Decreto penale e particolare tenuità del fatto: un nuovo caso di abnormità strutturale a tutela del contraddittorio

10 Maggio 2017

Il giudice per le indagini preliminari a cui sia stata richiesta l'emissione di un decreto penale di condanna può rigettare la richiesta e restituire gli atti al pubblico ministero se ritiene che l'imputato possa beneficiare della non punibilità per la particolare tenuità del fatto commesso?
Massima

È affetto da abnormità strutturale per carenza di potere in concreto il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, investito dalla richiesta di emissione del decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero ritenendo sussiste la speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., in quanto l'applicazione di tale istituto può avvenire esclusivamente dopo l'instaurazione del contraddittorio.

Il caso

Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Napoli respingeva la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, restituendo gli atti al Pubblico Ministero, in quanto sosteneva che la condotta in contestazione avrebbe potuto rientrare, alla luce dei criteri fissati dall'art. 131-bis c.p., tra le ipotesi di particolare tenuità del fatto, trattandosi di discussione per questioni di viabilità, in seguito alla quale verosimilmente l'indagato non ha neppure percepito di essere obbligato a fornire le proprie generalità.

Avverso il provvedimento di restituzione degli atti proponeva ricorso per cassazione il pubblico ministero, denunziando l'abnormità della decisione, in quanto il giudice avrebbe introdotto una conclusione del procedimento per decreto del tutto atipica e non prevista dalla legge, determinando una regressione non consentita e senza considerare che l'applicazione dell'art. 131-bis c.p. avrebbe potuto essere richiesta dall'imputato a seguito dell'opposizione al decreto

La questione

La questione in esame è la seguente: il giudice per le indagini preliminari a cui sia stata richiesta l'emissione di un decreto penale di condanna può rigettare la richiesta e restituire gli atti al pubblico ministero se ritiene che l'imputato possa beneficiare della non punibilità per la particolare tenuità del fatto commesso?

Le soluzioni giuridiche

Il tema è inedito in giurisprudenza e la pronuncia in esame si è espressa nel senso di escludere che nei poteri del giudice rientri quello di rigettare la richiesta di emissione del decreto penale di condanna sulla base della ritenuta non punibilità dell'autore del reato ai sensi dell'art. 131-bis c.p.

Per comprendere le ragioni di tale approdo ermeneutico sono opportune alcune premesse più generali sugli istituti sottesi alla vicenda.

La non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) trova fondamento nel principio di proporzionalità che impone di non punire fatti caratterizzati da una offensività talmente limitata da rendere sproporzionata l'applicazione della pena anche nella misura minima prevista dal legislatore (Cass. pen., Sez. unite, 25 febbraio 2016, n. 13681).

Per quanto riguarda la natura dogmatica, l'istituto in esame configura una causa di non punibilità in quanto esclude l'applicazione della pena pur nella sussistenza del reato.

In tal senso depongono numerosi indici: la rubrica della norma, che si esprime in termini di esclusione della punibilità; la collocazione sistematica, in apertura del Capo I del Titolo V, dedicato alla non punibilità per particolare tenuità del fatto; l'art. 651-bis c.p. (anch'esso introdotto dalla novella del 2015) che, nel disciplinare l'efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nei giudizi civili o amministrativi, specifica che la stessa, una volta passata in giudicato, ha efficacia quanto all'accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso.

Del resto, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo da valutarsi ai sensi dell'art. 133 c.p. Si richiede, in sostanza, al giudicante di soppesare tutte le peculiarità della fattispecie concreta e non già la condotta tipizzata astrattamente dal Legislatore, essendo rilevante l'entità dell'offesa intrinseca alla situazione reale e irripetibile costituita da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall'agente, piuttosto che la conformità al tipo legale (Cass. pen., Sez. unite, 25 febbraio 2016, n. 13681, secondo la quale « non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l'applicazione del nuovo istituto »).

Dunque, l'istituto della particolare tenuità del fatto opera su un piano diverso e distinto da quello dell'inoffensività della condotta, che trova il proprio referente normativo nell'art. 49, comma 2, c.p.: mentre nel primo caso il fatto esiste ed è tipico, antigiuridico e colpevole, quindi siamo in presenza di un'offesa che, per quanto tenue, è pur sempre presente, nel secondo caso siamo di fronte ad un fatto atipico perché privo di offensività. Ne consegue che nel primo caso l'imputato verrà assolto perché ritenuto non punibile, mentre nel secondo caso l'assoluzione si baserà sulla formula (ben più liberatoria) secondo cui il fatto non sussiste.

Si può conclusivamente ritenere che il principio della necessaria offensività del reato – sancito a livello costituzionale e trasfuso nella disciplina del reato impossibile – e la non punibilità per particolare tenuità del fatto si integrano e completano a vicenda perché il primo garantisce contro l'incriminazione di fatti materiali non offensivi, mentre la seconda contro la punibilità di fatto tipici (e quindi offensivi) connotati, però, da una offensività molto esigua, che il legislatore, per ragioni di opportunità, ha ritenuto di non punire.

Le brevi considerazioni riportate dovrebbero già indurre a ritenere che il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di un decreto penale di condanna, non sia abilitato ad effettuare una stima in ordine alla non punibilità dell'imputato ai sensi dell'art. 131-bis c.p.

Come noto, il procedimento monitorio disciplinato dagli artt. 459 ss. c.p.p. prevede che il pubblico ministero che ritenga di applicare la sola pena pecuniaria – anche in sostituzione di quella detentiva – possa richiedere al giudice per le indagini preliminari l'emissione di un decreto penale di condanna, indicandogli la pena che intende applicare.

Per quel che qui interessa, occorre rilevare che il giudice, investito della suddetta richiesta, è tenuto innanzitutto a verificare l'esistenza di eventuali cause di proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p., ossia se dagli atti trasmessi del magistrato inquirente emergano elementi idonei a fornire la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato o che il reato è estinto o manca la querela quando richiesta.

Se tale verifica sortisce esito negativo, il giudice passa al vaglio dell'ammissibilità e fondatezza della richiesta, controllando perciò che vi siano i requisiti per poter procedere attraverso il particolare rito monitorio e che la richiesta del pubblico ministero sia, nel merito, fondata: se ritiene di dare risposta affermativa, emette il decreto penale di condanna, altrimenti restituisce gli atti al pubblico ministero (art. 459, comma 3, c.p.).

Al giudice investito della richiesta è, dunque, demandato un controllo pieno, nel rito e nel merito, sulla richiesta del pubblico ministero, dato che nessun elemento letterale della disciplina di riferimento lascia intendere che vi siano preclusioni di sorta (cfr. Corte cost., 12 ottobre 1990, n. 447).

Si è ritenuto così che il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dal pubblico ministero (cfr. Corte cost., 13 febbraio 1995, n. 39; Cass. pen., Sez. V, 15 marzo 1999, n. 1187), la correttezza della qualificazione giuridica del fatto (cfr. Cass. pen., Sez. V, 15 dicembre 2011, n. 2982, la quale ha specificato che nel caso di rigetto della richiesta legata alla ritenuta erroneità della qualificazione giuridica del fatto il giudice sia tenuto a restituire gli atti al Pubblico Ministero senza poter pronunciare il proscioglimento per il diverso reato ritenuto rispetto a quello contestato) e ogni altra risultanza processuale (Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 18 settembre 2014, n. 45683), come, ad esempio, la ritenuta inidoneità dell'elezione di domicilio ai fini della notifica del richiesto decreto (Cfr. Cass. pen., Sez. I, 26 febbraio 2009, n. 13592).

Secondo un orientamento costante, l'unica preclusione che incontra il giudice investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna consiste nell'impossibilità di sindacare l'opportunità della scelta del rito monitorio. Il provvedimento di rigetto fondato su valutazioni di mera opportunità viene considerato abnorme e dunque impugnabile con ricorso per cassazione (Cfr. Cass. pen., Sez. III, 25 novembre 2009, n. 8288; Cass. pen., Sez. III, 27 giugno 2013, n. 36213; Cass. pen., Sez. II, 18 settembre 2014, n. 45683; Cass. pen., Sez. I, dicembre 2015, n. 6663).

Come noto, l'abnormità è una categoria di creazione dottrinale e giurisprudenziale con la quale si indica, non già un vizio dell'atto in sé da cui scaturiscono determinate patologie sul piano processuale, quanto piuttosto uno sviamento della funzione giurisdizionale, la quale non risponde più al modello previsto dalla legge ma si colloca al di là del perimetro entro il quale è riconosciuta dall'ordinamento.

L'attuale ordinamento, nonostante l'elaborazione giurisprudenziale avesse già portato all'attenzione la categoria dell'abnormità degli atti sotto la vigenza del sistema processuale previgente, non disciplina l'espressa impugnabilità dei provvedimenti abnormi, proprio in ragione del fatto che il sistema delle impugnazioni è improntato ad un principio di tassatività che mal si concilierebbe con la categoria in esame, difficilmente inquadrabile in modelli prestabiliti (Cass. pen., Sez. unite, 26 marzo 2009, n. 25957).

Le Sezioni unite hanno avuto modo di precisare che la categoria unitaria dell'abnormità può essere suddivisa in due sottocategorie: la c.d. abnormità strutturale, che si configura allorché il provvedimento risulta avulso dall'intero ordinamento processuale a causa della singolarità e stranezza del suo contenuto, e la c.d. abnormità funzionale, che fa riferimento al provvedimento che, pur essendo previsto in astratto quale manifestazione di legittimo potere, si esplica al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite (Cass. pen., Sez. unite, 25 febbraio 2004, n. 19289).

Mentre nel primo caso si verifica una carenza di potere in astratto cosicché il provvedimento eventualmente emanato risulta essere del tutto scardinato dal sistema processuale, nel secondo caso siamo di fronte a una carenza di potere in concreto, nel senso che il potere è astrattamente consentito ma in una situazione processuale completamente diversa da quella in concreta realizzatasi.

La sentenza in commento, nell'escludere che il giudice possa rigettare la richiesta di emissione del decreto penale ritenendo applicazione all'imputato la clausola di cui all'art. 131-bis c.p., non fa altro che applicare il costante insegnamento giurisprudenziale che preclude al giudicante valutazioni di mera opportunità nel rito monitorio, riconducendo la decisione restitutoria nell'alveo dell'abnormità funzionale, trattandosi di un provvedimento adottato nell'esercizio di un potere di cui il giudicante è in concreto (ossia per quella specifica evenienza) sprovvisto.

Non vi sono infatti dubbi che l'applicazione della clausola di esonero da responsabilità in esame investe ragioni di politica criminale, in base alle quali si ritiene che un fatto, nonostante sia pienamente rispondente al tipo legale e quindi sanzionabile, non debba essere punito in forza di valutazioni discrezionali operate sulla base degli elementi emergenti in sede di istruttoria.

La decisione di applicare la causa di non punibilità, quindi, è legata a valutazioni di opportunità della pena, nel senso che il giudice è chiamato a valutare se per la particolare morfologia del fatto concreto, così come è stato realizzato dall'agente, l'applicazione del minimo edittale della pena appare sproporzionata per eccesso e pertanto non conforme al fondamentale principio della rieducazione del condannato (art. 27 Cost.), non potendo, una pena percepita come troppo gravosa, svolgere la funzione che le è propria per espressa previsione costituzionale.

Se queste sono le considerazioni che devono muovere il giudice nella valutazione dei fatti, è innegabile che esse coinvolgono il piano dell'opportunità della punizione.

Per questi motivi può essere condivisa la decisione adottata dal Supremo Collegio con la sentenza in commento, in base alla quale il provvedimento con il quale il giudice rigetta la richiesta di emissione del decreto penale di condanna restituendo gli atti al Pubblico Ministero ai sensi dell'art. 459, comma 3, c.p.p., sulla base della ritenuta applicabilità dell'istituto della particolare tenuità del fatto, è da ritenersi abnorme.

Osservazioni

Il fatto che al giudice investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna siano precluse valutazioni di mera opportunità appare logico e condivisibile sotto due punti di vista.

Il primo, di carattere generale, vale per tutti i casi in cui il giudice compia valutazioni legate all'opportunità di non emettere il decreto e trova fondamento nella ripartizione dei poteri e delle funzioni nell'ambito del potere giudiziario.

La Carta costituzionale prevede che il pubblico ministero sia il solo organo deputato all'esercizio della azione penale, specificando come egli abbia un vero e proprio obbligo di esercizio di tale potere, sottratto alla sua mera discrezionalità (art. 112 Cost.). Tale attribuzione di potere viene ribadita anche a livello di legge ordinaria (art. 50 c.p.p.) ed è volta a mantenere separate le funzioni giurisdizionali di esercitare l'iniziativa penale, rimessa appunto alla pubblica accusa, e di giudicare sulla fondatezza o meno della stessa, demandata alla magistratura giudicante.

È evidente così come al giudice, in sede di emissione di decreto penale di condanna, non possa influire sulla libera scelta del pubblico ministero di formulare l'imputazione, funzione demandatagli dalla stessa Carta costituzionale e sottratta alla sua disponibilità.

Parimenti, spetta al pubblico ministero la scelta del rito e delle modalità di introduzione del giudizio secondo gli schemi previsti dal legislatore, ovvero il giudizio dibattimentale oppure uno dei riti speciali previsti dal codice di rito.

Da un secondo punto di vista, che si radica, invece, sulle caratteristiche peculiari dell'istituto della particolare tenuità del fatto, occorre osservare che il proscioglimento ai sensi dell'art. 131-bis c.p. non è completamente liberatorio per le ragioni sopra esplicate e in particolare perché presuppone l'integrazione di un fatto di reato completo di tutti gli elementi costitutivi (condotta, antigiuridicità oggettiva, colpevolezza) e un giudizio sull'opportunità di non punirne l'autore.

Quanto sopra osservato trova conferma nel fatto che la sentenza di proscioglimento ex art. 131-bis c.p. va iscritta nel casellario giudiziale (artt. 3 e 4 d.lgs. 28/2005) e ha valore di giudicato nei procedimenti civili e amministrativi quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e della sua attribuzione all'autore (art. 651-bis c.p.p.).

Del resto, il proscioglimento ex art. 131-bis c.p. è ritenuto un esito meno favorevole per l'imputato anche rispetto alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, in quanto la prima pronuncia « lascia del tutto intatto il reato nella sua esistenza sia storica che giuridica » (Cass. pen., Sez. VI, 27 gennaio 2016, n. 11040).

È evidente quindi che l'imputato ha tutto il diritto di interloquire sull'applicazione della causa di non punibilità e di fornire, secondo quanto previsto dal codice di rito, la prova che permetta al giudice di emettere una pronuncia più liberatoria rispetto a quella ex art. 131-bis c.p.

Se così stanno le cose, è plausibile ritenere che, nel caso di procedimento per decreto, spetti all'imputato il diritto di aprire il dibattimento attraverso l'opposizione ai sensi dell'art. 460 c.p.p. e, in quella sede, nel pieno rispetto del contraddittorio con l'accusa, fornire le prove di cui è a disposizione per ottenere una pronuncia a sé favorevole chiedendo altresì l'applicazione dell'istituto della particolare tenuità del fatto.

Tale linea interpretativa è confermata anche da un'ulteriore osservazione: persino in sede di archiviazione il Pubblico Ministero, qualora ritenesse sussistente la causa di non punibilità di cui trattasi, deve integrare il contraddittorio nei confronti dell'indagato, il quale può, nel termine di 10 giorni, presentare opposizione allegando le ragioni del proprio dissenso (art. 411, comma 1-bis c.p.p.)

In conclusione, pare possa ragionevolmente concludersi che il rito monitorio, che si caratterizza per essere a contraddittorio eventuale, differito ed azionabile su richiesta dell'autore dell'illecito mediante lo strumento dell'opposizione, mal si concilia con l'istituto della particolare tenuità del fatto che, la contrario, richiede per la propria applicazione l'esplicarsi di un contraddittorio tra l'accusa e la difesa che può trovare sede sia nel dibattimento instauratosi nelle forme ordinarie sia in quello che promana da un atto di autonomia dell'imputato, come nel caso dell'opposizione al decreto penale di condanna.

Guida all'approfondimento

TRINCI, Particolare tenuità del fatto, Milano, 2016.

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