Abuso del diritto e dichiarazione infedele. Un'opinabile presa di posizione della Cassazione

Ciro Santoriello
07 Settembre 2017

La penale irrilevanza delle condotte di abuso del diritto e di elusione fiscale presuppone che l'operazione, pur principalmente finalizzata al conseguimento di un vantaggio tributario, sia tuttavia caratterizzata da una effettiva e reale funzione economico sociale meritevole di tutela per l'ordinamento ...
Massima

La penale irrilevanza delle condotte di abuso del diritto e di elusione fiscale presuppone che l'operazione, pur principalmente finalizzata al conseguimento di un vantaggio tributario, sia tuttavia caratterizzata da una effettiva e reale funzione economico sociale meritevole di tutela per l'ordinamento, tale non potendosi ritenere un'operazione che sia, viceversa, meramente simulata e costituente un mero simulacro privo di qualsivoglia effettivo contenuto. In quest'ultimo caso, infatti, ci si troverebbe di fronte non tanto ad una ipotesi di abuso di un pur sussistente e valido negozio giuridico quanto ad una vera e propria macchinazione priva di sostanza economica il cui unico scopo, anche attraverso il sapiente utilizzo di strumenti negoziali fra loro collegati, sarebbe quello di raggiungere un indebito e penalmente rilevante vantaggio fiscale.

Il caso

In un procedimento penale si contestava la violazione dell'art. 4 d.lgs. 74 del 2000 in conseguenza dell'indebita indicazione nella dichiarazione dei redditi di una plusvalenza – conseguente all'alienazione di una partecipazione societaria – in regime di esenzione parziale pari al 95% anziché di una plusvalenza ordinariamente tassabile.

In particolare, una società alienava l'intera partecipazione societaria detenuta in altra persona giuridica ed applicava alla plusvalenza derivante da tale cessione la tassazione prevista dall'art. 87 d.P.R. 917 del 1986, con conseguente esenzione parziale della tassazione per un importo pari al 95% della plusvalenza ottenuta. Tale indicazione era però contestata dalla procura in quanto si sosteneva che, in realtà, le parti intendevano non già cedere la partecipazione societaria ma gli immobili facenti parte del complesso aziendale le cui quote erano alienate; chiaramente, laddove l'oggetto dell'alienazione fosse stato correttamente indicato nei beni immobili, la significativa plusvalenza ottenuta dalla società alienante sarebbe stata sottoposta a tassazione ordinaria, con conseguente maggior carico di imposta per il contribuente.

In entrambi i giudizi di merito, la contestazione era stata ritenuta fondata ed il contribuente condannato per il reato di dichiarazione infedele. In sede di ricorso per cassazione la difesa, oltre ad eccepire la correttezza della ricostruzione della vicenda operata dall'organo inquirente – sostenendo che l'operazione negoziale andava qualificata come cessione di quote sociali e non come mero trasferimento di proprietà di beni immobili –, si sofferma sulla natura elusiva, e quindi penalmente irrilevante, dell'operazione. Secondo la difesa, infatti, pur volendosi aderire alla tesi secondo cui nel caso di specie si era innanzi ad un'alienazione di beni, qualificata in maniera scorretta dal contribuente, tale circostanza non sarebbe stata inquadrabile nella fattispecie di cui all'art. 4 d.lgs. 74 del 2000, alla luce di cui dispone il comma 13 del nuovo art. 10-bis l. 212 del 2000, introdotto dal d.lgs. 158 del 2015 ed a norma del quale «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie»; conseguentemente, in siffatti casi, non sarebbe più configurabile il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, posto che va escluso che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti.

La questione

Da molto tempo è discussa la possibile rilevanza penale delle condotte di elusione fiscale. Con il tempo la giurisprudenza di legittimità era giunta a ritenere che in materia tributaria nulla impedisse il riconoscimento di una qualificazione in termini di penale rilevanza dell'abuso del diritto, giacché dai principi di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, dettati dall'art. 53 Cost., poteva desumersi che il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo in maniera distorta di strumenti giuridici idonea ad ottenere un risparmio fiscale, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabile che possono giustificare l'operazione.

Conformemente a tale ricostruzione, la Suprema Corte aveva ad esempio ritenuto sussistente il fumus del reato di omessa dichiarazione con riferimento ad una condotta di estero vestizione della società, avente residenza fiscale all'estero ma operante di fatto nel territorio nazionale italiano (Cass. pen., Sez. IV, 20 novembre 2014, n. 3307, Bellavista) ed in altre occasioni (Cass. pen., Sez. V, 9 settembre 2013, n. 36894, Della Gatta) si era affermato che i reati tributari di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione possono essere integrati anche dalle condotte elusive a fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione espressamente previste dalla legge – ovverosia quelle di cui agli artt. 37, comma 3, e 37-bis d.P.R. 600 del 1973 (Cass. pen., Sez. II, 28 febbraio 2012, n. 7739, Gabbana), considerato che la fattispecie di cui all'art. 4 d.lgs. 74 del 2000 non richiede la sussistenza di una dichiarazione fraudolenta ma soltanto la presentazione di una dichiarazione infedele e pertanto integra tale illecito anche la mera indicazione, anche senza l'uso di mezzi fraudolenti, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ed elementi passivi fittizi, quando ricorrano le altre condizioni ivi previste in relazione all'ammontare dell'imposta evasa e degli elementi attivi sottratti all'imposizione e risultino superate le relative soglie di punibilità.

Queste considerazioni vanno in qualche modo riviste alla luce del disposto di cui al comma 13 dell'art. 10-bis, citato dal ricorso della difesa. L'art. 10-bis dello Statuto del contribuente in primo luogo contiene una definizione di abuso del diritto nonché delle condotte di elusione fiscale, unificando questi due istituti in precedenza considerati in maniera differenziata (o comunque non accomunati dalla sottoposizione ad una medesima disciplina): in base alla suddetta disposizione si è in presenza di un'ipotesi di abuso del diritto quando una o più operazioni, prive di sostanze economica, pur se adottate nel rispetto delle norme tributarie, consentono di realizzare vantaggi fiscali indebiti; la norma prosegue chiarendo che deve ritenersi priva di sostanza economica un'operazione quando i fatti, gli atti ed i contratti, anche fra loro collegati risultino inidonei a produrre effetti significativi diversi dei vantaggi fiscali – vengono indicati quali possibili indici di tale circostanza la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme o la non conformità degli strumenti adottati rispetto alle normali logiche di mercato, mentre si ritengono abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extra fiscali non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale e funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente.

In secondo luogo il comma 13 del medesimo articolo prevede che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributari», previsione che è stata oggetto di qualche equivoco nella giurisprudenza della Cassazione.

In una prima occasione, infatti, la Corte di legittimità (Cass. pen., Sez. V, 7 ottobre 2015, n. 40272) ha sostenuto che il citato comma 13 avrebbe realizzato una radicale depenalizzazione delle condotte di abuso del diritto in quanto fra le condotte elusive e gli illeciti tributari correrebbe un rapporto di mutua esclusione nel senso che l'abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del decreto 74 del 2000: ecco perché, una volta che si sia riconosciuta la natura elusiva della condotta del contribuente, nei confronti dello stesso non possono muoversi rimproveri di rilevanza penale e ciò in quanto «la disciplina dell'abuso del diritto applicazione solo residuale rispetto le disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare, l'evasione e la frode, […] fattispecie [che] vanno perseguite con gli strumenti che l'ordinamento già offre» (sulla decisione della Cassazione, in senso adesivo a tale decisione, MUCCIARELLI, Abuso del diritto reati tributari: la Corte di Cassazione fissa limiti ed ambiti applicativi, in Dir. pen. cont. Perplessità sono espresse da SANTORIELLO, Irrilevanza penale dell'abuso del diritto, in Fisco, 2015, 4066).

Questa impostazione è stata però superata da due decisione successive della medesima Cassazione (Cass. pen., Sez. III, 20 novembre 2015, n. 41755; Cass. pen., Sez. III, 20 aprile 2016, n. 48293) che hanno precisato come, se da un lato il comma 13 del citato art.10-bis fa senz'altro venire meno la rilevanza penale delle condotte meramente elusive dei precetti penali tributari, al contempo può «definirsi elusiva, e pertanto, sulla base della disciplina sopravvenuta, penalmente irrilevante, solamente una operazione che, pur principalmente finalizzata al conseguimento di un vantaggio tributario, sia tuttavia caratterizzata da una effettiva e reale funzione economico sociale meritevole di tutela per l'ordinamento, tale non potendosi ritenere un'operazione che sia, viceversa, meramente simulata. In tale seconda fattispecie, la quale ricorrerebbe laddove la operazione costituisse un mero simulacro privo di qualsivoglia effettivo contenuto, ci si troverebbe di fronte non tanto ad una ipotesi di abuso di un pur sussistente e valido negozio giuridico quanto ad una vera e propria macchinazione priva di sostanza economica il cui unico scopo, anche attraverso il sapiente utilizzo di strumenti negoziali fra loro collegati, sarebbe quello di raggiungere un indebito vantaggio fiscale. È, pertanto, evidente che in una tale situazione, esulando la fattispecie dalla ipotesi penalmente irrilevante dell'abuso del diritto - postulando quest'ultimo concetto, come dianzi rilevato, comunque l'utilizzo di strumenti, ancorché soggettivamente finalizzati ad effetti diversi da quelli tipici dei negozi realizzati, giuridicamente validi ed aventi una loro meritevole causa giuridica ulteriore rispetto alla mera elusione fiscale - non potrebbe considerarsi scriminata».

Secondo questi più recenti – e consolidati – approdi della giurisprudenza di legittimità, dunque, il confine fra condotte elusive, aventi ai sensi dell'art. 10-bis, comma 13, l. 212 del 2000 rileva solo in sede amministrativa tributaria e comportamenti posti in essere in violazione della legge penale è segnato dalla circostanza che il contribuente abbia o meno, nella vicenda presa in esame, posto in essere comportamenti fraudolenti, ingannevoli, mendaci nei confronti del fisco. Se tali circostanze non sono rinvenibili nel caso di specie, allora, alla luce delle nuove formulazioni di cui agli artt., 1, lett. g-bis) e g-ter), 3 e 4 d.lgs. 74 del 2000, deve escludersi comunque la sussistenza di una fattispecie criminosa, quale che sia in sede tributaria la qualificazione che voglia darsi dell'attività negoziale poste in essere dal privato; quando invece il contribuente abbia posto in essere comportamenti dotati di tale capacità ingannatoria e decettiva nei confronti della Amministrazione Finanziaria, allora è sicuramente possibile sostenere una sua responsabilità penale per i delitti di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione mendace, anche laddove le vicende e le operazioni contrattuali falsamente rappresentate dal contribuente possano avere anche una valenza elusiva ed essere qualificate in termini di abuso del diritto in sede amministrativa.

Le soluzioni giuridiche

Nella decisione in commento, la Cassazione pare ribadire i concetti da ultimo espressi.

Secondo i giudici di merito, le effettive intenzioni degli acquirenti erano unicamente quelle di acquistare gli immobili del complesso aziendale e non quelle di acquistare quote di una società di capitali del gruppo. Ciò posto, allo scopo di evitare l'ordinaria e corretta tassazione della plusvalenza derivante dalla cessione di immobili (tassazione sottoposta ad un'aliquota ben più alta di quella dovuta in caso di alienazione di partecipazioni sociali), l'imputato poneva in essere un'operazione di scissione parziale della società la cui quote venivano alienate al solo scopo di evitare il carico fiscale connesso al conseguimento della plusvalenza patrimoniale a fronte della cessione del complesso immobiliare: utilizzando la società scissa come mero "contenitore" destinato a far circolare i beni oggetto della trattativa conclusa con í predetti promittenti acquirenti attraverso la successiva cessione delle quote societarie, facendo rientrare la plusvalenza realizzata a seguito della cessione di suddette quote societarie nella disciplina della esenzione parziale (95%) ai fini Ires ex art. 87 Tuir.

In presenza di tale ricostruzione dei giudici di merito – ritenuta non censurabile in sede di legittimità, sub specie di vizio di motivazione – la Cassazione esclude che nel caso di specie si possa ravvisare unicamente una generica volontà consapevole di avvalersi degli strumenti negoziali previsti dagli artt. 37 e 37-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per ottenere vantaggi fiscali non dovuti, dovendosi ritenere il dolo specifico di evasione, ovvero la deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo, essendo stata l'esenzione fiscale ottenuta mediante negozi collegati tra loro niente affatto finalizzati ad una effettiva cessione di partecipazione societaria in un'azienda attiva e che avrebbe dovuto continuare ad operare. In particolare, conclude la Suprema Corte, nel caso sottoposto a suo esame si sarebbe in presenza di comportamenti simulatori preordinati alla immutatio veri del contenuto della dichiarazione reddituale, con una comprovata esistenza di una falsità ideologica che interessa, nella parte che connota il fatto evasivo, il contenuto della dichiarazione, inficiandone la veridicità per avere come obiettivo principale l'occultamento totale o parziale della base imponibile.

Osservazioni

La decisione della Cassazione suscita più di una perplessità.

È indiscutibile che la distinzione fra i comportamenti di elusione fiscale ed alle condotte di evasione dei tributi ci pare che la stessa sia stata accolta dallo stesso Legislatore e sia stata “formalizzata” in sede di riforma, operata con il decreto legislativo 158 del 2015, dei reati di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione mendace di cui agli artt. 3 e 4 d.lgs. 74 del 2000 unitamente all'introduzione delle innovative definizioni in tema di definizioni di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente e di mezzi fraudolenti di cui alle lettere g-bis) e g-ter) presenti nell'art. 1 d.lgs. 74 del 2000.

Come è noto, dopo la riforma il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici presenta ora un terzo comma nel quale dalla nozione di mezzi fraudolenti sono esplicitamente esclusi «la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali»; nell'art. 4 invece è stato introdotto il comma il comma 1-bis, il quale dispone che «ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali»; infine, il citato art. 1 definisce le «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente» quali «operazioni apparenti diverse da quelle disciplinate dall'art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti» ed individua i «mezzi fraudolenti» nelle «condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà». Evidentemente, il significato di tali innovazioni è univoco e va individuato nella volontà del Legislatore della riforma di sanzionare, nell'ambito dei delitti in materia di dichiarazione, le sole condotte maggiormente lesive degli interessi dell'Erario qualificate da comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione ed all'utilizzo di documentazione falsa. Per questa ragione scelte elusive del contribuente non hanno rilevanza penale: in esse, infatti, il privato palesa la sua condotta, esterna chiaramente al Fisco le modalità con cui è pervenuto a definire l'imposta pagata e tale trasparenza consente all'Erario di contestare la dichiarazione fiscale, misconoscendo costi che – pur se realmente esistenti - ritiene ingiustificati e non deducibili, di attribuire ricavi che invece il contribuente aveva escluso di aver maturato ecc.

Al contempo, però, la nuova formulazione delle fattispecie penali tributarie dimostrano come, nonostante quanto previsto dal comma 13 dell'art. 10-bis, residui comunque uno spazio per riconoscere valenza criminale ad una condotta di elusione fiscale o di abuso del diritto. Se infatti non è penalmente rilevante un comportamento negoziale del contribuente inteso a conseguire esclusivamente vantaggi fiscali indebiti e non dovuti, tale conclusione deve mutare di segno quando il privato tenga una tale condotta elusiva con modalità fraudolente, occultando l'intenzione di raggiungere finalità diverse da quelle che l'ordinamento riconnette all'esercizio delle facoltà in concreto esercitate o rappresentando in maniera mendace le circostanze in presenza delle quali si pone la sua azione o nascondendo le particolari e censurabili modalità con cui è stato esercitato il diritto di cui pure è titolare, ecc. Detto altrimenti, la condotta di abuso del diritto ha una penale rilevanza solo quando il comportamento esteriore del soggetto presenta – rispetto ad ogni altra generica ipotesi di scorretto esercizio di proprie facoltà giuridiche – una connotazione fraudolenta, ingannatoria, che cela la reale struttura della vicenda in cui si cala il comportamento del singolo, ne camuffa i presupposti e le effettive conseguenze.

Riferita questa affermazione al diritto penale tributario – e richiamando quando previsto dai nuovi artt. 1, lett. g-bis) e g-ter), 3 e 4 d.lgs. 74 del 2000 – deve concludersi nel senso che il confine fra condotte elusive, aventi ai sensi dell'art. 10-bis, comma 13, l. 212 del 2000 rilevanza solo in sede amministrativa tributaria, e comportamenti posti in essere in violazione della legge penale è segnato dalla circostanza che il contribuente abbia o meno, nella vicenda presa in esame, posto in essere comportamenti fraudolenti, ingannevoli, mendaci nei confronti del fisco. Se tali circostanze non sono rinvenibili nel caso di specie, allora, alla luce delle nuove formulazioni di cui agli artt., 1, lett. g-bis e g-ter, 3 e 4 d.lgs. 74 del 2000, deve escludersi comunque la sussistenza di una fattispecie criminosa, quale che sia in sede tributaria la qualificazione che voglia darsi dell'attività negoziale poste in essere dal privato; quando invece il contribuente abbia posto in essere comportamenti dotati di tale capacità ingannatoria ricettiva nei confronti della amministrazione finanziaria, allora è sicuramente possibile sostenere una sua responsabilità penale per i delitti di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione mendace, anche laddove le vicende e le operazioni contrattuali falsamente rappresentate dal contribuente possano avere anche una valenza elusiva ed essere qualificate in termini di abuso del diritto in sede amministrativa (ovviamente, proprio la circostanza tali comportamenti presentano una colorazione criminale in virtù del loro carattere di frode ed idoneità ingannatoria impone di ritenere gli stessi sussumibili sotto la fattispecie di reato di dichiarazione fraudolenta anziché potersi richiamare la meno grave ipotesi di dichiarazione infedele – come invece da sempre ritenuto dalla giurisprudenza che ha attribuito una qualifica di valenza criminosa all'elusione fiscale e come ritenuto, nel caso di specie, in sede di merito).

Queste conclusioni non sono facili da tradurre in termini operativi quando – come appunto nel caso di specie – la condotta fraudolenta contestata al contribuente sia consistita nella conclusione di operazioni simulate. La definizione dei contorni di questa tipologia di condotta fraudolenta costituisce presumibilmente il profilo delicato nella ricostruzione della fattispecie incriminatrice in parola, giacché, per individuare a quali comportamenti intende riferirsi il legislatore potrebbe farsi riferimento al disposto di cui all'art. 1414 c.c. (IMPERATO, Modifiche alle definizioni generali nel diritto penale tributario, in Fisco, 2015, 31.), in base al quale in presenza di fatti di simulazione viene a realizzarsi uno scollamento tra la realtà effettuale ed economica e l'immagine che ne viene fornita ai soggetti estranei all'operazione, cui è rappresentata la conclusione del negozio del quale però le parti non vogliono se ne realizzino gli effetti – la cosiddetta simulazione assoluta – o è documentata la parvenza di un contratto diverso da quello voluto dalle parti (cd. contratto dissimulato) – in caso di simulazione relativa – o infine è attestata la conclusione di un negozio riguardante soggetti diversi da quelli che effettivamente vi prendono parte – cosiddetta simulazione soggettiva, detta anche interposizione fittizia.

Al contempo però potrebbe sostenersi che, ai sensi dell'art. 3 d.lgs. 74 del 2000, le operazioni simulate andrebbero individuate anche nelle scelte negoziali che, in luogo di essere finalizzate a produrre gli effetti che l'ordinamento di regola riconnette alle stesse, siano intese a “strumentalizzare” il contratto concluso fra le parti onde ottenere un risparmio sul piano dell'imposizione tributaria: detto altrimenti, si potrebbe affermare che, nelle vicende di elusione fiscale le parti concludono un negozio avendo di mira non il perseguimento degli effetti giuridici che dalla stipula di quell'atto ordinariamente discendono ma essendo interessati al solo risparmio di imposta che ne consegue, sicché anche in tale circostanza si sarebbe in presenza di una simulazione sia pur riferita non al fatto materiale dell'accordo quanto alle ragioni per cui lo stesso è concluso. È questa appunto la tesi della Cassazione, la quale contesta al contribuente di aver sì concluso ed operato una scissione societaria, ma con l'intento di raggiungere un intento diverso da quello che l'ordinamento riconnette a tali operazioni di frazionamento di una persona giuridica.

È proprio questa parte della decisione che non ci convince, dovendosi ribadire che la condotta di simulazione richiamata da diverse disposizioni del d.lgs. 74 del 2000 fa riferimento ad una divaricazione fra attestazione negoziale, cioè fra quanto le parti attestano volere e porre in essere con il contratto, e la realtà dei fatti sia pur riguardata in un'ottica giuridica. Deve dunque ritenersi simulato il contratto da cui non consegue l'effetto che l'ordinamento riconnette alla sua conclusione – esemplificativamente, le parti stipulano una compravendita ma in realtà il bene rimane nella disponibilità assoluta del simulato alienante – o i cui effetti giuridici intercorrono fra soggetti diversi da quelli che compaiono come parti del negozio – in caso di simulazione relativa. Di contro, non assume rilievo, nel senso che non rende simulato il negozio concluso dalle parti, la circostanza che lo stesso non abbia una – come si esprime l'art. 10-bis statuto contribuente – “sostanza economica“ e non rivesta alcuna finalità imprenditoriale ma sia diretto solo ad ottenere un vantaggio i termini di obbligazione erariale.

Due argomentazioni possono essere richiamate a sostegno di questa tesi. In primo luogo va considerato come la condotta dissimulatoria del privato – lungi dal rappresentare un fenomeno sconosciuto e proprio del diritto penale – rappresenta un'ipotesi che trova pieno riconoscimento in ambito civilistico ed il codice civile infatti regolamenta questo istituto tanto con riferimento agli effetti che possono conseguire dalla stipula di un atto simulato quanto relativamente le modalità con cui la simulazione va provata, di conseguenza non si comprenderebbe per quale ragione nel settore penale – e peraltro solo nella materia del diritto penale tributario - tale figura dovrebbe assumere contorni diversi da quelli considerati dall'art. 1414 c.c.. In secondo luogo, ci pare sia lo stesso Legislatore penale ad escludere, sia pur in modo confuso, la correttezza della conclusione che stiamo contestando: la formula, che compare nella lett. g-bis) dell'art. 1 del medesimo decreto 74/200, secondo cui «per operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall'articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212» – la cui presenza parrebbe altrimenti arduo giustificare posto che, per l'appunto, fra operazioni simulate e operazione elusive vi è assoluta incompatibilità – sta proprio ad indicare che il Legislatore del 2015 ha inteso escludere la possibilità di qualificare come simulate e quindi penalmente rilevanti le operazioni negoziali che siano effettive ma al contempo, perseguendo finalità elusive, risultino connotate da uno sviamento rispetto alla causa tipica che la relativa regolamentazione normativa assegna loro.

Guida all'approfondimento

Sulle problematiche dell'abuso del diritto e dell'elusione fiscale, la bibliografia è amplissima ed analoga considerazione può farsi con riferimento alla giurisprudenza. Limitandosi dunque alla citazione dei lavori e delle pronunce più recenti si segnalano:

CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. Prat. Trib., 2009, 464;
VACCA, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Riv. Dir. Trib., 2008, I, 1069;
MARCHESELLI, Equivoci e prospettive dell'elusione tributaria, fra principi comunitari e principi nazionali, in Dir. Prat. Trib., 2010, I, 803;
PIERLINGERI, Profili civilistici dell'abuso tributario. L'inopponibilità delle condotte elusive, Napoli 2012; FIORENTINO, Note critiche in tema di abuso del diritto, in Dir. Prat. Trib., 2011, 2, 733;
BUCCI, La norma “generale” antielusiva nell'interpretazione del comitato consultivo: alcune considerazioni, in Rass. Trib., 2002, 2, 523;
RENDA, L'abuso del diritto nella giurisprudenza della Corte di cassazione (2005-2011), in Dir. Prat. Trib., 2011, II, 1293;
LOVISOLO, L'art. 53 della Costituzione come fonte della clausola generale antielusiva ed il ruolo delle “valide ragioni economiche” tra abuso del diritto, elusione fiscale e antieconomicità delle scelte imprenditoriali, in Riv. Giur. Trib., 2009, 216.

In giurisprudenza:
Cass. civ., Sez. V, 26 febbraio 2014, n. 4604;
Cass. pen., Sez. V, 15 gennaio 2014, n. 653;
Cass. pen., Sez. V, 30 novembre 2012, n. 21390;
Cass., Sez. trib., 11 maggio 2012 n. 7393.

Sulla rilevanza penale delle condotte di elusione fiscale la dottrina è vastissima, senza pretesa di completezza:

BASILAVECCHIA, Quando l'elusione costituisce reato, in Riv. Giur. Trib., 2012, 381;

CARACCIOLI, Imposta elusa e reati tributari di evasione nell'impostazione della Cassazione, Riv. Dir. Trib., 2012, III, 926

CORSO, Una elusiva sentenza della Corte di Cassazione sulla rilevanza penale dell'elusione, in Corr. Trib., 2012, 1074;

D'AVIRRO, L'elusione entra a torto nell'illecito penale tributario, in Corr. Giur., 2012, 493; TROYER, La rilevanza penale dell'elusione tra suprema Corte e Legislatore dopo la sentenza D&G, in Soc., 2012, 692;

DI SIENA, La criminalizzazione dell'elusione fiscale e la dissolvenza della fattispecie criminosa, in Riv. Dir. Trib., 2012, III, 86;

LA ROSA, Sugli incerti confini fra l'evasione, l'elusione e l'assenza del presupposto soggettivo I.V.A., in Riv. Dir. Trib., 2006, 2, 619;

MARCHESELLI, Equivoci e prospettive dell'elusione tributaria, fra principi comunitari e principi nazionali, in Dir. Prat. Trib., 2010, I, 803;

ID., Elusione e sanzioni: un'incompatibilità logico-giuridica, in Corr. Trib., 2009, 1990;

ID., Elusione, buona fede e principi del diritto punitivo, ibidem, 411;

TUGNOLI, Note a margine della asserita rilevanza penale dell'elusione fiscale alla luce del caso Dolce&Gabbana, in Cass. Pen., 2012, IV, 4222;

TURIS, Rilevanza penale dell'elusione fiscale, in questa Rivista, 2012, 1810);

VENEZIANI, Elusione fiscale, "esterovestizione" e dichiarazione infedele, in Dir. Pen. Proc., 2012, 863.

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