p., prevede che si applichi soltanto la pena stabilita per la circostanza aggravante più grave o, in caso di circostanze attenuanti, la pena meno grave, che il giudice può, rispettivamente, aumentare o diminuire (scilicet) di un terzo (art. 64 c.p.).

Interpretando l'art 157, comma 2, c.p., la suprema Corte ha affermato che ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, ai sensi dell'art. 157, comma secondo, c.p., deve aversi riguardo, in caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale, all'aumento di pena massimo previsto dall'art. 63, comma quarto, c.p. per il concorso di circostanze della stessa specie. Infatti, anche la nuova formulazione dell'art. 157 non prevede alcuna riserva circa l'affermata influenza delle circostanze ad effetto speciale sui termini di prescrizione per il caso che ne sia contestata più d'una, salvo il necessario coordinamento con la previsione dell'art. 63 comma quarto, c.p., nel senso della limitazione dell'aumento di pena, a nulla rilevando, data l'autonomia della disciplina della prescrizione, la facoltatività dell'ulteriore aumento di pena una volta applicato quella per la circostanza più grave, o, nel caso di pari gravità, per una delle circostanze ad effetto speciale (Cass. pen., Sez. II, 10 maggio 2012, n. 31065; Cass. pen., Sez. II, 2 luglio 2010, n. 33871).

Analogamente, in sede di applicazione dell'art. 278, c.p.p., la suprema Corte ha autorevolmente e recentemente ribadito il principio (peraltro già affermato da Cass. pen. Sez. un. 8 aprile 1998,n.16) secondo il quale ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare, nel caso concorrano più circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o circostanze ad effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell'art. 63, comma quarto, c.p., della pena stabilita per la circostanza più grave, aumentata di un terzo, e tale aumento costituisce cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi del tipo già detto che mantengono la loro natura (Cass. pen., Sez. un., 27 novembre 2014 - dep. 22 settembre 2015, n. 38518).

Ciò sul decisivo rilievo che la natura facoltativa dell'aumento di pena stabilita dall'art. 64, c.p., non converte la circostanza ad effetto speciale in circostanza comune.

Ne consegue che, ai fini del calcolo della pena prevista dall'art. 131-bisc.p., ove concorrano più circostanze ad effetto speciale, occorre applicare il cumulo giuridico di cui all'art. 63, commi 4 e 5, c.p., con l'ulteriore aumento o diminuzione di un terzo.

Inutile sottolineare che laddove la circostanza aggravante, comune o speciale, ad effetto speciale o meno, è integrata dagli stessi fatti che, a norma dell'art. 131-bis, comma 2, c.p., escludono la particolare tenuità dell'offesa, la sua sussistenza esclude in radice l'applicabilità dell'istituto, a prescindere dalla sua incidenza sulla pena edittale.

Il reato tentato costituisce forma autonoma di reato. Ne consegue che, ai fini della quantificazione del massimo edittale, deve aversi riguardo a quello previsto per il reato consumato diminuito di un terzo.

La diminuzione, in caso di reato tentato circostanziato, opera sulla pena calcolata tenuto conto dell'aumento (massimo) o della diminuzione (calcolata nei termini sopra indicati) previsti per la circostanza ad effetto speciale (Cass. pen., Sez. VI, 23 giugno 1989, n. 11144; Cass. pen., Sez. I, 21 ottobre 2005, n. 41481) oppure sulla pena diversa prevista per la circostanza.

È necessario chiedersi se, ai fini del calcolo del limite edittale dei cinque anni di pena detentiva, si debba in ogni caso tener delle circostanze aggravanti ad effetto speciale o per le quali la legge stabilisce una pena diversa anche se non conosciute o incolpevolmente ignorate dall'autore del reato (art. 59, comma 2, c.p.). La formulazione letterale della prima parte del primo comma (Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva) sembra escludere la rilevanza degli stati soggettivi dell'autore del reato ai fini della concreta incidenza della circostanza aggravante sul calcolo della pena. Bisogna verificare, però, se tale soluzione sia conforme alla ratio dell'istituto come più avanti ricostruita.

Segue: L'esiguità del danno (o del pericolo)

All'interno della cornice edittale stabilita per legge, la valutazione di particolare tenuità del fatto è rimessa alla discrezionalità (tecnica) del giudice che, a tal fine, dovrà considerare:

  • la particolare tenuità dell'offesa;
  • la non abitualità del comportamento.

La particolare tenuità dell'offesa deve essere a sua volta valutata avendo riguardo: a) alle modalità della condotta; b) alla esiguità del danno o del pericolo.

Tale giudizio dovrà essere condotto ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., con esclusione, pertanto, dei criteri stabiliti dall'art. 133, comma 2, c.p. per accertare la capacità a delinquere. Ciò perché, ai fini della sussistenza della causa di non punibilità, rileva esclusivamente il criterio (negativo) della non abitualità del comportamento specificamente tenuto.

Non è chiaro se il richiamo all'art. 133, comma 1, c.p., consenta di valutare, sotto il profilo (oggettivo) della particolare tenuità dell'offesa, anche l'intensità del dolo o il grado della colpa (art. 133, comma 1, n. 3 c.p.), apparentemente esclusi dal solo riferimento alla modalità della condotta (art. 133, comma 1, n. 1 c.p.) e alla entità del danno o del pericolo (art. 133, comma 1, n. 2 c.p.). L'esclusione di tale parametro desta più di qualche perplessità sia per la funzione tipizzante/selettiva delle condotte offensive del bene tutelato dalla norma che il dolo assume, sia per la espressa rilevanza, ai fini della particolare tenuità dell'offesa, dei motivi a delinquere, dell'aver agito, cioè, per motivi abietti e futili.

Il danno (o il pericolo) deve essere esiguo, e dunque, secondo il significato linguistico del termine, minimo, trascurabile.

Il comma secondo dell'art. 131-bis c.p., non fornisce criteri di valutazione in tal senso. La natura esigua del danno (o del pericolo) concorre a rendere non punibile un fatto che è comunque offensivo, sicché essa non può essere confusa con le ipotesi di speciale (o particolare) tenuità o di lieve entità del fatto che attenuano il reato, senza escluderne l'offensività. Si tratta, dunque, di concetti non sovrapponibili che collocano la non punibilità per particolare tenuità del fatto nella angusta area schiacciata tra la totale inoffensività della condotta e il reato attenuato dalla speciale o particolare tenuità del fatto o dalla sua lieve entità (fermo restando che deve essere esclusa la particolare tenuità del fatto quando il giudice di merito ritenga insussistente la lieve entità del fatto o la speciale tenuità dell'offesa (cfr., sul punto, Cass. pen., Sez. I, 21 maggio 2015, n. 27246, secondo cui Il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della lieve entità relativa al porto di oggetti atti ad offendere - nella specie un'ascia ed alcuni bastoni in legno e ferro - di cui all'art. 4, comma terzo legge 18 aprile 1975, n. 110 impedisce la declaratoria di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.).

La necessaria offensività del reato è concetto ormai acquisito dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in particolar modo di quella del giudice delle leggi (Corte cost. sentenza n. 263 del 2000 e altre pronunce ivi richiamate: nn. 247 del 1997; 133 del 1992; 333 del 1991; 144 del 1991; 360 del 1995). Come insegnato dalla Corte costituzionale, la verifica del rispetto del principio dell'offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili (…) Diverso profilo è quello dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (…), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.) (Corte cost., sent. 13-24 luglio 1995 n. 360).

L'offensività, è stato precisato, deve ritenersi di norma implicita nella configurazione del fatto e nella sua qualificazione di illecito da parte del legislatore, salvo talune ipotesi marginali (…) nelle quali, a causa della necessaria astrattezza della norma, può verificarsi divergenza fra tipicità ed offesa (Corte cost., sent. 10-11 luglio 1991, n. 333). Di rilievo, ai fini della ratio dell'istituto, l'affermazione che l'art. 25 [Cost.], quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l'insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale (Corte cost., sent. n. 263 del 2000; cfr. altresì sentenza n. 225 del 2008 che ha ben sintetizzato lo stato dell'arte ricordando come l'ampia discrezionalità che – per costante giurisprudenza di questa Corte – va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l'opzione [anche] per forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva. Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l'esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall'art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo l'insieme dei valori connessi alla dignità umana (Corte cost., sentenza n. 263 del 2000).

La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (Corte cost., 265/2005, Corte cost. 263/2000; Corte cost. 519/2000 e Corte cost. 360/1995). Spetta, in specie, alla Corte – tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità – procedere alla verifica dell'offensività in astratto, acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria ma risponda all'id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza Corte cost. 333/1991). Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività in concreto). Esso – rimanendo impegnato ad una lettura teleologicamente orientata degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialità lesiva.

La non punibilità per particolare tenuità del fatto, dunque, presuppone il positivo superamento del doppio vaglio di offensività (in astratto ed in concreto) del reato consumato e della condotta posta in essere. L'esiguità, infatti, qualifica il danno o il pericolo concreto cagionati dal reato ma non lo esclude, pur collocandosi al di sotto delle ipotesi attenuate dalle speciale tenuità dell'offesa o della lieve entità del fatto.

L'esiguità del danno (o del pericolo) costituisce requisito per la non punibilità del fatto, che non può essere assorbito dalla non abitualità del comportamento: il reato attenuato occasionale resta pure sempre punibile.

Si tratta, dunque, di accertamento che deve essere effettuato caso per caso, non potendosi escludere l'esiguità del danno (o del pericolo) in base a valutazioni astratte. Ne consegue che le contravvenzioni, i reati formali e di condotta, di pericolo presunto e astratto, i reati commessi non in danno di persone fisiche o giuridiche, non escludono la applicabilità dell'istituto (con qualche dubbio per i reati c.d. ostacolo e di sospetto).

La questione è piuttosto un'altra e riguarda i casi in cui la offensività del reato derivi dal superamento di soglie (guida in stato di ebbrezza e reati tributari, per esempio) o quando la fattispecie richiede, ai fini della punibilità, una particolare intensità dell'offesa legata, per esempio, alla reiterazione della condotta (art. 612-bis, c.p.) o la sua necessaria abitualità o permanenza (dovendosi ritenere certamente compatibili con l'istituto i reati eventualmente permanenti o eventualmente abituali) o la distruzione dell'oggetto materiale della condotta (e non mi riferisco alle classiche ipotesi di danneggiamento ma alla distruzione, per esempio, delle bellezze naturali di cui all'art. 734, c.p.) o, ancora, la natura pubblica della condotta (artt. 414 e 414-bis, c.p.) o, ancora, i casi in cui l'aver agito con crudeltà costituisca elemento costitutivo della fattispecie (artt. 544-bis, 544-ter, c.p.).

Di recente, con ordinanza del 3 dicembre 2015 (non ancora depositata), la IV Sezione penale della suprema Corte ha rimesso alle Sezioni unite il quesito relativo alla applicabilità dell'istituto al reato di rifiuto di sottoporsi ad accertamenti volti a verificare la presenza nel sangue di sostanze alcoliche di cui all'art. 186, comma 7, cod. strada, questione positivamente risolta dalla stessa Sezione con sentenza n. 33821 del 1 luglio 2015, sul rilievo del mancato riscontro di una condotta di guida concretamente pericolosa.

L'astratta applicabilità dell'istituto ai casi in cui l'offesa al bene è legata al superamento di soglie di punibilità (che ne costituiscono elementi costitutivi e non condizioni obiettive di punibilità) è stata positivamente affermata a più riprese dalla Corte di cassazione in materia di reati tributari (Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449; Cass. pen., Sez. III, 9 settembre 2015, n. 43599). Occorre, naturalmente, che il danno o il pericolo siano esigui, che il superamento, cioè, si collochi appena al di sopra della soglia della penale rilevanza del fatto (recentemente la Terza Sezione, con sentenza del novembre 2015 non ancora depositata, ha escluso la non punibilità per il superamento della soglia nella misura di 10.000,00 euro circa).

Un recentissimo pronunciamento della suprema Corte ha ritenuto astrattamente applicabile l'istituto anche ai reati in materia urbanistico-paesaggistica (Cass. pen., Sez. III, 8 ottobre 2015, n. 47039), già peraltro implicitamente ammesso (anche se concretamente disconosciuto) dalla precedente Cass. pen., Sez. III, 2 luglio 2015, n. 31932, in tema di abbandono indiscriminato di rifiuti.

Resta, però, da chiarire quando il danno o il pericolo possano essere definiti esigui.

L'art. 131-bis, comma 2, c.p., fornisce solo un criterio interpretativo negativo, che pone, cioè, un limite alla discrezionalità del giudice nel ritenere la tenuità dell'offesa e che, tranne l'ultima parte del capoverso, riguarda le modalità della condotta e i motivi a delinquere ma non fornisce utili spunti in tal senso se non (forse) nell'ammettere implicitamente che le lesioni gravi non escludono di per sé una valutazione di particolare tenuità dell'offesa.

È necessario ricordare che secondo un isolato pronunciamento della suprema Corte, maturato in tema di improcedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, di cui all'art. 34, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (sulla competenza penale del giudice di pace), la particolare tenuità del fatto, andrebbe apprezzata avuto riguardo non solo alla esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato ma anche alla sussistenza degli ulteriori indici normativi della occasionalità della condotta, del basso grado di colpevolezza e dell'eventuale pregiudizio sociale dell'imputato, i quali ultimi non sono alternativi ma concorrenti con il primo, con la conseguenza che nell'ipotesi in cui il danno o il pericolo non sia esiguo, al fine di escludere la dichiarazione di improcedibilità, devono essere valutati anche gli altri parametri di riferimento sopra enunciati (Cass. pen., Sez. IV, 7 luglio 2005, n. 34179).

Secondo altro (e secondo il mio giudizio preferibile) indirizzo maggioritario, nell'ipotesi in cui il danno o il pericolo non sia esiguo, la declaratoria di improcedibilità è esclusa anche nell'ipotesi in cui sussistano gli altri parametri di giudizio (Cass. pen., Sez. IV, 4 luglio 2003, n. 36990; Cass. pen., Sez. IV, 9 luglio 2004, n. 40203; Cass. pen., Sez. V, 2 dicembre 2004, n. 7573; Cass. pen., Sez. IV, 28 aprile 2006, n. 24249; Cass. pen., Sez.IV, 7 maggio 2009, n. 34227).

Non è facile fornire un criterio interpretativo omogeneo che funga da comodo passe-partout agevolmente applicabile ad ogni singolo caso. Si tratta di valutazione necessariamente rimessa al prudente apprezzamento del giudice che in questa delicatissima opera deve essere orientato dalla specifica finalità dell'istituto che, come dirò, non è puramente e semplicemente deflattiva ma tocca, a mio giudizio, il cuore del diritto penale poiché attiene alla finalità rieducativa (e forse anche le ragioni stesse) della pena.

In questa sede si può solo dire che la valutazione della esiguità del danno o del pericolo va effettuata avuto riguardo anche al bene (o all'interesse) tutelato (oltre che alla finalità dell'istituto)

In materia urbanistico-paesaggistica, per esempio, è stato recentissimamente affermato che, ai fini della esiguità del danno o del pericolo, la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione. Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento (Cass. pen., Sez. III, 47039/2015, cit.).

Della concreta assenza di pericolosità nella condotta di guida s'è già detto e si può aggiungere, in generale, che nei reati di pericolo astratto e/o presunto, l'apprezzamento della concreta esiguità del danno (o forse sarebbe meglio dire del pericolo) va valutata in relazione alla attitudine della condotta a esporre a pericolo effettivo il bene tutelato (ma quid juris nei casi, per esempio, di cessione di una modica quantità di sostanza stupefacente con bassissima percentuale di principio attivo?).

L'ambito di applicabilità soggettiva dell'istituto. Il comportamento non abituale

Come anticipato, l'esiguità del danno va valutata anche in relazione alle specifiche finalità dell'istituto, non relegabile – a mio giudizio – e mero (oserei dire: rozzo) strumento di politica deflattiva.

È necessario a questo punto effettuare considerazioni di ordine più generale.

La lettura della norma rende evidente che ai fini della particolare tenuità dell'offesa rilevano anche stati soggettivi (per esempio i motivi abietti e futili) che nemmeno l'art. 133, c.p., considera ai fini della valutazione della gravità del reato ma che costituiscono, piuttosto, indice della capacità a delinquere del reo (art. 133, comma 2, n. 1, c.p.).

S'è già detto che l'esiguità del danno presuppone ma non esclude l'offensività del reato, imponendo pertanto l'obbligatorio esercizio dell'azione penale (art. 112, Cost.) cui lo Stato rinuncia non già per l'esiguità - appunto - dell'offesa, bensì perché la tenuità del fatto incide sulla finalità rieducativa della pena (di qui la necessità che il comportamento non sia abituale).

S'è già ricordato il principio secondo il quale l'offensività deve persistere dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice. Recentissimi ed autorevoli pronunciamenti della suprema Corte hanno ulteriormente sottolineato lo stretto legame che deve intercorrere tra la gravità oggettiva del reato, la conseguente proporzionalità della pena e la finalità rieducativa della stessa (Cass. pen., Sez. un., 26 giugno 2015, n. 46653; Cass. pen., Sez. un.,26 giugno 2015, n. 47766).

Il giudice delle leggi ha ribadito che la sanzione criminale rappresenta non già la risposta alla mera disobbedienza o infedeltà alla legge, in quanto sintomatica di inclinazioni antisociali del soggetto; quanto piuttosto la reazione alla commissione di fatti offensivi di interessi che il legislatore, interprete della coscienza sociale, reputa oggettivamente meritevoli di essere salvaguardati da determinate forme di aggressione col presidio della pena (Corte cost., 8 novembre 2006, n. 394). Una sanzione proporzionata alla gravità dell'offesa costituisce espressione del diritto inviolabile della persona (Cass. pen., 46653/2015, cit.). Necessaria offensività del reato e finalità rieducativa della pena costituiscono un binomio inscindibile sancito dal combinato disposto di cui agli artt. 2, 3, 13, 25 e 27, Cost.

La finalità rieducativa della pena non appartiene solo alla fase esecutiva: è già nel precetto, nelle modalità stesse con cui è confezionato e nella sanzione prevista per la sua violazione (Corte cost.364/1988). Si può affermare che la gravità dell'offesa costituisce, a livello di prevenzione generale, unità di misura della pena ma non in via esclusiva in sede di prevenzione speciale (artt. 132, 133, c.p. e oggi anche 131-bis, c.p.). Altri criteri, oltre la gravità dell'offesa, concorrono a definire e a regolare l'an e il quomodo della pretesa punitiva al fine di meglio adeguarla alla finalità rieducativa della pena (perdono giudiziale, sospensione del procedimento con messa alla prova, sospensione condizionale della pena, pene sostitutive, sospensione dell'esecuzione della pena, misure alternative alla detenzione; solo per fare degli esempi).

Quel che ora conta evidenziare, alla luce delle considerazioni che precedono, è che: a) la finalità rieducativa della pena appartiene (anche) al diritto sostanziale, come pure – significativamente – l'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, la cui collocazione codicistica, prima dell'art. 132, c.p., fornisce, a tal fine, un criterio interpretativo-sistematico fondamentale; b) la necessità della pena è collegata alla sua finalità rieducativa, sicché l'offesa al bene o comunque all'interesse tutelato può escludere la sua applicazione quando, in concreto, il fatto non esprime alcuna esigenza risocializzante del suo autore; c) solo la mancanza, in concreto, di tale esigenza legittima, sul piano costituzionale, la paralisi dell'azione penale.

L'istituto della particolare tenuità del fatto si inserisce in un sistema in cui l'azione penale è obbligatoria, sicché esso non può costituire (né essere interpretato alla stregua di un) criterio direttivo di politica criminale volto ad affermare il principio secondo il quale de minimis non curat praetor.

Esso riguarda piuttosto il rimprovero per il singolo fatto, che non si giustifica quando, per la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento, la pena non assolverebbe in alcun modo alla finalità rieducativa che la legittima (non a caso l'istituto in questione si collocava nella legge delega n. 67 del 28 aprile 2014 in un più ampio contesto di riforma del sistema sanzionatorio, non attuato dal Governo).

La non punibilità per particolare tenuità del fatto, incidendo sui presupposti del rimprovero, si colloca a pieno titolo nell'ambito della colpevolezza, esaltando ancor più il principio di extrema ratio del diritto penale.

È chiaro, alla luce delle considerazioni appena esposte, perché la abitualità del comportamento rende necessaria la sanzione e ciò anche nel caso in cui ogni singolo episodio isolatamente considerato sia di particolare tenuità.

Il legislatore non definisce il comportamento non abituale; dice, al contrario, cosa si deve intendere per comportamento abituale, con una definizione che, a mio giudizio, facendo leva sulla materialità delle condotte, indipendentemente dallo scopo perseguito, esclude – per esempio – l'applicabilità dell'istituto in caso di reato continuato (Cass. pen., Sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897; Cass. pen., Sez. III, 7 maggio 2015, ord. n. 21014) ma non in caso di concorso formale di reati di cui all'art. 81, comma 1, c.p. (così Cass. pen. 47039/2015, cit.) oppure, stando al tenore letterale della norma, in caso di reato continuato eterogeneo (intra).

Il comportamento è abituale – recita la norma – anche in caso di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Il riferimento è ai reati, non alle condotte; ne consegue che la consumazione anche di un solo reato è ostativa all'applicabilità dell'istituto quando concretamente posto in essere con condotte plurime (per esempio, detenzione e cessione di modiche quantità della medesima sostanza stupefacente), abituali e/o reiterate (art. 612-bis, c.p.).

La pregressa consumazione di più reati della stessa indole, osta al riconoscimento della particolare tenuità del fatto e ciò indipendentemente dalla circostanza che il giudice non ritenga il nuovo reato espressione della pericolosità sociale dell'autore (disapplicando, magari, la recidiva contestata).

Il riferimento alla stessa indole lascia però intendere che non costituisca condizione ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto la pregressa consumazione di più reati di indole diversa (a prescindere dagli effetti sull'aumento dei limiti massimi di pena edittale della eventualmente contestata recidiva reiterata che possono però essere esclusi ove il giudice la disapplichi; cfr., sul punto, Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2012, n. 2090; Cass. pen., Sez. VI, 7 ottobre 2010, n. 43771).

Il che, oltre a comportare qualche problema di coordinamento con le ipotesi di abitualità e/o professionalità nel delitto (che non necessariamente presuppongono la consumazione di reati della stessa indole), problema facilmente superabile dalla considerazione che in quei casi l'autore del fatto è ritenuto persona socialmente pericolosa (il che costituisce ulteriore elemento per circoscrivere l'applicazione dell'istituto ai casi in cui tale giudizio può essere certamente escluso), sembra presupporre l'esistenza di un rapporto diretto tra finalità rieducativa della pena e bene offeso dalla condotta del reo, nel senso che la reiterazione di più reati della stessa indole impone la reazione sanzionatoria, riservando al giudice la discrezionalità sul quomodo della pena, non sull'an, reazione ritenuta evidentemente non necessaria in caso di commissione di reati diversi (e ciò pur considerando che anche in questi casi può essere contestata la recidiva, per esempio reiterata ed infraquinquennale) purché non commessi per i motivi o con le modalità indicate nel comma 2.

In conclusione

Non è affatto azzardato a questo punto ipotizzare che la necessità di un rapporto diretto tra bene offeso e finalità rieducativa della pena non resti confinata ai termini quantitativi (ma neutri) che il principio di proporzionalità comporta (a tanta quantità di offesa, corrisponde tanta quantità di pena) ma valorizzi anche lo specifico atteggiamento interiore dell'autore del fatto rispetto allo specifico bene leso (o messo in pericolo) con la sua condotta, dando nuova linfa e contenuto alla natura personale della responsabilità penale e con essa alla centralità stessa della persona quale oggetto e soggetto ad un tempo del diritto penale, unità di misura della reale umanizzazione della pena e della civiltà di un popolo, cordone che lega per davvero e fino in fondo il reato al suo autore concorrendo a rendere effettiva la finalità rieducativa della pena che sia, non più idealmente, cucita addosso alla peculiarità di ciascun condannato secondo l'unicuique suum.

Si recuperano anche per questa via le pregevolissime ed insuperate e sempre più attuali argomentazioni che condussero la Corte costituzionale a dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5, c.p.

Un diverso argomentare, che valorizzasse le esigenze deflattive dell'istituto, tradirebbe la centralità che la persona assume nella Costituzione repubblicana, trasformandola da fine a mezzo di politiche criminali ispirate a logiche del tutto estranee anche all'obbligatorietà dell'azione penale, innescando una pericolosa bomba ad orologeria che spianerebbe la strada verso forme più o meno palesi di discrezionalità dell'azione penale ed al suo controllo esterno.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario