I limiti dell’archiviazione a fronte di una diversa qualificazione del fatto-reato

Enrico Campoli
08 Ottobre 2015

La diversa qualificazione giuridica di un fatto-reato consente l'esercizio dell'azione penale anche in caso di già intervenuta archiviazione per esso, senza cioè che sia richiesta al giudice per le indagini preliminari l'autorizzazione alla riapertura delle indagini.
Massima

La diversa qualificazione giuridica di un fatto-reato consente l'esercizio dell'azione penale anche in caso di già intervenuta archiviazione per esso, senza cioè che sia richiesta al giudice per le indagini preliminari l'autorizzazione alla riapertura delle indagini.

Anche in caso di sentenza di estinzione del reato per intervenuta prescrizione il giudice, ex art. 322-ter e 240, comma 2, n. 1, c.p., può disporre la confisca del profitto o del prezzo del reato.

Nel caso in cui la confisca abbia ad oggetto somme di denaro essa può dispiegarsi in forma diretta, sempre che vi sia pertinenzialità tra esse ed il reato.

Il caso

L'imputato condannato in primo grado per concussione si vede dichiarare in grado d'appello il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, quest'ultimo diversamente qualificato ex artt. 110, 81 cpv. e 319 c.p.

In quella stessa sede la Corte d'Appello dispone la confisca delle somme di denaro sequestrate sui conti di pertinenza dell'imputato ritenendo trattarsi del prezzo del reato di corruzione, somme confiscabili obbligatoriamente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 322-ter e 240, comma 2, n. 1, c.p., anche in caso di pronuncia di estinzione del reato per prescrizione.

Il ricorrente lamenta, per quanto strettamente ci riguarda, che :

  • in relazione al delitto di corruzione era intervenuto decreto di archiviazione del giudice per le indagini preliminari ragion per cui in mancanza di un provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini (art. 414 c.p.p.) per tale reato la corte d'appello non poteva provvedere alla riqualificazione in esso del delitto di concussione per il quale era stato condannato in primo grado essendo vigente un effetto preclusivo all'esercizio dell'azione penale;
  • fermo restando la natura quale prezzo del reato della somma pagata a seguito di patto corruttivo alla luce della giurisprudenza della Corte Edu e di alcune decisioni della corte di cassazione in base all'art. 322-ter c.p. non risulta consentita la confisca del profitto o del prezzo del reato fuori dai casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p.
La questione

Le Sezioni unite penali sono state chiamate a decidere su due questioni controverse, strettamente interconnesse tra loro:

  1. se sia possibile disporre la confisca del prezzo del reato nonostante quest'ultimo sia stato dichiarato estinto per prescrizione ovvero in assenza di una pronuncia di condanna o di applicazione concordata della pena;
  2. se in caso di confisca di somme di denaro depositate su conto corrente possa disporsi la confisca per equivalente ovvero solo quella diretta ed, in tale ultimo caso, se debba o meno ricercarsi ed in che limiti il nesso pertinenziale tra denaro e reato.

Nel decidere su tali questioni la Corte ha dovuto incidentalmente affrontare anche una questione preclusiva, e cioè se l'intervenuta archiviazione per corruzione di cui l'imputato aveva beneficiato era ostativa o meno alla pronuncia in sede d'appello allorché il giudice, diversamente qualificando l'ipotesi di concussione, aveva dichiarato il non luogo a procedure per intervenuta prescrizione in relazione al delitto di corruzione ritenendo che atteso l'esercizio dell'azione penale per il delitto di concussione – diverso da quello di corruzione per cui il procedimento era stato archiviato – non v'era bisogno del decreto di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p.

Confisca e prescrizione : profili generali. Come ampiamente premesso dalla sentenza in commento, il tema della confisca “senza condanna” affonda le sue radici storiche nella circostanza che al nomen di tale misura di sicurezza patrimoniale non corrisponde una figura unitaria quanto piuttosto un caleidoscopio di istituti, ciascuno dei quali iscritto in un differenziato regime fortemente condizionato dalla specifica natura della res da assoggettare alla misura, al reato cui la cosa pertiene e, da ultimo ma non per certo per ultimo, dagli esiti del processo in cui la confisca viene applicata.

Com'è noto l'art. 210 c.p. sancisce che l'estinzione del reato impedisce l'applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l'esecuzione, principio generale cui l'art. 236, comma 2, c.p. fornisce espressa deroga per la confisca: si applicano alle misure di sicurezza patrimoniali le disposizioni degli articoli ..., e salvo che si tratti di confisca, le disposizioni ....

Proprio nel solco di tali principi le Sezioni unite hanno avuto modo più volte di intervenire nel corso degli anni modulando, con estrema cautela, l'intervento del giudice in tema di confisca del prezzo del reato anche in presenza di una sentenza di estinzione per prescrizione del reato.

Da una lettura restrittiva (Sez. unite n. 5/1993, Carlea), – secondo cui se era vero che l'estinzione del reato non impediva in via generale l'applicazione della misura di sicurezza patrimoniale quest'ultima doveva essere resa possibile dalle norme che regolano specificamente la confisca restando evidente il solco tra le cose intrinsecamente pericolose e le altre per le quali si rischiava di rendere la sanzione meramente punitiva –, lettura restrittiva che stabiliva la non confiscabilità del prezzo del reato in assenza di una sentenza di condanna si è passati ad un cauta apertura (Sez. un., 38834/2008, De Maio) che, partendo dai casi di confisca senza condanna previsti dalle leggi speciali (art. 44, comma 2, d.P.R. 380/2001, art. 301 d.P.R. 43/1973), ha esteso la possibilità del giudice di procedere ad accertamenti riguardo ai beni confiscabili – e non solo a quelli intrinsecamente pericolosi - anche in presenza di una pronuncia di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

Proprio nel solco di tale impostazione, e rimarcando il fatto che tra le sentenze di proscioglimento ve ne sono alcune che pur non potendo applicare la pena prevedono diversi livelli di approfondimento riguardo la sussistenza del fatto e la riconducibilità dello stesso all'imputato, si è invitato l'interprete ad uscire da una visione dottrinaria e didascalica della confisca per commisurarla, invece, al caso concreto facendo leva sull'utilizzo sempre più atecnico dello strumento della confisca da parte del legislatore.

Per nulla casualmente, si è osservato, che l'art. 236 cit. richiama, anche per la confisca, l'art. 205, prima parte e n. 3 del capoverso, secondo cui nelle sentenze di proscioglimento essa va disposta essendo evidente la volontà della legge di sottrarre alla persona il prezzo del reato a prescindere dalla sua punibilità.

Per quanto il percorso interpretativo sia stato accidentato lo stesso ha dovuto necessariamente fare i conti con l'introduzione di tutta una serie di figure di proscioglimento (da ultimo, la dichiarazione di non doversi procedere per tenuità del fatto) che presuppongono un accertamento di merito “pieno” sulla responsabilità dell'imputato.

Del resto, gli espressi “allargamenti” della possibilità di procedere alla confisca del prezzo del reato “anche” nei casi di sentenza ex artt. 444 e ss. c.p.p., – pronuncia quest'ultima che non accerta la responsabilità ma che è equiparata alla condanna –, sembrerebbero confermare che tutte le volte in cui ad una pronuncia di condanna non segua l'irrevocabilità per prescrizione del reato la stessa possa fungere da titolo idoneo ablatorio del prezzo del reato.

Ciò che però i diversi interventi giurisprudenziali, – anche palesemente avversativi dell'indirizzo voluto dalle Sezioni Unite con la sentenza De Maio –, hanno sempre lasciato nel limbo interpretativo sono i presupposti cui ancorare fermamente i concetti di “condanna”, di “pena” e della correlata “confisca” del prezzo del reato in presenza di una causa di estinzione.

Su tali punti sia la Corte Edu (29 settembre 2013, Varvara c. Italia) che la stessa Corte Costituzionale (n. 49/2015) hanno avuto modo di introdurre un novum significativo alla luce del quale rileggere l'intera materia.

La riapertura delle indagini. L'art. 414 c.p.p. stabilisce che in seguito al decreto di archiviazione “emesso a norma degli articoli precedenti il giudice autorizza la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dalle esigenze di nuove investigazioni”.

Prima ancora dell'intervento del giudice è lo stesso pubblico ministero che valuta la necessità delle nuove investigazioni, e solo dopo che reputa tale vaglio indispensabile sottopone la domanda al giudice che può, ovviamente, consentire il riavvio delle indagini, – con relativa nuova iscrizione ex art. 335 c.p.p. –, ovvero negarla.

Costituisce deroga a tale principio generale l'ipotesi in cui l'archiviazione è intervenuta per essere ignoti gli autori del reato (art. 415 c.p.p.) nel qual caso, non essendo declinata la garanzia di legge nei confronti di un soggetto già indagato, si è ritenuto che non occorra il provvedimento del giudice ma può provvedervi autarchicamente lo stesso ufficio del pubblico ministero (Sez. un., n. 13040/2006).

La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che la garanzia dettata dall'art. 414 c.p.p. è a presidio del soggetto indagato che non può essere, in presenza di un'intervenuta archiviazione, sottoposto a nuove indagini senza l'autorizzazione del giudice in relazione ad un medesimo fatto reato.

Vige, pertanto, una preclusione all'esercizio dell'azione penale per lo stesso fatto-reato, soggettivamente ed oggettivamente considerato, da parte del medesimo ufficio del pubblico ministero.

Occorre, in sostanza, valutare se rientra nei poteri del medesimo ufficio del pubblico ministero una volta intervenuta una pronuncia di archiviazione per un fatto-reato cui è stata data una determinata veste giuridica, disconoscere quest'ultima, a mezzo di una diversa qualificazione, ed esercitare nuovamente l'azione penale by-passando l'autorizzazione del giudice per le indagini preliminari.

Le soluzioni giuridiche

Sono stati conclusivamente enunciati i seguenti principi di diritto :

Il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare a norma dell'art. 240, secondo comma, n. 1, cod. pen., la confisca del prezzo del reato ed, a norma dell'art. 322-ter cod. pen., la confisca del prezzo o del profitto del reato sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell'imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato.

Qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito dal denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta: in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca ed il reato.

Il decreto di archiviazione nei confronti di persona nota non preclude l'esercizio dell'azione penale laddove il fatto-reato sia diversamente qualificato dal pubblico ministero non svolgendo esso alcun effetto preclusivo per l'esercizio dell'azione penale.

Osservazioni

La Corte Costituzionale (sent. n. 49/2015) proprio in seguito ad una pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo, – che affermava, in tema di confisca ex art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, la non possibile applicazione della stessa in presenza di una dichiarazione di prescrizione del reato anche nel caso in cui la responsabilità penale fosse stata accertata in tutti i suoi elementi -, pur a fronte di una formale dichiarazione di inammissibilità, ha avuto modo di rappresentare, dapprima, che “il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme perché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione alla CEDU” e, di seguito, che “nel nostro ordinamento, l'accertamento (sulla confisca) ben può essere contenuto in una sentenza di proscioglimento dovuto a prescrizione del reato la quale, pur non avendo condannato l'imputato, abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso l'autore del fatto ovvero il terzo in mala fede acquirente del bene”.

Non v'è, quindi, in linea astratta alcuna incompatibilità tra la pronuncia di prescrizione del reato e l'applicabilità della confisca purché quest'ultima, secondo gli insegnamenti del giudice europeo, non tracimi in una sanzione penale.

La confisca del prezzo del reato dev'essere avulsa da connotazioni di tipo punitivo con la conseguenza che tale qualificazione la rende “libera” dalla stretta attinenza con una pronuncia di condanna irrevocabile.

Una volta accertato tale presupposto qualitativo il giudice deve, comunque, dar luogo ad ulteriori, e più stringenti, valutazioni.

Quest'ultime, con una serrata scansione per gradi, vengo individuate dalle Sezioni Unite nell'esservi stata già, nei precedenti gradi di giudizio, una pronuncia di condanna e , quindi, di conseguenza, un'affermazione sulla sussistenza del reato, sulla responsabilità del soggetto ad esso ed sulla riconducibilità del bene quale prezzo o profitto del reato.

Il paradigma da ultimo illustrato assume peculiari caratteristiche laddove il bene confiscabile si sostanzi nel denaro, bene che per le sue evidenti caratteristiche, costituisce, sopra ogni altro, il bene economico più fungibile.

Tra i diversi orientamenti le Sezioni Unite, ritornando su questioni già decise anche di recente, (Sez. un., n. 10651/2014, Gubert), affrancano il denaro da ogni tedioso discorso sulla qualificazione della confisca dello stesso (diretta o per equivalente) evidenziando come essa sia sempre diretta (e mai per equivalente).

Tutte le volte in cui il profitto o il prezzo del reato si sostanzino in una somma di denaro è evidente che, sin dalla immediatezza, essa si amalgami al patrimonio dell'autore del reato perdendo, da un lato, ogni possibilità di essere separata ed individuata, – ed, invero, essendo anche del tutto inutile farlo –, e, dall'altro, arricchendo (illecitamente) le capacità patrimoniali dello stesso tanto da legittimare la sua confisca diretta, in qualsiasi modo essa sia detenuta ed a prescindere da ogni movimentazione della stessa.

Solo allorquando non è possibile dar luogo alla confisca del denaro in modo diretto subentra la necessità di una confisca per equivalente ricadendo essa su beni di diversa natura e per un importo corrispondente da cui nasce la indispensabilità di una valutazione peritale sugli stessi.

Desta, invece, perplessità l'affermazione dei supremi giudici di legittimità riguardo al fatto che laddove sia intervenuto un decreto di archiviazione per una fattispecie di reato, (art. 319 c.p.), quest'ultima, una volta diversamente qualificata dallo stesso ufficio del pubblico ministero, (art. 317 c.p.), può ben essere oggetto di un “nuovo” esercizio dell'azione penale senza, cioè, la necessità di ottenere dal giudice per le indagini preliminari una riapertura delle indagini, così come espressamente sancito dall'art. 414 c.p.p.

È di tutta evidenza che questo principio apre un enorme varco nel corretto esercizio dell'azione penale, esercizio che laddove impostato in tal modo appare ampiamente lesivo del diritto di difesa dell'imputato, tanto da giungere a conclusioni paradossali come quello del caso di specie, laddove un soggetto indagato per il delitto di corruzione, sebbene vistosi archiviare la propria posizione processuale per quella fattispecie di reato, viene poi prosciolto per prescrizione dal giudice dell'appello proprio per il medesimo delitto.

A differenza di quanto perentoriamente affermato nella premessa circa i limiti cui un procedimento già archiviato nei confronti di un indagato è assoggettato i giudici di legittimità, distonicamente, restringono il provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini unicamente “a “quella” indagine ed a “quella” azione penale senza che l'archiviazione riverberi in alcun modo i propri effetti sulla azione esercitata in relazione a fatti diversamente qualificati”.

“Quella indagine” e “quella azione penale” non sono altro che quel fatto, fatto che a prescindere dalla sua qualificazione giuridica è storicamente lo stesso – (Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare che un fatto-reato qualificato come esercizio delle proprie ragioni con violenza sulle persone venga archiviato per poi essere “nuovamente” indagato dallo stesso ufficio del pubblico ministero come estorsione; oppure, alle lesioni dolose aggravate trasformate in tentato omicidio; etc. etc.).

Il concetto di “medesimo fatto” non può che richiamare, in senso lato, quanto sancito dall'art. 649 c.p.p. il quale stabilisce il divieto di un secondo giudizio in merito ad esso “neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”.

Mentre per un fatto già oggetto di un precedente giudizio vige una preclusione assoluta a sottoporlo ad un nuovo scrutinio processuale per il decreto di archiviazione, attesa la sua natura avulsa dalla qualità di res judicata, il legislatore ha sì concesso la possibilità di nuovi accertamenti ed ulteriori approfondimenti. – quindi, in relazione ad un medesimo fatto, sia pure diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze -, purché la riapertura delle indagine venga autorizzata dal giudice.

L'esercizio dell'azione penale che viola tale garanzia posta a presidio del diritto di difesa dell'imputato costituisce una nullità assoluta insanabile e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento (artt. 178, comma 1, lett. b) e 179 c.p.p.).

Guida all'approfondimento

Francesco Viganò, La Consulta e la tela di Penelope, penalecontemporaneo.it

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