Esercizio abusivo di professione e violenza sessuale attraverso l'abuso delle condizioni di inferiorità psichica

07 Novembre 2016

Non è censurabile in sede di legittimità nessuna questione attinente la sufficienza dell'istruttoria, l'attendibilità delle testimonianze raccolte o delle documentazioni lasciate dalle persone offese o il presunto mancato esame circa la bontà di un metodo scientifico ...
Massima

Non è censurabile in sede di legittimità nessuna questione attinente la sufficienza dell'istruttoria, l'attendibilità delle testimonianze raccolte o delle documentazioni lasciate dalle persone offese o il presunto mancato esame circa la bontà di un metodo scientifico qualora la corte di merito non abbia lasciato lacune nell'iter argomentativo e motivazionale circa tutte queste valutazioni.

Il rapporto di connessione anche meramente investigativa tra esercizio abusivo della professione medica e violenza sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichica, rileva anzitutto anche sul piano della procedibilità d'ufficio di tutti i reati così connessi; inoltre la commissione di condotte sessuali nell'ambito di un rapporto di totale affidamento tra operatore/specialista medico e paziente, indipendentemente dalla metodologia seguita dal curante ed, a maggior ragione, se il curante è andato anche oltre le competenze della propria professione, proprio in virtù del rapporto di totale fiducia ingenerato nelle vittime, esclude ogni tipo di consenso idoneo a legittimare l'invasione della sfera sessuale della vittima e configura di per sé una violenza sessuale compiuta mediante induzione e abuso delle condizioni di inferiorità psichica.

Il caso

Il procedimento in questione ha avuto ad oggetto, da un lato, un'associazione per delinquere finalizzata, attraverso l'esercizio abusivo delle professioni di medico, psicologo e psicoterapeuta, alla consumazione di truffe ai danni di privati ed enti pubblici nonché, dall'altro, diversi episodi di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p. per i quali soltanto, di fatto, gli imputati riportavano condanna mentre dalle altre imputazioni essi venivano assolti, in primo grado, perché il fatto non sussiste e, in appello, per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione.

Le condotte di abuso sessuale contestate ai ricorrenti avevano ad oggetto atti sessuali che gli stessi avrebbero indotto (artt. 609-bis, comma 2 n. 1 e 609-septies, comma 4 n. 4 c.p.) le vittime a subire o compiere abusando delle condizioni di inferiorità psichica delle stesse al momento dei fatti, derivanti dall'essere state a loro affidate quali pazienti e nell'erronea convinzione che essi avessero le qualifiche sopra indicate, ingenerata ed alimentata dagli stessi ricorrenti, per la cura dei gravi disturbi psicogeni dell'alimentazione da cui esse erano affette, e dall'avere indicato quelle attività sessuali quale strumento idoneo a superare le inibizioni connesse ai suddetti disturbi. La condotta era stata qualificata come aggravata perché commessa con abuso della relazione di prestazione d'opera tra il sedicente psicoterapeuta (o teatroterapeuta o psicologo, nel caso degli altri ricorrenti) e le pazienti.

Vari e diversi i motivi di ricorso avanzati dagli imputati. Alcuni sotto il profilo della motivazione: i ricorrenti infatti lamentavano la carenza di motivazione nelle parti in cui la sentenza avrebbe recepito acriticamente quanto statuito dal tribunale in primo grado senza alcuna considerazione dei motivi di appello proposti. Veniva altresì prospettata l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale per non avere la Corte accolto le eccezioni preliminari relative al difetto di giurisdizione del giudice italiano, al difetto di competenza territoriale del Tribunale di Como e alla nullità del decreto che dispone il giudizio nonché l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nulllità in quanto il decreto che disponeva il giudizio non enunciava in forma chiara e precisa i fatti oggetto di imputazione né, soprattutto, offriva una doverosa contestualizzazione degli stessi indicando solamente dei lassi temporali di notevole durata con la conseguenza di privare gli imputati in parte del loro diritto di difesa, non consentendo loro ad esempio di poter fornire alibi precisi per momenti precisi. Altro motivo di censura aveva poi ad oggetto la perseguibilità d'ufficio delle condotte di abuso sessuale, ricavata dal giudice di appello per via della ritenuta connessione investigativa che, nelle argomentazioni dei ricorrenti, invece non sarebbe sufficiente dovendo interpretarsi la connessione di cui all'art. 609-septies c.p. in relazione all'art. 12 c.p.p. Ulteriore gruppo di argomenti di censura atteneva l'istruttoria dibattimentale che non era stata integrata o rinnovata in appello come richiesto dai ricorrenti, con riferimento in particolare al mancato espletamento di perizia psichiatrica allo scopo di valutare l'attendibilità di una delle pazienti degli imputati che, suicidatasi prima del processo, aveva tuttavia lasciato dei dettagliati diari su quanto avveniva nei rapporti tra gli imputati e le pazienti nel corso del ricovero nelle strutture incriminate. Infine veniva evidenziato che la Corte d'appello avrebbe ripreso apoditticamente le valutazioni del tribunale sulle testimonianze raccolte senza vagliarne ulteriormente l'attendibilità e, dunque, senza adeguatamente motivare in proposito.

La questione più interessante sotto il profilo del principio di diritto esaminato, tuttavia, riguarda il rapporto, nel caso in oggetto, tra atti sessuali intercorsi tra imputato e pazienti; il rapporto tra i suddetti atti e indagine sulla “bontà” del metodo neoreichiano, asseritamente applicato nella clinica in questione, titoli professionali dell'imputato, attività che gli era lecito esercitare e abuso della condizione di inferiorità psichica delle pazienti.

Secondo i ricorrenti né la sentenza di primo grado né quella di appello avrebbero esaminato il metodo di cura applicato dai ricorrenti, l'atteggiamento delle pazienti nel momento in cui venivano posti in essere questi interventi, i titoli professionali detenuti dai ricorrenti e le specifiche attività che può compiere uno psicologo, un counselor o un naturopata. In altri termini, nella impostazione difensiva, i suddetti atti sessuali erano esplicazione metodologica e pratica delle teorie reichiane e neoreichiane che le stesse pazienti presunte vittime di violenza sessuale consentivano venissero applicate. Profilo particolare di queste argomentazioni costituiva poi l'insufficiente o contraddittoria motivazione che veniva lamentata con riferimento alla mancata applicazione della scriminante putativa dell'art. 50 c.p. in tema di consenso della persona offesa.

La questione

Al di là delle ulteriori questioni evidenziate nei ricorso e che la suprema Corte risolve in termini dettagliati e precisi escludendone nella maggior parte l'ammissibilità (perché attinenti alla parte del merito e non a quella della censura di legge, non ravvisando carenze, lacune o contraddizioni nel percorso logico argomentativo della corte d'appello), in altri casi la fondatezza (come nel caso delle eccezioni processuali su giurisdizione e competenza), la questione cruciale risolta dalla Corte pare essere quella del rapporto tra esercizio abusivo della professione ed i reati di violenza sessuale, sia sotto il profilo procedurale della connessione necessaria ad estendere la procedibilità d'ufficio dal primo reato ai secondi, sia sotto il profilo del vaglio della correttezza e completezza del percorso logico ed argomentativo quanto alla sussistenza e prova della condotta di induzione e di abuso di posizione di inferiorità psichica.

Le soluzioni giuridiche

Sul primo punto, evidenzia la Corte che richiedere una connessione reale (ex art. 12 c.p.p.) e non meramente investigativa per questa estensione, non tiene conto della ratio dell'art. 609-septies, comma 4 n. 4, c.p. che attiene al venir meno, per effetto della procedibilità d'ufficio di un altro reato, di quella riservatezza circa l'accadimento di abusi sessuali che è l'unica ragione alla base dell'attribuzione del diritto di querela alla parte offesa da questo genere di reati. Nessuna analogia in malam partem dunque ma pieno rispetto della ratio degli istituti sostanziali e processuali.

Decisamente più interessante e diffuso, ma analogamente limpido, il discorso che conduce la Corte sotto il profilo della completezza motivazionale della Corte di merito quanto alla sussistenza dei reati di esercizio abusivo della professione e di abuso sessuale mediante induzione e approfittamento della inferiorità psichica delle vittime.

Evidenzia la suprema Corte come la sussistenza del reato di esercizio abusivo delle varie professioni mediche non autorizzate sia stata dalla Corte di merito ritenuta in base ad un articolato testimoniale, ben corroborato da riscontri esterni nonché caratterizzato da intrinseca attendibilità delle singole dichiarazioni testimoniali esaminate, ritenendo pertanto le osservazioni dei ricorrenti appaiono del tutto lacunose, insufficienti anche solo ad ingenerare quel ragionevole dubbio o quella incongruenza motivazionale che, sola, potrebbe legittimare la suprema Corte a riesaminare la questione. A nulla, dunque, rilevano le osservazioni poste in ricorso circa la legittimazione, in territorio estero, al compimento di alcuni degli atti specificamente indicati come appartenenti a professione qui non autorizzata con i titoli posseduti. Rammenta la Corte, infatti, che tutto il contesto probatorio ritenuto dalla Corte d'appello a fondamento della propria decisione appare completo e congruente nelle motivazioni esplicitate e del tutto in linea con la giurisprudenza maggioritaria sulla questione. Di più. Tutto il contesto storico degli accadimenti, parrebbe corroborato da ogni singolo elemento probatorio acquisito, sicché non solo non vi è spazio per lacune argomentative censurabili sotto il profilo della motivazione giuridica ma nemmeno vi è spazio per dubbi logici nel momento in cui le condotte di esercizio abusivo delle professioni vengono, nell'impianto accusatorio, collegate ai contestati fatti di abuso sessuale e alla carenza del necessario consenso delle vittime agli atti sessuali proposti. Nessun dubbio, in sostanza, solleva il ragionamento della corte di merito quando ritiene che il reato di esercizio abusivo della professione sia integrato da atti, anche isolati, che ingenerano il fondato convincimento, nelle pazienti, circa la legittimazione a compiere determinate attività medico-psicologiche, indipendentemente da quelle che sono le categorizzazioni per i vari ordini professionali nei singoli paesi. Laddove poi le pazienti prestavano il loro consenso a compiere o subire atti a chiaro contenuto sessuale, non è a ragione stata ritenuta necessaria nessuna presa di posizione della Corte d'appello rispetto alla dottrina scientifica reichiana o neoreichiana, ai suoi fondamenti, alla bontà scientifica delle sue teorie, essendo pacifico che altro sia fare applicazione di quelle teorie e del tentativo di sbloccare la sessualità delle pazienti, ritenuta a fondamento dei loro problemi di alimentazione, altro è compiere, nella qualità di curante, con le stesse veri e propri atti sessuali. Nessuna dottrina scientifica e nessun codice deontologico di alcuna professione possono evidentemente giustificare quest'ultima condotta. Al pari è evidente che le pazienti, prestando il consenso al trattamento medico proposto, si affidavano al curante (che esse ritenevano, nei casi oggetto di condanna, erroneamente nel legittimo esercizio di quegli atti medici) per sottoporsi ad un ciclo terapeutico e non prestavano invece alcun consenso ad atti sessuali con gli stessi. A conferma di questa macroscopica differenza e della congruità della scelta della corte di merito di non avere alcuna necessità né alcun titolo per indagare o valutare la fondatezza scientifica delle teorie prospettate, la suprema Corte evidenzia come l'ampio materiale testimoniale esaminato dalla corte di merito conferma che il trattamento “speciale” a base di relazione sessuale non era affatto generalizzato e praticato nelle sedute collettive ma riservato solo ai cd. “cavalli di razza”, indirizzate verso specifiche sedute individuali, con ciò stesso confermando la estraneità degli atti sessuali al trattamento medico in sé della cui fondatezza per cui non è necessario discutere in alcun modo.

Sotto il profilo specifico della condizione di inferiorità psichica in cui versavano le vittime al momento del compimento degli atti sessuali, la suprema Corte richiama la coerenza delle motivazioni della corte di merito con la giurisprudenza di legittimità che ha sempre escluso la necessità, in questi casi, di una patologia mentale, essendo sufficiente la circostanza che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all'altrui opera di coazione psicologica o di suggestioni, posto che siffatte situazioni psichiche devono ritenersi idonee ad elidere comunque, in tutto o in parte, la capacità della vittima di esprimere un valido consenso, sì da impedirle di respingere efficacemente gli atti sessuali dell'agente.

È dunque evidente che, ad escludere la configurabilità del reato di violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, di cui all'art. 609-bis, comma 2 n. 1, c.p., non è sufficiente che la persona abbia acconsentito a compiere o subire atti sessuali ma è necessario accertare se tale consenso non si configuri quale conseguenza di una strumentalizzazione della inferiorità della vittima da parte del reo, che abbia sfruttato le condizioni di minorata capacità di resistenza o di comprensione della natura dell'atto da parte del soggetto passivo anche mediante una opera di induzione consistente in una opera di persuasione sottile o subdola con cui il partner è spinto o convinto a sottostare ad atti che altrimenti non avrebbe compiuto ovvero mediante strumentalizzazione delle condizioni di menomazione della vittima per accedere alla sfera intima della persona che viene ridotta a mezzo per soddisfare l'altrui libidine. Pertanto i rapporti consensuali sono leciti solo se non connotati da induzione o abuso delle condizioni di menomazione, anche ambientali, di consistenza tale da incidere negativamente sulla volontà e libertà sessuale della vittima, sì da determinare in quest'ultima una assente o minorata capacità di resistenza agli stimoli esterni. L'esame tanto delle minorate condizioni del soggetto passivo e della consapevolezza delle stesse da parte dell'agente, quanto dell'abuso di tale stato a fini sessuali è precipuo compito del giudice e non, di per se stessa, materia di perizia psichiatrica o psicodiagnostica.

Nessuno dei ricorsi, conclude la Corte, si confronta con queste argomentazioni e dunque con la ratio decidendi della sentenza impugnata. In altri termini, nessun vizio di motivazione o di argomentazioni è ravvisabile nel ragionamento della corte di merito quando ritiene che nulla a che vedere con il consenso necessario per escludere l'illiceità degli atti sessuali avevano gli assoggettamenti di alcune pazienti, specificamente selezionate, alle particolari “proposte terapeutiche” in quanto indottevi dalla convinzione, per la fiducia nutrita nei confronti del terapeuta, che si trattasse di passaggi necessari a conseguire la guarigione. Il fatto che questo quadro, infine, fosse emerso tanto dalle prove dichiarative raccolte quanto dai diari della vittima deceduta a seguito di suicidio, esclude ogni necessità di ulteriori accertamenti circa l'attendibilità o la patologia psichiatrica della deceduta, non essendovi nemmeno quel margine di dubbio ragionevole che potrebbe fondare una carenza probatoria o argomentativa.

la corte d'appello ha dunque concluso come fosse emerso con chiarezza, tanto dalla lettura del diario quanto dalle prove dichiarative, l'approfittamento da parte dell'imputato della malattia fisiopsichica in cui versava la ragazza, l'inganno realizzato avendo spacciato la pratica sessuale con il terapeuta come uno strumento di guarigione, suggestionando enormemente la donna che versava in condizioni emotive e psicologiche particolarmente precarie senza neppure disdegnare di prospettarle la necessità di cambiare analista qualora non avesse accettato la terapia sessuale proposta. Una simile condotta, a ragione ritenuta dalla corte di merito di chiara rilevanza penale, è stata giudicata, come si desume dal testo della sentenza impugnata, dall'ordine professionale della regione interessata al cui albo professionale l'imputato era iscritto, contraria alle più fondamentali ed elementari regole deontologiche tanto da comportarne la radiazione proprio a seguito di quanto emergente dalla lettura del diario.

Nessun elemento probatorio, tra quelli evidenziati dalle difese, era dunque stato tralasciato dalla sentenza di secondo grado e, tuttavia, nessuno era stato ritenuto tale da inficiare il contesto accusatorio alla luce del numero e della coerenza delle prove a carico, testimoniali e documentali. Nessuna lacuna logica o argomentativa, dunque, può essere ravvisata nel ragionamento della corte di secondo grado, a fronte di considerazioni difensive del tutto generiche e non dettagliate, come peraltro quelle inerenti la presunta inattendibilità delle testimonianze delle persone offese o della loro pari attendibilità rispetto a considerazioni generiche e non probanti come quella della presunta impotenza di uno degli imputati. La suprema Corte ribadisce come tutto ciò non possa trovare spazio nell'esame della legittimità avendo la Corte d'appello affrontato e deciso in maniera logica e completa tutti gli aspetti fattuali della valutazione e bilanciamento dei contrapposti elementi probatori portati dalle parti.

Osservazioni

In conclusione, tutti i ricorsi delle difese sono stati considerati inammissibili o infondati proprio a fronte dell'esame della Corte di merito che, su tutte le questioni prospettate a contrasto dell'impianto accusatorio, era stato completo, approfondito e logico. Le stesse argomentazioni difensive erano intimamente contraddittorie, come ad esempio laddove sostenevano la possibilità di sussistenza della scriminante putativa del consenso dell'avente diritto che, sinteticamente ma ineccepibilmente, la Cassazione liquida evidenziando che proprio le asserite e documentate competenze professionali degli imputati inducono a ritenere insostenibile detta scriminante nel ragionamento della Corte di merito: rammenta la Cassazione, infatti, che detta scriminante non è applicabile quando debba escludersi, in base alle circostanze del fatto, la ragionevole persuasione di operare con l'approvazione della persona che può validamente disporre del diritto e la Corte d'appello più che diffusamente aveva spiegato che l'imputato aveva la qualifica di psicologo e dunque il bagaglio culturale più che sufficiente a comprendere quanto fosse viziato l'apparente consenso delle sue pazienti (oltre alla circostanza fattuale e non opinabile che quelle condotte sessuali avvenivano in incontri individuali che nulla avevano a che vedere con l'applicazione del metodo reichiano o neoreichiano).

Ribadendo dunque i principi interpretativi già in passato oggetto della giurisprudenza maggioritaria di legittimità, la Corte chiaramente riafferma come la sussistenza del delitto di esercizio abusivo della professione medica, integrato anche da uno o più singoli atti di esercizio, debba essere correttamente inquadrata nel contesto concreto dell'affidamento del soggetto paziente al curante e nella ragionevole opinione, indotta dallo stesso curante, che quanto posto in essere sia passaggio necessario e lecito della terapia proposta nel pieno esercizio delle competenze professionali qualificate dello stesso, indipendentemente dalla formale qualifica attribuitasi e dalle categorizzazioni delle singole professioni differenti anche da stato a stato. Ed è proprio questo affidamento delle pazienti al curante a porre le basi dell'induzione e dell'approfittamento che inficia in toto ogni eventuale consenso prestato a vere e proprie pratiche sessuali estranee ad ogni ipotesi di terapia.

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