L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Quali (s)vantaggi?

11 Novembre 2015

Con il decreto delegato n. 28 del 2015 – emanato in ottemperanza alla legge delega n. 67 del 2014, art. 1, comma 1, lett. m) – è stata introdotta nel codice penale la norma di cui all'art. 131-bis c.p., disciplinante una nuova causa di non punibilità operante quando il fatto di reato presenti profili di particolare tenuità. Nell'intento del legislatore, inteso alla rapida determinazione di procedimenti penali instauratisi nei confronti di soggetti accusati di fatti di scarsa gravità, la non punibilità per particolare tenuità del fatto può portare alla definizione della vicenda processuale
Abstract

Con il decreto delegato n. 28 del 2015 – emanato in ottemperanza alla legge delega n. 67 del 2014, art. 1, comma 1, lett. m) – è stata introdotta nel codice penale la norma di cui all'art. 131-bis c.p., disciplinante una nuova causa di non punibilità operante quando il fatto di reato presenti profili di particolare tenuità.

Nell'intento del legislatore, inteso alla rapida determinazione di procedimenti penali instauratisi nei confronti di soggetti accusati di fatti di scarsa gravità, la non punibilità per particolare tenuità del fatto può portare alla definizione della vicenda processuale, tanto in maniera precoce, ancor prima cioè che si arrivi in fase di giudizio, attraverso l'archiviazione del procedimento su richiesta del pubblico ministero, quanto a giudizio avviato, mediante un proscioglimento propter hoc.

Sin dall'immediatezza dell'entrata in vigore del nuovo istituto, ispirata alla finalità deflattiva del carico giudiziario con garanzia di una maggiore speditezza e celerità dei processi penali, non sono stati per nulla sporadici i casi in cui la norma di cui all'art. 131-bis c.p. ha avuto ragion di essere applicata. Eppure alcune riflessioni ed incertezze sono sin da subito affiorate. Attraverso l'analisi della novella legislativa nonché dei riflessi che essa ha sin qui avuto in ambito processuale penale, si è avuto infatti modo tuttavia di evidenziare più di un aspetto della nuova normativa suscettibile di censure. In particolare, i profili critici affrontati in questa sede concernono sia la negata possibilità per il soggetto, nei cui confronti pende un procedimento penale ritenuto di particolare tenuità, di rifiutare e/o rinunciare all'applicazione della nuova causa di non punibilità; sia la circostanza che la sentenza di proscioglimento emessa sia suscettibile di essere inscritta nel casellario giudiziale.

L'irrilevanza del fatto di reato

Più che una ipotesi di inoffensività del fatto il nuovo istituto sembrerebbe potersi inquadrare nella c.d. irrilevanza del fatto proprio in ragione della sua particolare tenuità, ove il fatto costitutivo di reato resta presupposto, in ricorrenza però di una causa di non punibilità.

Secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità prevalenti del resto (si vedano Corte cost. 409/1989; Corte cost. 360/1995; Corte cost. 262/2000; Corte cost. 354/2002; Cass. pen., Sez. VI, 20 marzo 2014, n. 15152; Cass. pen., Sez. VI, 8 aprile 2014, n. 33835; Corte d'appello di Cagliari, 15 luglio 2014, n. 1008) il concetto di inoffensività rimanda alla mancanza di capacità lesiva di un fatto che risulta quindi privo di un elemento costitutivo e dunque insussistente come reato; d'altronde, sono gli stessi principi sottesi agli artt. 25 – 27 Cost. ad affermare che non può concepirsi un reato senza offesa: nullum crimen sine iniuria

L'istituto così originato dalla novella legislativa s'innesta invece nell'ambito di una serie di interventi normativi che mirano alla chiara finalità di deflazione del carico giudiziario con cui il sistema quotidianamente si confronta, attraverso l'agevolazione della fuoriuscita dal sistema valutativo-giudiziario di condotte che, pur giudicate intregranti gli estremi di un fatto tipico di reato, antigiuridico e colpevole (di qui la maggior assonanza al concetto di irrilevanza del fatto piuttosto che di inoffensività del fatto) appaiono non meritevoli di pena.

Ecco spiegata, così, la collocazione della nuova norma nell'ambito delle determinazioni del giudice in ordine alla pena.

L'ambito applicativo della nuova disciplina, finalizzata dunque alla neutralizzazione della logica e prevedibile conseguenza di un fatto costituente reato, è riservato a tutti quei reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria o la pena detentiva non superiore a cinque anni, sia nelle ipotesi che le due tipologie di pena siano congiunte, sia che esse siano previste in modo distinto.

La norma incardina dunque il giudizio di particolare tenuità del fatto su due criteri: la tenuità dell'offesa e la mancanza di abitualità del comportamento dell'offensore.

Lo strumento (s)favorevole per l'imputato

E circa il concetto di abitualità già ci si chiede se un unico precedente giudiziario possa essere ex se ostativo al riconoscimento della particolare tenuità del fatto. Tuttavia l'abitualità di cui alla norma sembrerebbe piuttosto rapportarsi a quella che venga accertata in un giudizio che si trovi in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi.

Quanto al primo dei requisiti esso si articola a sua volta in due sottotipi valutativi, costituiti dalla modalità della condotta e dall'esiguità del danno o del pericolo cui il reato ha assoggettato la persona offesa. Con l'ovvia conseguenza che non potrebbero, ad esempio, mai dirsene ricorrenti i presupposti allorquando l'autore del reato abbia agito per motivi abietti, futili, con crudeltà o sevizie.

La disciplina sostanziale ha poi portato con sé una serie di disposizioni di coordinamento processuale.

Occorre tuttavia prendere atto che il legislatore, con l'istituzione della non punibilità per particolare tenuità dell'offesa, se da un lato ha privilegiato un intento chiaramente deflattivo in ricorrenza di reati di non speciale rilevanza, selezionando una opzione processuale risolutiva del caso dotata di maggior semplicità e celerità, dall'altro ha ideato lo strumento allo scopo non sempre ben conciliando i principi costituzionali che irradiano il diritto penale processuale nella sua globalità.

La ratio e la lettera della norma sembrano disegnare un corso processuale di maggior favore concretato con il concedere all'indagato/imputato una chiusura rapida della vicenda senza sanzione (non è peregrino quindi che il pubblico ministero sia sollecitato dalla stessa difesa all'applicazione dell'istituto o che sia addirittura la difesa medesima a chiederne l'applicazione, trattandosi di un trattamento più favorevole).

Ciò detto però non può negarsi che taluni corollari processuali della nuova disciplina, lungi dall'assicurare una miglior tutela per l'asserito autore del reato, manifestino, in realtà, una compressione dei diritti personali.

La norma di cui al 131-bis c.p. prevede infatti, al ricorrere delle condizioni in essa contenute, un vero e proprio obbligo per il titolare dell'azione penale di chiedere l'archiviazione del procedimento anèlando al corrispondente provvedimento del Gip e, per il giudice, di pronunciare una sentenza di proscioglimento nella successiva fase di giudizio. In questo senso la lettera dell'art. 131-bis non lascia margini di dubbio, posto che in essa si afferma espressamente che la punibilità è esclusa.

Non residua però alcuno strumento in mano all'indagato/imputato allorquando, a scapito di una celere definizione del giudizio, egli desideri pervenire ad un accertamento pieno favorevole della sua estraneità al fatto contestato, affrontando un completo iter processuale al fine di addivenire ad una sentenza di assoluzione piena.

Se difatti, dinanzi alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero l'indagato, come la persona offesa, può manifestare il proprio dissenso in virtù della modifica apportata all'art. 411 c.p.p., è altrettanto evidente che – e qui la lacuna normativa della disciplina della particolare tenuità del fatto - non è prevista possibilità alcuna per l'indagato o imputato di rifiutare il tanto decantato strumento più favorevole.

La nuova causa di non punibilità rimessa, difatti, all'ampio potere discrezionale del giudice, non pare essere rinunciabile da parte dell'indagato/imputato poiché, se da un lato, attraverso la modifica dell'art. 411, comma 1-bis, c.p.p., è stata contemplata la possibilità per le parti (indagato compreso) di formulare opposizione, dall'altro non vi è norma che escluda che il giudice possa comunque optare per la definizione del procedimento nel senso consentito dalla novella; anzi, a ben vedere, ove il giudice ritenga ricorrenti i presupposti di fatto (tenuità appunto e quale che ne sia l'accezione) non pare gli sia lasciata facoltà decisionale (la punibilità è esclusa).

La disciplina, così predisposta, manifesta profili a dir poco problematici, non lontani dall'essere suscettibili di questioni di legittimità costituzionale quantomeno per l'evidente violazione del diritto di difesa di cui agli artt. 2 e 24 Cost. per quell'indagato/imputato che, pur ritenendosi innocente, sarà spogliato del diritto ad un iter in grado di garantirgli la (almeno potenziale) dichiarazione di non colpevolezza relativamente al fatto contestatogli.

Pertanto anche a fronte di un concreto interesse dello stesso indagato/imputato a difendersi e ad ottenere una pronuncia assolutoria, la richiesta del pubblico ministero insieme all'autonoma valutazione del giudice possono condurre ad un proscioglimento per particolare tenuità del fatto, certamente sfavorevole rispetto allo scenario dell'ipotesi difensiva assolutoria.

Provvedimento peraltro che, se definitivo, si iscrive nel certificato del casellario giudiziale e, se pronunciato con sentenza, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile e/o amministrativo.

Ulteriore profilo di criticità della nuova ipotesi di causa di non punibilità è, dunque, la conseguenza derivante dall'introduzione della nuova normativa con la quale il legislatore ha inteso negare all'imputato il beneficio della non menzione di cui all'art. 175 c.p.

Ai sensi del suo art. 4, il recentissimo decreto legislativo, apportando modifiche al Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, ha disposto all'art. 3, comma 1, lett. f) d.P.R. 313/2002, l'iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti giudiziari definitivi che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'articolo 131-bis del codice penale.

Sia in caso di archiviazione, dunque, sia di proscioglimento, pur non equivalendosi ad una assoluzione, l'indagato/imputato – sprivato, per come detto sopra, della possibilità di optare per altra via processuale ai fini della definizione del procedimento a suo carico – avrà comunque un'apposita menzione nel casellario giudiziale che permarrà annotata nella "fedina penale" per un decennio, consentendo al giudice di sapere se la persona ha già goduto in altre occasioni della non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Tale circostanza non solo appare illogica ma evidentemente in contrasto con basilari principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 111 Cost.

Ciò in quanto, la non menzione della condanna nel casellario giudiziale è un istituto compreso nella rosa delle cause di estinzione della pena anche se, in realtà, si tratta di un beneficio che comporta una limitazione degli effetti negativi della condanna stessa, al fine di consentire una migliore risocializzazione del reo al quale si evita il pregiudizio che subirebbe nella vita sociale e lavorativa, in virtù dell'iscrizione della condanna nel certificato.

Orbene, la dimensione in cui si incardina l'applicazione del benefico è dunque una ipotesi di condanna; una ipotesi in cui all'imputato è attribuita la qualità di reo; un'ipotesi di definizione processuale, epilogo di un accertamento svoltosi nel contraddittorio tra le parti.

Situazione ben diversa (e ben più grave) rispetto dunque a quella prevista in un caso di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, nella quale a tale accertamento di colpevolezza neppur si approda.

Circa i parametri alla stregua dei quali la concessione del beneficio è valutata dal giudice, occorre evidenziare che la sussistenza delle condizioni di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 175 c.p. (comma 1: una prima condanna con la quale è inflitta una pena detentiva non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore ad euro 516; comma 2 una condanna con la quale è inflitta la pena detentiva non superiore a due anni ed una pena pecuniaria che, ragguagliata a norma dell'art. 135 c.p. e cumulata alla pena detentiva, priverebbe complessivamente il condannato della libertà personale per un tempo non superiore a trenta mesi), non fa sorgere de plano un diritto alla non menzione, essendo demandata all'organo giudicante la valutazione discrezionale e positiva dei parametri ex art. 133 c.p., in punto di personalità del condannato e di prognosi sul suo reinserimento sociale.

Nell'ipotesi di cui all'art. 131-bis c.p. (fatta eccezione per il carattere della non abitualità del comportamento – da non intendere nel circoscritto senso di “precedente giudiziario”), il giudice non si appresta ad un'analisi della personalità bensì, ai sensi dell'art. 133 c.p., si limita all'analisi delle modalità di condotta e dell'esiguità del danno.

Orbene, l'unica ratio possibile della negazione del beneficio di cui all'art. 175 c.p. all'asserito autore di un fatto reato particolarmente tenue, sembrerebbe, a questo punto, trovare fondamento nel diverso limite edittale della pena inflitta nelle due ipotesi contemplate: la pena non superiore ad anni 2 per l'art. 175 c.p.; la pena non superiore ad anni 5 per l'art. 131-bis c.p.

Tale dato – insieme alla circostanza che la non punibilità per particolare tenuità del fatto non possa essere oggetto di rinuncia da parte dell'indagato/imputato e che una eventuale manifestazione della volontà contraria alla definizione del procedimento penale, ai sensi dell'art. 131-bis,c.p., non è comunque, normativamente, sufficiente ragione ostativa ad una pronuncia in tal senso da parte del giudice – lascia intendere che la novella legislativa al di là del suo essere uno strumento deflattivo, abbisogna di non poche rivisitazioni per conformarsi costituzionalmente ai principi che muovono il diritto penale sostanziale e processuale.

In conclusione

La tenuità dell'offesa che esclude la punibilità del reo ai sensi dell'art. 131-bis c.p. è desunta letteralmente dall'esiguità del danno o del pericolo, valutata sulla base dei criteri di cui all'art. 133 c.p.. Tuttavia, la disciplina della novella legislativa non può sfuggire a rilievi critici se sol si considera che essa è stata congegnata – e collocata – non nell'ambito della insussistenza del fatto di reato per mancanza di offensività, secondo i più generali principi costituzionali, bensì nel diverso alveo della non punibilità di quel reo che, si ritiene, abbia commesso un fatto comunque ritenuto penalmente rilevante, anche se poco offensivo.

Da tale collocazione ne è derivato che, essendo ritenuto reato ed implicando l'accertamento della penale responsabilità dell'autore, la tenuità del fatto determina comunque l'iscrizione nel casellario giudiziale del provvedimento che ha dichiarato la non punibilità ai sensi dell'articolo 131-bis del codice penale.

Una menzione di un provvedimento al quale, in un numero non precisabile di casi, l'asserito autore avrebbe ben potuto auspicare di non pervenire, aspirando – magari – ad una sentenza di assoluzione in formula piena per non aver commesso il fatto.

Ma dinanzi alle esigenze di celerità ed immediatezza di intervento giudiziario che devono caratterizzare le riforme normative di cui ha bisogno la giustizia, sembra non esservi posto per il dissenso dell'indagato/imputato. A nulla sembra valere, infatti, la novità processuale di cui all'art. 411 c.p.p. dinanzi la discrezionalità del giudice che, nonostante il dissenso dell'indagato/imputato, può autonomamente decidere delle modalità della sorte di questi.

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