L’azione medica, anche se ad esito infausto e senza previo consenso informato, è incompatibile con il delitto di lesioni

Gaetano Bonifacio
08 Giugno 2016

La mancanza o l'inidoneità dell'informativa resa dal medico al paziente in vista di un intervento operatorio o di un trattamento terapeutico, non comporta la configurabilità del delitto di lesioni personali dolose, ove l'attività del medico sia sorretta dal proposito di migliorare la salute del paziente, in quanto è solo l'opera posta in essere dal medico contro la volontà del paziente a rendere il suo agire illecito.
Massima

La mancanza o l'inidoneità dell'informativa resa dal medico al paziente in vista di un intervento operatorio o di un trattamento terapeutico, non comporta la configurabilità del delitto di lesioni personali dolose, ove l'attività del medico sia sorretta dal proposito di migliorare la salute del paziente, in quanto è solo l'opera posta in essere dal medico contro la volontà del paziente a rendere il suo agire illecito.

Il caso

La suprema Corte nella sentenza in commento si è occupata della tematica del consenso informato all'attività medica, in relazione ad un intervento chirurgico con esito infausto e alla possibile configurabilità del delitto di lesioni personali sia nella forma dolos, che colposa in relazione alla violazione delle legesartis nel compimento dell'atto operatorio.

Le tematiche sono quindi duplici: la prima attiene alla configurabilità di una responsabilità penale in capo al medico che agisce senza aver preventivamente informato il paziente, rendendo possibile la configurabilità di un illecito penale sorretto dal dolo, la seconda invece fa riferimento alla violazione delle regole di proprie del delitto colposo, in relazione a quelli che sono i protocolli medici nell'esecuzione dell'intervento chirurgico.

La questione

L'argomento proposto in commento, è quello del consenso dell'avente diritto in relazione all'attività medica, argomento che il supremo Collegio ha avuto modo di prendere in esame in numerose pronunce.

Il consenso dell'avente diritto, codificato nell'art. 50 c.p., è dalla dottrina classificato come scriminante in presenza della quale, il soggetto che pone in essere una condotta di lesione o di messa in pericolo di un diritto giuridicamente protetto da una norma penale, non è punibile.

Come ormai pacificamente riconosciuto il consenso non è un negozio giuridico ne di diritto civile ne penale, è un mero atto giuridico, come tale sempre revocabile, eccetto che nei casi in cui, come gli interventi chirurgici, l'attività non può essere arrestata se non una volta portata a termine.

Affinché la scriminante in questione sia applicabile, è necessaria la perfezione di un reato, attraverso la lesione o messa in pericolo di un diritto, di cui la persona offesa possa validamente disporre, tanto che in dottrina si discute se la scriminante possa ricorrere solo in presenza di diritti disponibili e non anche indisponibili, decisione questa non sempre agevole, dovendosi essa desumere dalle norme dell'intero ordinamento.

Infatti con riferimento agli atti di disposizione del proprio corpo, l'art. 5 del codice civile, pone un limite al consenso in relazione a quegli atti che cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica, o che comunque siano contrari al buon costume o all'ordine pubblico.

I limiti applicativi della disposizione penale, dovrebbero essere quelli, peraltro già emergenti da quello che è il tenore letterale della citata disposizione, in quanto se è vero che il consenso dell'avente diritto in materia di lesione di diritti indisponibili, potrebbe essere ammesso in quanto, il soggetto potrebbe porre in essere la stessa azione lesiva nei confronti di se stesso senza per ciò poter essere sanzionato, è anche vero che l'ordinamento non può consentire la sussistenza di una causa di giustificazione in presenza di comportamenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume.

Il consenso informato con riferimento alla pratica medica, si sostanzia nella rappresentazione della realtà relativa all'intervento medico, che deriva al paziente dall'informazione fornita dal medico.

Individuare la scriminante del consenso dell'avente diritto, come causa di giustificazione in relazione alla responsabilità medica, perlomeno con riferimento ai delitti dolosi, non pare essere la soluzione più corretta, se si considerano quelli che sono i presupposti dell'esercizio dell'arte medica.

Infatti, come è stato osservato dai giudici della suprema Corte, la scriminante di cui all'art. 50 c.p., deve per sua stessa natura, essere orientata a rendere lecite condotte altrimenti costitutive di reato, situazione questa ben diversa da quella in cui deve essere correttamente inquadrata l'attività medica, che è arte nobile e complessa, che persegue il bene costituzionalmente garantito della salute.

Il diritto alla salute infatti, trova il suo più alto fondamento normativo negli artt. 2 e 32 della Carta costituzionale, con i limiti posti nell'art. 5 c.c., dovendo il medico agire per il solo fine del miglioramento della salute del paziente, anche in forza del giuramento di Ippocrate prestato da quest'ultimo, prima di iniziare l'esercizio della professione medica.

L'azione del medico, orientata verso il miglioramento o perlomeno il mantenimento della salute del paziente, fa si che tra le parti si instauri un peculiare rapporto, basato sulla fiducia e sulla preparazione professionale del medico, in modo che lo stesso possa consigliare al paziente il percorso terapeutico più conveniente, soprattutto nelle ipotesi in cui si prospetti la necessità di un intervento chirurgico, in cui dovere del medico è quello di prospettare quali siano i rischi connessi a tale evenienza e, soprattutto, se vi sia un metodo di cura, magari farmacologico, alternativo a quello dell'intervento, informativa questa, attuata la quale il paziente dovrebbe essere in grado di decidere quale delle ipotesi prospettate dal medico sia quella più conveniente; in tali casi si può parlare di consenso informato in relazione al percorso terapeutico da praticare, perché il paziente è posto in condizione di poter decidere in maniera consapevole.

Nel valutare la sussistenza del consenso informato, si deve considerare che la scienza medica è portatrice di concetti ben difficili da capire per chi non è medico, concetti che il medico ha magari impiegato anni di studi e di pratica per apprendere appieno, quindi magari difficili da trasmettere al paziente non “addetto ai lavori” con una semplice spiegazione, per quanto dettagliata e particolareggiata possa essere.

La valutazione della sussistenza del consenso deve quindi essere operata in base a quelle che sono le evenienze processuali del fatto, in relazione alla gravità dell'intervento, alla persona del paziente, e a quanto questi abbia potuto apprendere in relazione ai possibili esiti dell'intervento, sia favorevoli che sfavorevoli.

L'inosservanza del dovere di fornire un informazione completa ed esaustiva sulla diagnosi effettuata, potrebbe far sorgere un'ipotesi di inadempimento contrattuale da parte del medico e, ampliando il raggio dei soggetti potenzialmente responsabili, in capo alla struttura ospedaliera pubblica o privata che sia, in cui esso opera e in cui il paziente è ospitato, secondo quanto stabilito dalle Sezioni unite della suprema Corte di cassazione, che avevano individuato una vera e propria figura contrattuale atipica, quella della spedalita, intercorrente tra il paziente e la struttura medica in cui lo stesso è ospitato, tale per cui la struttura medica non solo mette a disposizione del paziente il vitto e l'alloggio alla stessa stregua di una struttura alberghiera, ma fornisce al paziente l'assistenza medica ed infermieristica specializzata, corredata dall'attrezzatura medica specialistica richiesta per l'intervento chirurgico o il trattamento medico necessario (Cass. civ., Sez. unite, 11 gennaio 2008, n. 577).

L'unico limite all'azione medica è da individuarsi nel dissenso espressamente prestato dal paziente, circostanza questa che rende illecito ogni atto compiuto dal medico.

Il principio ispiratore dell'azione del medico, dove dunque essere quello del perseguimento della salute del paziente, in modo tale che non rientrino nel raggio della volontà, finalità diverse da quelle terapeutiche.

In tal modo non sarebbe configurabile il dolo di figure delittuose come quella delle Lesioni personali di cui all'art. 582 c.p., elemento soggettivo che si concretizza in capo a chi agisce per ledere l'integrità fisica altrui.

Infatti, ai fini della perfezione del delitto di lesioni personali dolose, così come descritto nella fattispecie di cui all'art. 582 c.p., è necessario che la volontà del soggetto attivo sia diretta a ledere l'altrui integrità fisica; tale fine, è estraneo ed incompatibile con quello dell'esercente la professione medica, che invece persegue il miglioramento della salute del paziente; chi agisce per curare è indubbio che non vuole nuocere, essendo le due finalità incompatibili tra loro, rendendo in tal modo non configurabile il delitto di lesioni personali a titolo di dolo in capo al medico, perlomeno sotto il profilo dell'elemento soggettivo e naturalmente al di fuori delle ipotesi dell'azione medica posta in essere per fini di lucro, o per ogni altro scopo illecito che non sia quello della tutela della salute.

La professione medica, ai fini della legislazione penale, è definita all'art. 359 c.p., dove si stabilisce che, agli effetti della legge penale, sono persone che esercitano un servizio di pubblica necessità i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie […].

Il perseguimento di tali fini, propri della professione medica, fa si che si possa considerare la posizione del medico diversa, rispetto alla posizione di chi causa una lesione dell'integrità personale altrui al di fuori dell'ambito medico, per esempio nell'esercizio dell'attività sportiva “violenta”, di per se stessa certamente lecita, ma avente finalità differenti, che rendono invece necessario, ai fini della giustificazione delle eventuali lesioni riportate dai concorrenti, l'applicazione della scriminante di cui all'art. 50 c.p.

La finalità dell'azione sportiva è quella di vincere un incontro, certamente nel rispetto delle regole proprie del tipo di disciplina praticata, che rende necessario colpire l'avversario, talvolta cagionando lesioni personali; tale azione è sorretta dall'elemento soggettivo dolo rispetto all'evento lesioni personali, perlomeno nella forma del dolo eventuale, di tal che si rende necessario ricorrere alla scriminante del consenso dell'avente diritto, al fine di rendere lecita una condotta altrimenti costitutiva del delitto di cui all'art. 582 c.p.

È quindi la diversa finalità dell'azione, che fa si che nel caso dell'attività medica, svolta entro i limiti sopra esposti, non vi sia bisogno di ricorrere alla scriminante del consenso dell'avente diritto, mentre in altre attività, come per esempio quella sportiva questo è necessario.

Le soluzioni giuridiche

Il caso in esame è caratterizzato dall'intervento dei sanitari, tratti a giudizio per non aver adeguatamente e preventivamente informato la paziente dei rischi a cui andava incontro nell'intervento chirurgico a cui era sottoposta.

I giudici del supremo Collegio, escludevano sulla base delle evenienze processuali, che l'ipotesi accusatoria fosse sussistente, in quanto consideravano l'agire dei medici, posto in essere in base a quelli che sono i propositi dell'arte medica, ovvero il miglioramento della salute del paziente, come causa giustificante l'azione, osservando che agire per il miglioramento della salute, è finalità incompatibile con quella di voler ledere l'altrui incolumità personale, nel delitto di lesioni personali di cui all'art. 582 c.p., ovvero con il fine di coartare l'altrui volere, nel caso si volesse ravvisare, come è avvenuto in passato da parte di alcuna giurisprudenza, il delitto di violenza privata di cui all'art. 610 c.p., mancando per l'integrazione di tale ipotesi di reato, quelli che sono gli elementi oggettivi di fattispecie, ovvero le condotte di violenza o di minaccia, non ravvisabili nel caso di specie sulla base di quelle che sono le evenienze processuali.

Tale impostazione, peraltro assolutamente condivisibile perché causalmente orientata a considerare l'operato dei sanitari sulla base di quelli che sono i suoi presupposti generali, ovvero il perseguimento della salute del paziente, porta a non poter ravvisare nell'azione dei medici, ove questi siano gli intenti, ed escluso ogni altro fine illecito, quale può essere quello di lucro, che gli stessi possano essere chiamati a rispondere di un delitto doloso in relazione alle lesioni eventualmente derivate dall'intervento, al di fuori delle ipotesi dell'intervento eseguito nonostante l'espresso dissenso del paziente.

Osservazioni

Tema centrale della sentenza in commento è quello del consenso dell'avente diritto, scriminante codificata nell'art. 50 c.p., che la Corte prende in esame per sottolinearne la non necessaria applicazione, nel caso di esito infausto di un intervento medico, in quanto tale scriminate, per sua natura ricorrente nell'ipotesi di commissione di condotte costitutive di reato, sarebbe di necessaria applicazione solo ove si tratti di condotte criminose, poste in essere con l'intenzione di recare danno alla salute della persona, fine questo estraneo all'agire del medico.

La peculiarità di questa impostazione è ravvisabile nel fatto che essa basa il suo fondamento su quelli che sono i presupposti dell'azione dei medici, sempre volti, salvo situazioni con fini illeciti che vanno trattate separatamente, al miglioramento della salute del paziente, e quindi alla distinzione tra le lesioni derivanti dalla pratica medica, da quelle che sono le lesioni che derivano da altre cause, che non trovano la loro giustificazione nel perseguimento della salute del soggetto a cui sono recate, bensì nel fine di recare un danno, ipotesi nella quale troverebbe giustificazione l'applicazione della scriminate in questione.

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