Sopravvenuta illegalità della pena inflitta: per le Sezioni unite è rilevabile d’ufficio anche se il ricorso è inammissibile

10 Dicembre 2015

La Cassazione, nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e con il quale vengano proposti motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, può rilevare d'ufficio, con conseguente annullamento sul punto, che la sentenza impugnata era stata pronunciata prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all'imputato.
Massima

La Corte di cassazione, nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e con il quale vengano proposti motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, può rilevare d'ufficio, con conseguente annullamento sul punto, che la sentenza impugnata era stata pronunciata prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all'imputato; ciò anche nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale sopravvenuta alla cui luce il giudice di rinvio dovrà riesaminare tale questione.

Il caso

A seguito di giudizio abbreviato, l'imputato era stato riconosciuto colpevole di più reati di cessione di cocaina e di detenzione, a fine di cessione, della medesima sostanza stupefacente; reati commessi nel mese di aprile dell'anno 2002. Qualificati i fatti ai sensi dell'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, la Corte di appello di Bari, con sentenza dell'8 marzo 2011, l'aveva definitivamente condannato alla pena di due anni e otto mesi di reclusione e 2.400,00 euro di multa.

Con sentenza del 6 novembre 2012 la Corte di cassazione aveva annullato la condanna limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della medesima Corte di appello che, con successiva pronuncia del 7 ottobre 2013, aveva rideterminato la pena nella misura di due anni di reclusione e 200,00 euro di multa. L'imputato aveva impugnato anche questa sentenza con ricorso (del 10 dicembre 2013) che, secondo la terza Sezione penale della suprema Corte (ordinanza del 17 marzo 2015), non superava il vaglio di ammissibilità per nessuno dei motivi proposti, con conseguente (ipotetica) irrevocabilità della condanna alla data della sentenza impugnata (7 ottobre 2013).

La questione

La questione riguarda l'ambito di applicabilità degli art. 2, comma 4, c.p. e art.609, comma 2, c.p.p. Essa nasce dal fatto che, secondo la costante giurisprudenza della suprema Corte, il ricorso inammissibile impedisce la formazione di un valido rapporto processuale di impugnazione con conseguente irrevocabilità della sentenza impugnata sin dalla data della sua pubblicazione (Cass. pen., Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32; cfr. anche Cass. pen., Sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428 secondo cui l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione, pur maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma non dedotta né rilevata da quel giudice; nonché Cass. pen., Sez. un., 27 giugno 2001, n. 33542, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione proposto unicamente per far valere la prescrizione maturata dopo la decisione impugnata e prima della sua presentazione, privo di qualsiasi doglianza relativa alla medesima, in quanto viola il criterio della specificità dei motivi enunciato nell'art. 581, lett. c) c.p.p. ed esula dai casi in relazione ai quali può essere proposto a norma dell'art. 606 c.p.p.).

La pronuncia della sentenza irrevocabile paralizza, per effetto dell'art. 2, comma 4, c.p., la retroattività della legge penale ad essa successiva più favorevole al reo. Pertanto, in caso di ricorso inammissibile, la legge più favorevole intervenuta in un momento successivo alla sentenza impugnata non potrebbe essere applicata nemmeno in caso di pendenza di ricorso per Cassazione (ove inammissibile). Tale principio è stato espressamente affermato da Cass. pen. Sez. III, 30 aprile 2014, n. 27066, secondo cui in tema di stupefacenti, per i reati commessi prima della data di entrata in vigore dell'art. 2 d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10 – che ha trasformato il fatto di lieve entità di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, da circostanza attenuante in ipotesi autonoma di reato – la pena inflitta utilizzando i parametri edittali antecedenti alla novella legislativa non è illegale quando rientri dei parametri edittali vigenti. Proprio in tema di sostanze stupefacenti, però, si è registrato un indirizzo giurisprudenziale (inaugurato da Cass. pen., Sez. IV, 13 marzo 2014, n. 27600), secondo il quale nel giudizio di Cassazione è rilevabile di ufficio, anche in caso di inammissibilità del ricorso, l'illegalità sopravvenuta della pena inflitta, determinata da una modifica normativa incidente in maniera rilevante sui limiti sanzionatori edittali sia minimi sia massimi (nello stesso senso, anche Cass. pen., Sez.IV, 28 maggio 2014, n. 28164; Cass. pen., Sez. IV, 16 luglio 2014, n. 38137; Cass. pen., Sez. IV, 1 luglio 2014 n. 3427; Cass. pen., Sez. IV, 2 luglio 2014, n. 41820; Cass. pen., Sez. IV, 21 ottobre 2014 n. 47020; Cass. pen., Sez. IV, 16 ottobre 2014, n. 46395; Cass. pen., Sez. IV, 21 novembre 2014, n. 49531; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2014, n. 44131; in senso contrario la citata Cass. pen., Sez. II, n. 27066/2014).

Nel caso di specie dopo la sentenza della Corte di appello del 7 ottobre 2013 (e prima ancora della presentazione del ricorso) erano intervenute ben due leggi, l'ultima delle quali certamente più favorevole all'imputato.

È necessario, a questo punto, fare un breve riepilogo delle vicende, non solo legislative, che hanno interessato la materia degli stupefacenti.

L'art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, inizialmente distingueva, a fini sanzionatori, le droghe c.d. “pesanti” (di cui alle tabelle I e III previste dall'art. 14,d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) da quelle c.d. “leggere” (di cui alle tabelle II e IV), comminando per le condotte che avevano ad oggetto le prime (comma 1) pene (da 8 a 20 anni di reclusione e la multa da € 25.822,00 a € 258.228,00) ben più pesanti di quelle relative alle condotte che avevano ad oggetto le seconde (comma 4, che prevedeva la pena della reclusione da 2 a 6 anni e la multa da € 5.164,00 ad € 77.468,00).

Il comma 5 dell'art. 73d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, contemplava la circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, che comportava una sostanziosa riduzione della pena diversificata a sua volta a seconda che si trattasse di droghe “pesanti” (da 1 a 6 anni di reclusione e la multa da € 2.582,00 ad € 25.822,00) o “leggere” (da 6 mesi a 4 anni di reclusione e la multa da € 1.032,00 ad € 10.329,00).

In sede di conversione del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, la legge 21 febbraio 2006, n. 49 ha profondamente mutato il quadro eliminando, a fini sanzionatori, ogni distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”, unificando di conseguenza il regime punitivo delle relative condotte indifferentemente sanzionate, al comma 1 (modificato dall'art. 4-bis, comma 1, lett. hd.l. 30 dicembre 2005, n. 272) e al (nuovo) comma 1-bis (inserito dall'art. 4-bis, comma 1, lett. cd.l. 30 dicembre 2005, n. 272), con la pena detentiva da 6 anni a 20 anni di reclusione e con la multa da € 26.000,00 ad € 260.000,00, prevedendo al quinto comma (modificato dall'art. 4-bis, comma 1, lett. fd.l. 30 dicembre 2005, n. 272) un'unica attenuazione che, in caso di lieve entità, spaziava da 1 anno a 6 anni di reclusione e da € 3.000,00 ad € 26.000,00 di multa, anche in caso di c.d. droghe “leggere”.

Con d.l. 23 dicembre 2013 n. 146 (art. 2, comma 1, lett. ad.l. 23 dicembre 2013 n. 146), convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, il legislatore ha modificato il (solo) comma 5 dell'art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990, trasformandolo in reato autonomo punito con la pena della reclusione da 1 anno a 5 anni e con la multa da € 3.000,00 a € 26.000,00.

La Corte costituzionale, con sentenza del 12-25 febbraio 2014, n. 32 (pubblicata nella G.U. del 5 marzo 2014, n. 11), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'intero art. 4-bis, d.l. n. 272 del 2005 (e, conseguentemente, delle modifiche con esso apportate all'art. 73, d.P.R. 309 del 1990). La sentenza della Consulta, dunque, ha comportato la reviviscenza del regime sanzionatorio precedente, come se le modifiche (introdotte, appunto, con la legge dichiarata incostituzionale) non fossero mai state apportate. La Corte costituzionale ha però fatto salvo il “nuovo” comma 5 dell'art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dal citato d.l. 146 del 2013.

Successivamente, con legge 16 maggio 2014, n. 79, di conversione del d.l. 20 marzo 2014, n. 36, il regime sanzionatorio dell'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, è stato nuovamente modificato ulteriormente con la previsione della minor pena detentiva da 6 mesi a 4 anni di reclusione e della minor pena pecuniaria della multa da € 1.032,00 ad € 10.329,00. E' rimasta invariata la natura di reato autonomo delle condotte in esso previste.

Riepilogando: a) l'imputato aveva posto in essere la condotta di cessione e detenzione a fine di cessione di cocaina nel mese di aprile 2012; b) il reato è stato definitivamente qualificato ai sensi dell'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990; c) la sentenza impugnata è del 7 ottobre 2013; d) la Corte di appello aveva conseguentemente applicato il regime detentivo previsto dall'allora vigente art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dall'art. 4-bis, comma 1, lett. f), legge n. 42 del 2006.

Nelle more del ricorso si sono succeduti, in ordine temporale:

  1. la modifica normativa dell'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 (d.l. n. 146 del 2013);
  2. la dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 4-bis, legge n. 42 del 2006;
  3. l'ulteriore modifica dell'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 ad opera della legge n. 36 del 2014.

La dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 4-bis, l. 42 del 2006 comporta che si debba aver riguardo al regime sanzionatorio ad esso precedente che, per le droghe “pesanti” e in caso di lieve entità del fatto, prevedeva una pena detentiva (da 1 a 6 anni di reclusione) identica a quella dichiarata incostituzionale ma superiore a quella prevista in conseguenza delle modifiche apportate con leggi successive alla sentenza della Corte di appello (il d.l. 146 del 2013 che, per i fatti di lieve entità, prevedeva la pena detentiva da 1 a 5 anni di reclusione e, più recentemente, la l. 79 del 2014 che ha ulteriormente e sensibilmente attenuato il regime sanzionatorio).

Ne deriva che, in applicazione dell'art. 2, comma 4, c.p., secondo l'indirizzo interpretativo minoritario la sentenza della Corte di appello avrebbe dovuto essere impermeabile alle modifiche normative successive ad essa, perché l'inammissibilità del ricorso la rendeva irrevocabile dalla data della sua pubblicazione (7 ottobre 2013); non così secondo l'indirizzo maggioritario (pur formatosi su casi non omogenei).

Di qui il quesito posto alle Sezioni unite che l'hanno risolto nei termini indicati dalla massima.

Le soluzioni giuridiche

La Sezioni unite ricordano che la costituzionalizzazione del principio di necessaria legalità della pena (nulla poena sine lege), ribadito anche dalle fonti sovranazionali (art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881), impedisce, in termini assoluti, che al reo possa essere applicata una pena illegale, tradizionalmente ritenuta quella applicata in base a norma dichiarata incostituzionale oppure oltre i limiti edittali minimi e massimi previsti dalle legge.

Illegale però (ed è questo il punto centrale della decisione) è anche la pena non più proporzionata al nuovo giudizio di minor gravità espresso con la più favorevole legge penale successiva al fatto. È opportuno riportare il passaggio della motivazione che spiega il concetto: l'illegalità della pena dovrà essere esclusa quando, pur in esito all'esame della modifica normativa più favorevole, ci si trovi in presenza di una pena che, rimanendo nei margini edittali sopravvenuti, sia stata irrogata con riferimento alla gravità di un fatto criminoso il cui disvalore sociale non sia mutato significativamente; di una pena inflitta entro limiti ragionevolmente commisurati, in astratto, anche alla diversa gravità del fatto come previsto dalla nuova normativa; di una pena che sia stata determinata in concreto con riferimento ad una gravità nonna significativamente diversa rispetto quella del successivo e più favorevole trattamento e chiaramente commisurata ai criteri indicati dall'articolo 133 codice penale. In presenza di tutte queste condizioni ci troviamo in presenza di una pena che potrebbe essere ritenuta ingiusta ma non illegale perché, in ipotesi, potrebbe essere legittimamente inflitta, con un'adeguata motivazione giustificatrice che tenga conto dell'innovazione normativa, anche in base alla nuova e più favorevole disciplina sanzionatoria (in tal caso la pena originariamente inflitta nemmeno potrebbe essere ritenuta ingiusta). Illegale deve invece essere ritenuta la pena che, pur rimanendo nei margini edittali di tale più favorevole disciplina, ne stravolga i parametri di riferimento - in particolare il principio di proporzionalità - che sia applicata in modo incompatibile con la disciplina normativa successiva, come quando, per fare un esempio citato nella sentenza, il precedente minimo edittale corrisponda a quello massimo della nuova pena.

L'illegalità in concreto della “vecchia” pena impedisce la formazione del giudicato consentendo a quella più mite, sopravvenuta in costanza di processo effettivamente pendente, di adempiere in modo più aderente alla specificità del singolo caso alla funzione rieducativa, funzione che una sanzione non più proporzionata all'effettiva gravità del reato non sarebbe più in grado di assolvere, con conseguente vulnus del correlato diritto fondamentale della persona di vedersi applicato un trattamento sanzionatorio corrispondente al minor disvalore espresso con la nuova previsione. La necessità di prevenire il rischio della lesione di un diritto fondamentale della persona comporta la valorizzazione del dato sostanziale della effettiva pendenza del ricorso, anche se inammissibile, e lo strumento utilizzabile è individuato dalla Corte nell'art. 609, comma 2, c.p.p., che consente al giudice di legittimità di decidere le questioni rilevabili d'ufficio, a prescindere dalla loro devoluzione e dalle ragioni per cui non siano state dedotte.

Osservazioni

La sentenza in commento sancisce la validità del già citato indirizzo ermeneutico assolutamente dominante secondo il quale l'inammissibilità del ricorso per Cassazione non impedisce di rilevare d'ufficio l'illegalità sopravvenuta della pena inflitta, determinata da una modifica normativa incidente in maniera rilevante sui limiti sanzionatori edittali sia minimi sia massimi.

Il principio di retroattività della norma penale più favorevoleè legato ad una concezione oggettivistica del diritto penale, che emerge dal complessivo tessuto dei precetti costituzionali: a fronte di essa, la sanzione criminale rappresenta non già la risposta alla mera disobbedienza o infedeltà alla legge, in quanto sintomatica di inclinazioni antisociali del soggetto; quanto piuttosto la reazione alla commissione di fatti offensivi di interessi che il legislatore, interprete della coscienza sociale, reputa oggettivamente meritevoli di essere salvaguardati da determinate forme di aggressione col presidio della pena. Se la valutazione del legislatore in ordine al disvalore del fatto muta – nel senso di ritenere che quel presidio non sia più necessario od opportuno; o che sia sufficiente un presidio meno energico – tale mutamento deve quindi riverberarsi a vantaggio anche di coloro che abbiano posto in essere il fatto in un momento anteriore (Sentenza Corte costituzionale 8 novembre 2006, n. 394). Si tratta di un principio codificato dall'art. 49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e che appartiene alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri dell'Unione europea (Corte di giustizia 3 maggio 2005, Berlusconi ed altri; Corte di giustizia 11 marzo 2208, Jager; Corte di giustizia 28 aprile 2011, El Dridi), ritenuto dalla Corte Edu, sulla scia proprio della giurisprudenza eurounitaria, declinazione non scritta del principio della irretroattività delle leggi penali più severe di cui all'art. 7, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Corte Edu, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola), che nel nostro ordinamento trova fondamento costituzionale non già nell'art. 25 Cost., bensì in quello di uguaglianza di cui all'art. 3, Cost. (Corte cost. n. 394 del 2006) e che pertanto può soffrire deroghe ragionevoli, come l'irrevocabilità della sentenza di condanna.

La pendenza del processo in sede di legittimità rende, però, irragionevole l'applicazione del già citato principio secondo il quale l'inammissibilità del ricorso, impedendo la formazione di un valido rapporto processuale di impugnazione, rende irrevocabile la sentenza impugnata sin dalla data della sua pubblicazione. L'inammissibilità del ricorso, dunque, non impedisce alla Corte di Cassazione di rilevare d'ufficio l'illegalità in concreto della pena.

Le ragioni della decisione, ed i principi che vi sottendono, ne escludono l'applicabilità ai casi in cui il reato si prescrive dopo la sentenza impugnata. In questi casi l'inammissibilità del ricorso non è di ostacolo alla irrevocabilità della sentenza poiché la prescrizione del reato è fenomeno del tutto eterogeneo rispetto alla successione delle leggi penali nel tempo. Di qui, verosimilmente, il motivo per il quale le già citate sentenze Cass. pen., Sez. un., 22 novembre 2000 e Cass. pen., Sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428, non sono nemmeno menzionate in quella in commento.

Rende più perplessi il fatto che non sia stato in alcun modo affrontato il tema della incidenza, ai fini della irrevocabilità della sentenza impugnata, delle diverse cause di possibile inammissibilità del ricorso, argomento forse non rilevante ai fini del giudizio (o forse dato per scontato) ma che probabilmente meritava un qualche approfondimento alla luce del principio recentemente, quanto perentoriamente, stabilito da Cass. pen., Sez. un., 26 febbraio 2015, n. 33040, che, richiamando la già citata Sez. un, n. 32/2009, ha affermato che nel giudizio di cassazione l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d'ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo. Se ne deve desumere che in tal caso (come anche in ipotesi di ricorso proposto da difensore non abilitato) non sia possibile rilevare (ed applicare) d'ufficio la sopravvenienza di un trattamento sanzionatorio più mite.

Margini di incertezza restano, però, in ordine al criterio sostanziale che secondo la Corte di cassazione legittima la valutazione di illegalità della pena applicata rispetto al sopravvenuto e più favorevole trattamento sanzionatorio: quali i margini di giudizio? Nel caso di specie il “nuovo” minimo edittale era di soli sei mesi inferiore al precedente, il massimo di due anni.

È probabile che nel giudizio della Corte abbia pesato quest'ultimo aspetto ma quid juris nei casi in cui il divario sia di entità minore? La soluzione del quesito resterà affidata alla casistica ma l'obiettività del puro e semplice raffronto tra i diversi regimi sanzionatori era criterio certamente preferibile che avrebbe messo al riparo dalle inevitabili oscillazioni giurisprudenziali e sarebbe stato più coerente con i principi costituzionali e sovranazionali sopra richiamati.

V'è anche da chiedersi, proprio perché è in discussione la latitudine applicativa dell'art. 2, comma 4, c.p., se la pronuncia odierna non metta fondatamente in discussione l'indirizzo formatosi in tema di particolare tenuità del fatto secondo il quale l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare l'esclusione della punibilità, prevista dall'art. 131-bis cod. pen., pur trattandosi di ius superveniens più favorevole al ricorrente (Cass. pen., Sez. feriale, 18 agosto 2015, n. 40152; Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2015, n. 34932). Qui è addirittura in gioco la non punibilità tout court dell'imputato, non un trattamento sanzionatorio di maggior favore, rendendo concreto il rischio di una condanna ad una pena che, in base ad una norma penale sostanziale sopravvenuta alla decisione impugnata e secondo un giudizio di astratta non incompatibilità della fattispecie concreta (come risultante dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali) con i requisiti ed i criteri indicati dal predetto art. 131-bis, c.p., potrebbe apparire inapplicabile e dunque illegale perché non più coerente alla mutata valutazione di rilevanza penale del fatto e alla correlata finalità rieducativa della pena stessa.

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