La riqualificazione del reato nel procedimento di oblazione

Naike Petrosino
09 Giugno 2016

Ove la contestazione elevata nei confronti dell'imputato faccia riferimento ad un reato per il quale non è consentita né l'oblazione ordinaria di cui all'art. 162 c.p., né quella speciale di cui all'art. 162-bis c.p., qualora l'imputato ritenga non corretta la relativa qualificazione giuridica del fatto e intenda sollecitare una diversa qualificazione che ammetta il procedimento di oblazione di cui all'art. 141 disp. att. c.p.p., è onere dell'imputato stesso formulare istanza di ammissione all'oblazione.
Massima

Ove la contestazione elevata nei confronti dell'imputato faccia riferimento ad un reato per il quale non è consentita né l'oblazione ordinaria di cui all'art. 162 c.p., né quella speciale di cui all'art. 162-bis c.p., qualora l'imputato ritenga non corretta la relativa qualificazione giuridica del fatto e intenda sollecitare una diversa qualificazione che ammetta il procedimento di oblazione di cui all'art. 141 disp. att. c.p.p., è onere dell'imputato stesso formulare istanza di ammissione all'oblazione in rapporto alla diversa qualificazione che contestualmente solleciti al giudice di definire, con la conseguenza che – in mancanza di tale richiesta – il diritto a fruire della oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio, a norma dell'art. 521, comma 1, c.p.p., ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l'applicazione del beneficio, con la sentenza che definisce il giudizio.

Il caso

Per comprendere il vivace dibattito giurisprudenziale sfociato poi nella sentenza in commento (n. 32351/2014) occorre preliminarmente soffermarsi sul caso specifico che ha generato il contrasto sul tema in esame: un individuo era stato tratto a giudizio per aver realizzato delle opere in totale difformità rispetto al permesso di costruire rilasciato dal Comune. Con sentenza del 9 maggio 2013, il giudice di primo grado a seguito dell'istruttoria dibattimentale, condannava l'imputato alla pena di euro 6.000 euro di ammenda concedendo altresì il beneficio della sospensione condizionale della pena concretamente riqualificando il reato giacché la condotta, originariamente sussumibile ai sensi dell'art. 44 lett. b),d.P.R. 380/2001 (ipotesi sanzionata con l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 5.164 euro a 51.645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l'ordine di sospensione ), era, all'esito del giudizio dibattimentale, ricondotta nella previsione di cui all'art. 44 lett.a)d.P.R. 380/2001 (fattispecie oblabile giacché punita con la sola ammenda fino a 10.329 euro per l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste nel titolo IV del T.U. nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire).

Avverso tale sentenza, l'imputato proponeva ricorso in Cassazione ai sensi dell'artt.3, 24, 111 Cost., adducendo, tra i motivi di ricorso, non solo la violazione del procedimento previsto per l'oblazione ordinaria ma, altresì, la violazione del diritto di difesa in una fase procedimentale per sua natura “contumaciale”.

La terza Sezione penale della suprema Corte, investita del ricorso, constatata l'esistenza del contrasto giurisprudenziale sul tema rimetteva la decisione alle Sezioni unite con ordinanza del 6 maggio 2014.

L'ordinanza della Sezione rimettente, ripercorreva i diversi filoni giurisprudenziali emersi nel tempo, soffermandosi, in particolare, sulla sentenza del 28 febbraio del 2006 n. 7645.

In tale sentenza la Corte aveva radicalmente escluso l'applicabilità dell'art.141, comma 4-bis, disp. att. c.p.p e dunque, la promovibilità di una sorta di oblazione tardiva in assenza di una preventiva richiesta del difensore, ferma restando la possibilità di esercitare tale diritto solo in caso di modifica dell'originaria imputazione da parte del P.M.

Pertanto, secondo tale orientamento, nell'ipotesi di derubricazione operata in sentenza da parte del giudice, l'art. 141, comma 4-bis, disp. att. c.p.p. non poteva trovare attuazione. Soluzione questa non condivisa dal Collegio rimettente che sottolineava l'evidente contrasto con la nota sentenza Drassich c. Italia(Corte Edu sentenza 11 dicembre 2007) nella quale i giudici di Strasburgo, ponendo l'accento sul diritto di difesa dell'imputato affermavano la necessità di porre una cura particolare nel notificare l'"accusa" all'interessato. Poiché l'atto d'accusa, infatti, svolge un ruolo fondamentale nel procedimento penale, l'articolo 6 § 3 lett. a) riconosce all'imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell'accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti.

La Corte Edu ha inoltre chiarito che: In materia penale, una informazione precisa e completa delle accuse a carico di un imputato, e dunque la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe considerare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell'equità del processo […] Se i giudici di merito dispongono, quando tale diritto è loro riconosciuto nel diritto interno, della possibilità di riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l'opportunità di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Ciò implica che essi vengano informati in tempo utile non solo del motivo dell'accusa, cioè dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e sui quali si fonda l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti.

La questione

La questione giuridica ruota, quindi, attorno a due istituti fondanti il sistema processuale: il diritto di difesa dell'imputato (ed il connesso fondamentale principio di correlazione tra accusa e sentenza sublimato ai nell'art. 521 c.p.p.) ed il principio iura novit curia.

In tal senso, può soccorrere una già nota pronuncia della Corte di cassazione n. 22301 dell'8 giugno 2012 ove, il giudice di legittimità ricercando di contemperare le peculiarità del nostro sistema giuridico con i principi europei, ha precisato che: la verifica degli effetti della riqualificazione giuridica dei fatti deve essere compiuta controllando se, in concreto, sia sufficientemente prevedibile per ricorrente che l'accusa inizialmente formulata nei suoi confronti [poteva essere] riqualificata; […] la fondatezza dei mezzi di difesa che il ricorrente avrebbe potuto invocare se avesse avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei suoi confronti; ed ancora quali siano state le ripercussioni della nuova accusa sulla determinazione della pena del ricorrente, ad esempio se la nuova qualifica comporti una modifica in peius del trattamento sanzionatorio. In estrema sintesi, la Corte tiene in debita considerazione la peculiarità della fattispecie concreta, soggetta al vaglio del giudicante, posto che è necessario appurare di volta in volta quale siano state le effettive violazioni del diritto di difesa e dunque la pratica ricaduta della riqualificazione giuridica, dovendo essere comunque assicurata all'imputato la possibilità di interloquire sulle accuse. Secondo la Corte , dunque, può astrattamente profilarsi la violazione del diritto di difesa solo ove l'imputato sia stato colto da un atto “a sopresa”, non potendo dunque profittare di una diversa lettura delle emergenze processuali da lui comunque prevedibili. Ed invero, come ricorda la stessa Corte nella succitata sentenza, ai sensi dell'art. 521 del codice di rito il giudice può in sentenza dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, dovendo però avere cura di trasmettere gli atti al P.M. una volta accertato che il fatto è sostanzialmente diverso rispetto a quello descritto nel relativo capo d'imputazione laddove il fatto diverso consiste nel mutamento meramente materiale della condotta contestata, senza però intaccare gli elementi essenziali della stessa. Viceversa il fatto nuovo, consiste in una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Cass. pen., Sez. un., 13 ottobre 2010, n.36551).

Del resto il giudice di legittimità aveva già avuto modo di chiarire che i principi del giusto processo devono ritenersi rispettati ove l'eventualità di una diversa qualificazione giuridica del fatto sia comunque prospettata al difensore dell'imputato beneficiando in tal modo di tutte le garanzie difensive all'uopo necessarie.

A tal fine, è necessario altresì soffermarsi sul combinato disposto degli artt. 518, comma 2, e 519 c.p.p. che riconoscono la possibilità di procedere direttamente in udienza, previa autorizzazione del presidente, alla contestazione del fatto nuovo, sempreché vi sia il consenso dell'imputato presente e non ne derivi un pregiudizio per la speditezza dei procedimenti. Inoltre, a presidio del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, soccorre l'art. 519 c.p.p. che obbliga il presidente ad informare l'imputato, per tutte le ipotesi disciplinate dal Capo IV del Libro VII, della possibilità di usufruire di un termine a difesa. Infine, come norma di chiusura, l'art. 522 c.p.p. sanziona con la nullità la violazione delle disposizioni di garanzia contenute nel Capo IV.

Le soluzioni giuridiche

Ciò posto può analizzarsi il rapporto tra la diversa qualificazione giuridica del fatto di reato contestato ab origine dal P.M ed il relativo diritto di oblazione.

Per ciò che concerne la disciplina dell'oblazione essa, come è noto, è codificata nell'art. 162 e 162-bisc.p. nonché per gli esclusivi aspetti procedimentali nell'art. 141 disp. att. c.p.p.

Ai sensi dell'art 162 c.p. la domanda di oblazione deve essere presentata prima dell'apertura del dibattimento con la particolarità prevista dall'art 141,comma 4-bis dip. att. c.p.p. in caso di modifica dell'originaria imputazione in altra, per la quale sia ammissibile l'oblazione, nel qual caso il giudice, se accoglie la domanda, deve fissare un termine non superiore a dieci giorni per il pagamento della somma dovuta. Se il pagamento avviene nel termine, il giudice dichiara con sentenza l'estinzione del reato. Tale ultimo comma è stato aggiunto dalla Legge 16 dicembre 1999 n.479 a seguito dell'intervento della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 517 e 516 c.p. nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162-bis del codice penale, relativamente al fatto concorrente e diverso contestato in dibattimento. La Corte, mediante la sentenza 29 dicembre 1995, n.530, ha infatti precisato che: l'istituto dell'oblazione si fonda sia sull'interesse dello Stato di definire con economia di tempo e di spese i procedimenti relativi ai reati di minore importanza, sia sull'interesse del contravventore di evitare l'ulteriore corso del procedimento e la eventuale condanna, con tutte le conseguenze di essa . Effetto tipico di tale forma di definizione anticipata del procedimento è, infatti, la estinzione del reato, per cui appare del tutto evidente come la domanda di ammissione all'oblazione esprima una modalità di esercizio del diritto di difesa. Ciò posto, considerate la natura e la funzione dell'istituto in esame sopra indicate, la preclusione dell'accesso al medesimo – e ai connessi benefici – nel caso in cui il reato suscettibile di estinzione per oblazione costituisca oggetto di contestazione nel corso dell'istruzione dibattimentale, ai sensi dell'art. 517 del codice di procedura penale, risulta indubbiamente lesiva del diritto di difesa, nonché priva di razionale giustificazione. L'avvenuto superamento del limite temporale (apertura del dibattimento) previsto, in linea generale, per la proposizione della domanda di oblazione (e la cui ratio è quella di evitare che l'imputato possa vanificare l'attività processuale a seconda degli esiti del dibattimento) non è, infatti, nel caso in esame, riconducibile a libera scelta dell'imputato, e cioè ad inerzia al medesimo addebitabile, sol che si consideri che la facoltà in discussione non può che sorgere nel momento stesso in cui il reato è oggetto di contestazione. D'altra parte, certamente non sussistono ostacoli di ordine tecnico-sistematico alla ammissione dell'oblazione nel corso del dibattimento (eventualmente anche alla ripresa del medesimo dopo la sospensione connessa al termine per la difesa previsto dall'art. 519 del codice di procedura penale), come è, del resto, dimostrato dal fatto che lo stesso art. 162-bis del codice penale prevede, al quinto comma, che la domanda (già rigettata) può essere riproposta sino all'inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado.

Le argomentazioni sopra svolte in ordine alla violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione ad opera della disciplina preclusiva dell'accesso all'oblazione nell'ipotesi di contestazione nel corso del dibattimento di un reato concorrente, valgono poi, per evidente identità di ratio, anche con riferimento alla parallela ipotesi in cui la nuova contestazione dibattimentale consista, ai sensi dell'art. 516 del codice di procedura penale, nella modifica dell'imputazione originaria per diversità del fatto, a seguito della quale il reato diviene suscettibile di estinzione per oblazione.

Orbene, a seguito di tale intervento, parte della giurisprudenza di legittimità ha esteso l'ambito applicativo dell'art 141, comma 4-bis, disp. att. c.p.p. anche all'ipotesi di mera mutatio della qualificazione giuridica della fattispecie concreta, operata dal giudice dibattimentale. In effetti, un orientamento ormai del tutto minoritario, mutuando dal processo civile l'istituto della sentenza sub condicione, ha delineato un iter procedimentale sui generis che sostanzialmente prevede una vera e propria restituzione nel termine nell'ipotesi di derubricazione del reato con la sentenza di condanna, subordinando l'efficacia della stessa al mancato adempimento nel termine non superiore a dieci giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; sicché, ove il pagamento intervenga entro il termine stabilito, il reato deve essere dichiarato estinto dal giudice dell'esecuzione; altrimenti la condanna diviene efficace ed eseguibile (cfr. Cass. pen. Sez. II, 22 ottobre 2001, n. 40509; Cass. pen., Sez. II, 10 settembre 2002, n. 33420; Cass. pen., Sez. III, 22 ottobre 2001, n. 28682; Cass. pen., Sez. III, 5 maggio 2004, n. 35113; Cass. pen., Sez. II, 20 ottobre 2004, n. 9921).

Soluzione, quest'ultima, parzialmente condivisa da altra giurisprudenza di legittimità che ha sottolineato come, ove l'imputato abbia presentato in termini la relativa istanza subordinandola all'eventuale derubricazione del reato, il giudice ex officio sia tenuto, con la stessa pronuncia di condanna, a rimettere in termini l'imputato, per proporre domanda di oblazione. L'efficacia della condanna è pertanto subordinata al perfezionamento del relativo iter procedimentale che contempla, dopo la presentazione dell'istanza, l'ulteriore verifica da parte dello stesso giudice della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 162-bis, comma 3, c.p., per i casi di c.d. oblazione discrezionale, quindi l'ammissione al beneficio e l'indicazione di un termine non superiore ai dieci giorni per il versamento della somma dovuta (art. 141, comma 4-bis, disp. att. c.p.p.) infine il pagamento da parte dell'interessato. Se il pagamento avviene nel termine stabilito, il reato si estingue e la relativa declaratoria è pronunciata, ad istanza di parte, dal giudice dell'esecuzione, funzionalmente competente ai sensi dell'art. 676 c.p.p.; altrimenti la sentenza di condanna diventa efficace ed eseguibile.

Per ragioni di completezza è opportuno richiamare anche un precedente giurisprudenziale che, interpretando analogicamente l'art 604, comma 7, c.p.p., ha postulato la promovibilità della domanda di oblazione anche nei successivi gradi del giudizio, ancorché non presentata dall'imputato nell'ambito del giudizio di primo grado (Cass. pen.,Sez. III, 26 agosto 1999 n. 10634). Soluzione che non è stata coltivata, in ossequio ai principi devolutivi dell'appello ed in assenza di qualsivoglia vizio del decisum. Tale arresto giurisprudenziale, inoltre, si porrebbe in aperto contrasto con l'art. 593, comma 3, c.p.p che, come è noto, esclude l'appellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena all'ammenda, ampliando indebitamente la cognizione del giudizio.

L'orientamento ermeneutico prevalente, invece, recepito con la sentenza della suprema Corte aSezioni unite del 28 febbraio 2006 n. 7645, onera l'imputato che voglia eventualmente beneficiare del procedimento oblativo a seguito di derubricazione del reato, a presentare previamente istanza seppur il reato non è allo stato oblabile.

Si tratta di un vero e proprio obbligo di attivazione e di collaborazione con l'organo giudicante che incombe in capo al soggetto che tempestivamente deve eccepire la questione relativa la corretta qualificazione giuridica della fattispecie, giacché – come precisa la stessa giurisprudenza di legittimità – ove così non fosse, in presenza di una scorretta qualificazione giuridica del fatto, emergente già dall'atto di rinvio a giudizio e tale da precludere all'imputato formalmente l'accesso all'oblazione, costui finirebbe paradossalmente per fruire di un singolare meccanismo di restituzione nel termine, che gli consentirebbe di beneficiare di tutto il dibattimento e regolarsi, all'esito delle sue risultanze, se domandare l'oblazione previa derubricazione del fatto.”

La citata ultima pronuncia della suprema Corte a Sezioni unite ribadendo i principi affermati con la sentenza Autolitano dianzi descritta (Cass. pen. n. 7645/2006) e ripercorrendo l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale nonché focalizzandosi sul modello processuale adottato dal codice del 1988 ha chiarito, in primo luogo, che il modello processuale adottato dal codice del 1988 è rappresentato proprio dalla relativa fluidità dell' imputazione, in stretta dipendenza con il radicale mutamento del rapporto tra fase dibattimentale e la fase delle indagini. Pertanto, se la fase delle indagini preliminari è prodromica all'esercizio dell'azione penale, è del tutto fisiologica la possibilità di una emendatio e mutatio libelli nella fase dibattimentale deputata, per sua natura, alla formazione della prova ed all'approfondimento della vicenda storica concreta. In secondo luogo, nessuna violazione del diritto di difesa subisce l'imputato nell'ipotesi di mera derubricazione della fattispecie concreta, posto che il mutamento non coinvolge il fatto oggetto del giudizio, ma, semplicemente, la sua qualificazione giuridica, tema di diritto sul quale le parti sono chiamate a misurarsi nell'ambito e nel quadro di una prospettiva eminentemente dialettica. In terzo luogo il sistema giuridico, così come modificato dal legislatore nel 1987 (legge delega n. 81 del 1987) in ossequio alla direttiva 2/78, ha previsto specifici meccanismi per rispettare puntualmente il principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza e, lo stesso intervento della Corte costituzionale con sentenza 29 dicembre 1995 n.530, è stato decisivo per colmare il vuoto di tutela, ove, nel corso del dibattimento, il Pubblico Ministero abbia proceduto ad una vera e propria mutatio del fatto storico. Inoltre per aversi un effettiva violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, secondo la Corte bisogna valorizzare allo stato un atteggiamento sostanzialistico, sicché l'indagine volta ad accertare la violazione del principio: non va esaurita nel pedissequo e mero confronto letterale fra la contestazione e la sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione.

Da ultimo la Corte di Cassazione tiene inoltre a valorizzare il distinguo rispetto alla pronuncia della Corte Edu (sentenza 11/12/2007, Drassich c. Italia) giacché: la riqualificazione dei fatti non poteva dirsi sufficientemente prevedibile, e poiché la modifica dell'accusa aveva influenzato la determinazione della pena pronunciata nei confronti del ricorrente, la cui eccezione di prescrizione era stata rigettata proprio in ragione della nuova e più severa qualificazione giuridica dei fatti, doveva reputarsi sussistente una violazione del diritto del ricorrente ad essere informato in maniera dettagliata della natura e dei motivi dell'accusa formulata nei suoi confronti.” Nel caso oggetto di scrutino da parte della Corte non poteva ravvisarsi alcun aggravamento del quadro d'accusa, né alcuna lesione del diritto di difesa, posto che l'imputato avrebbe potuto sollecitare una diversa qualificazione giuridica del fatto ed accedere conseguentemente al procedimento oblativo previa derubricazione del reato da parte del giudice.

Osservazione

Le Sezioni unite della suprema Corte, quindi, con la recente sentenza 22 luglio 2014, n. 32351 hanno ribadito i principi affermati con citata sentenza Autolitano del 2006 e, con un approccio chiaramente sostanzialistico, valorizzando il principio di fluidità dell'imputazione alla luce del nuovo modello processuale accolto dal Legislatore, hanno ridimensionato la rigidità del previgente orientamento, privilegiando un'analisi concreta della singola vicenda processuale. In effetti , secondo il giudice di legittimità, per aversi un'effettiva violazione del diritto di difesa è necessario valutare di volta in volta la concreta possibilità delle parti di interloquire sul tema e l'effettiva ricaduta della presunta violazione sulla situazione giuridica dell'imputato.

Secondo la Corte: Alla difesa come diritto, infatti, deve necessariamente riconnettersi anche, proprio sul versante dell'indispensabile contraddittorio fra le parti ed ai fini dei petita da rivolgere al giudice uno specifico onere di interlocuzione su tutti i punti che costituiscono oggetto della devoluzione; e ciò al fine di scongiurare l'insorgere di effetti preclusivi che il sistema è fisiologicamente chiamato a predisporre a salvaguardia dello stesso ordo iudiciorum. Esiste sinteticamente una sorta di collaborazione tra l'imputato ed il giudice, in ordine al fatto contestato, per cui, ove il primo non solleciti l'esatta qualificazione giuridica della fattispecie e avanzi previamente l'istanza di ammissione all'oblazione, non può successivamente dolersi del mancato accesso agli aspetti premiali connessi al procedimento ove il giudice ritenga ex officio di derubricare la vicenda concreta.

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