La coltivazione di sostanze stupefacenti tra principio di offensività e particolare tenuità del fatto

Michele Toriello
12 Aprile 2016

Nella condotta di coltivazione rientrano le attività relative alle piante produttrici di sostanze stupefacenti, a partire dalla semina e fino al momento della raccolta. Viene dunque in rilievo il dato agronomico, avendo a mente che ai fini della legislazione sugli stupefacenti ciò che rileva è essenzialmente la specie botanica della pianta e la sua idoneità a fornire sostanze stupefacenti o psicotrope.
Abstract

Nella condotta di coltivazione rientrano le attività relative alle piante produttrici di sostanze stupefacenti, a partire dalla seminae fino al momento della raccolta (che, anche alla luce del tenore dell'art. 1, lett. f), della Convenzione unica sugli stupefacenti stipulata a New York il 30 marzo 1961, rientra nella successiva fase della produzione).

Viene dunque in rilievo il dato agronomico, che rinvia ad un complesso di lavori indispensabili per il conseguimento dei frutti della terra (rottura del suolo, preparazione del terreno, semina, attività volte a sorreggere ed a stimolare il processo produttivo), avendo a mente che ai fini della legislazione sugli stupefacenti ciò che rileva è essenzialmente la specie botanica della pianta e la sua idoneità a fornire sostanze stupefacenti o psicotrope: dal che consegue che la coltivazione punibile è configurabile anche ove venga praticata in ambienti diversi dal terreno aperto (in serra, in vasi, ecc.) e fin dal momento di messa a dimora dei semi.

L'impianto normativo del Testo unico (cfr., oltre alla norma incriminatrice, gli articoli 16, 17, 26, 27, 28, 29 e 30, relativi alle imprese autorizzate alla coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope), impone di considerare illecita e penalmente rilevante ogni condotta di coltivazione, indipendentemente dalla estensione della piantagione e a prescindere dallo scopo dell'agente (la coltivazione non rientra tra le condotte – descritte dall'art. 75 del Testo unico – in relazione alle quali l'accertata destinazione del prodotto al consumo personale impone l'applicazione di sanzioni solo amministrative): si è invero in presenza di un reato di pericolo presunto, nel quale la soglia di rilevanza penale è stata anticipata ed arretrata dal legislatore in vista della ritenuta maggiore idoneità lesiva della condotta, idonea (a differenza della semplice detenzione, ed al pari della produzione e della fabbricazione) ad immettere nuovi ed ulteriori quantitativi di sostanza stupefacente nel mercato, incrementando il pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e — correlativamente — il rischio per la pubblica salute ed incolumità.

La rilevanza penale della condotta di coltivazione

La generica ed indistinta formulazione della fattispecie incriminatrice non lascia spazio ad interpretazioni tese a restringere l'area dell'incriminazione: poiché il legislatore ha inteso punire ogni condotta di coltivazione di piante dalle quali è ricavabile il principio attivo di sostanze stupefacenti, non può condividersi l'opzione ermeneutica fatta propria da una risalente e minoritaria giurisprudenza di legittimità, tesa a distinguere le condotte di coltivazione domestica, configurabile quando un soggetto mette a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, poche piantine di sostanze stupefacenti, da quelle di coltivazione in senso tecnico (alla quale fanno riferimento i sopra richiamati artt. 26 e seguenti del d.P.R. 309/1990), configurabile in presenza di colture di maggiori dimensioni.

Secondo questo orientamento (inaugurato da due sentenze della sesta Sezione del 1994: la prima del 3 maggio, la seconda del 12 luglio) la coltivazione domestica, costituendo species del più ampio genus della detenzione, non avrebbe integrato gli estremi della fattispecie tipica, a condizione che potesse dirsi raggiunta prova esauriente della destinazione del prodotto esclusivamente all'uso personale del coltivatore; tuttavia la Corte costituzionale prima (sentenza n. 360/1995) e le Sezioni unite della Suprema Corte poi (sentenza n. 28605/2008, Di Salvia), hanno ribadito che ogni condotta di coltivazione è idonea ad integrare la norma incriminatrice.

In particolare la Consulta ha ritenuto non irragionevole la scelta di sanzionare penalmente la coltivazione c.d. domestica, poiché, diversamente dalla detenzione, la coltivazione non ha un nesso di immediatezza con l'uso personale (il che giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale), non consente di esprimersi con certezza circa la destinazione del prodotto (nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente ... la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece nel caso della coltivazione non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa) ed incrementa il grado di offesa ai beni giuridici protetti (l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili).

Allo stesso modo le Sezioni unite – ribadito che l'ipotesi criminosa è espressione di una notevole anticipazione della tutela penale e la sua natura di reato di pericolo astratto o presunto risponde alle esigenze di tutela della salute collettiva, bene giuridico primario che legittima il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto

– hanno evidenziato che l'impossibilità di determinare ex ante la potenzialità drogante ricavabile dalla coltivazione e l'assenza di un nesso di immediatezza tra coltivazione e consumo, rende del tutto ipotetiche e comunque non affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all'uso personale piuttosto che alla cessione. Peraltro, come hanno correttamente messo in luce le Sezioni unite, poiché la coltivazione non rientra tra le cinque condotte in relazione alle quali è ammessa la prova della destinazione della droga all'uso personale e, dunque, non è sanzionabile in via amministrativa ai sensi dell'art. 75 Tu stupefacenti, ove la coltivazione domestica fosse ritenuta penalmente irrilevante, essa non sarebbe sanzionabile neppure in via amministrativa (cfr., sul punto, anche Cass., Sez. III, n. 45919/2012). Dunque, “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”.

L'orientamento può dirsi oramai consolidato e applicato in maniera uniforme dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le più recenti, Cass., Sez. IV, n. 33176/2012 e Sez. III, n. 37835/2014).

Coltivazione e principio di offensività. Le piante non ancora giunte a maturazione

Il principio della rilevanza penale di ogni condotta di coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti va meglio calibrato alla luce dell'elaborazione dottrinale in punto di necessaria offensività della condotta: poiché non è concepibile un reato senza la lesione o la messa in pericolo di un bene giuridicamente protetto, le stesse Sezioni unite, dopo aver affermato la rilevanza penale della coltivazione, hanno comunque ritenuto necessario un accertamento della effettiva idoneità della condotta a porre a repentaglio il bene giuridico protetto.

Il principio di offensività non può tuttavia essere invocato in relazione a coltivazioni scoperte e poste sotto sequestro quando ancora le piante non sono giunte a maturazione: l'orientamento in base al quale l'attuale assenza nella sostanza coltivata di principio attivo deve, in ogni caso, condurre ad escludere l'offensività della condotta ex art. 49 cpv. c.p., ha avuto vita breve nella giurisprudenza di legittimità (cfr., per tutte, Cass. pen., Sez. IV, n. 1222/2008), essendo evidentemente incompatibile con i caratteri propri del delitto e con i principi statuiti nel 2008 dalle Sezioni unite (che, come si è detto, hanno ricavato dalla natura di reato di pericolo astratto la conseguenza della punibilità della condotta fin dal momento della messa a dimora dei semi ... quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile).

Se, dunque, la condotta di coltivazione è punibile fin dal momento della messa a dimora dei semi, la circostanza che la pianta non sia giunta a maturazione giammai può essere invocata per ritenere l'azione inidonea ex art. 49 c.p.

L'offensività della condotta di coltivazione è soddisfatta sol che si accerti la semplice idoneità della pianta a produrre principio attivo: ciò che rileva non è la quantità di principio attivo materialmente ricavata ma quella potenzialmente ricavabile e, dunque, la conformità del tipo botanico e la concreta idoneità della pianta a giungere a maturazione e produrre la sostanza stupefacente.

La coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti — reato di pericolo presunto — può ritenersi inoffensiva solo quando sia assolutamente e radicalmente inidonea, anche solo potenzialmente, a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e cioè solo quando dalla piantagione non si è né si sarebbe potuta mai ricavare – ad esempio per le inadeguate modalità di coltivazione - sostanza idonea a produrre un effetto stupefacente (cfr. le esaustive motivazioni di Cass. pen., Sez. VI, n. 2249/2013; tra le più recenti, cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 15152/2014 e Cass. pen., Sez. IV, n. 27624/2014; Cass. pen., Sez. VI, n. 45622/2013 e Cass. pen., Sez. VI, n. 33835/2014).

Coltivazioni di minima entità: inoffensività ovvero particolare tenuità del fatto

Il secondo — e statisticamente più frequente — profilo di operatività nel caso di specie del principio di offensività è quello relativo alle coltivazioni domestiche di minima entità: classico è il caso dell'unica piantina messa a dimora in maniera rudimentale dall'imputato nel giardino o in un vaso collocato su un balcone della sua abitazione.

Come si è visto, le più autorevoli pronunce in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti (le sentenze del 1995 della Corte costituzionale e del 2008 delle Sezioni unite), dopo aver affermato la astratta rilevanza penale della condotta, hanno precisato che — nonostante si sia in presenza di una fattispecie che anticipa notevolmente la tutela penale punendo il pericolo del pericolo, ossia il pericolo che l'esito positivo della coltivazione possa mettere in pericolo il bene giuridico oggetto di tutela — spetta comunque al giudice del singolo caso verificare in concreto l'offensività della condotta, ovvero (non solo l'idoneità della pianta a produrre sostanza stupefacente ma anche) l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile, ulteriormente precisando che una condotta risulta in concreto inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo.

È proprio attraverso questa verifica che una larga parte della giurisprudenza, soprattutto di merito, è giunta ad escludere la rilevanza penale delle condotte di minor gravità, ritenendo in concreto inoffensiva la coltivazione di una singola pianta (o comunque di un numero molto ridotto di piante) dalla quale sia ricavabile una esigua quantità di principio attivo.

Il percorso argomentativo da seguire per giungere a questo — ragionevole — approdo deve tuttavia essere necessariamente coerente con il sistema disegnato dal legislatore ed, in particolare, con un delitto espressamente costruito in termini di reato di pericolo astratto o presunto, che punisce la coltivazione in sé e fin dal momento della messa a dimora dei semi, e con un impianto normativo che non prevede che in relazione alle condotte di coltivazione possa avere rilievo la prova della destinazione dello stupefacente al consumo personale.

È allora necessario che quel percorso argomentativo sia depurato da ogni considerazione relativa alla potenziale destinazione dello stupefacente (si è già detto che l'incriminazione è indifferente alla destinazione della sostanza: dunque, sostenere che l'imputato coltivava al solo scopo di fare uso personale del prodotto non ha alcun concreto rilievo in termini di offensività della condotta), così come deve reputarsi irrilevante il dato numerico relativo alle piante oggetto di coltivazione (ciò che rileva non è il numero di piante messe a dimora, ma il principio attivo ricavato o potenzialmente ricavabile dalla piantagione: ed è noto che anche dalla coltivazione di una sola pianta possono ricavarsi quantitativi apprezzabili di principio attivo, idonei al confezionamento di centinaia di singole dosi, come nel caso oggetto di Cass. pen., Sez. III, n. 19423/2014).

Dunque — in ossequio alle imprescindibili esigenze di tutela di tutti i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice — deve riconoscersi che integra comunque il reato anche la coltivazione di una sola piantina vitale ed idonea a produrre sostanza stupefacente, appartenente ad una delle specie vietate.

Sono invece concretamente inoffensive (oltre, come si è già visto, alle coltivazioni che avvengano con tecniche o in ambienti tali da precludere lo sviluppo e la maturazione delle piante) quelle coltivazioni dalle cui infiorescenze sono ricavabili quantitativi di principio attivo talmente esigui da non poter esplicare alcun concreto effetto drogante nell'assuntore (cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. IV, n. 25674/2011; Cass. pen.,Sez. III, n. 13017/2013 e Cass. pen.,Sez. VI, n. 33835/2014, che hanno escluso l'offensività delle coltivazioni di una sola pianta di canapa indiana dalle cui infiorescenze era ricavabile principio attivo rispettivamente pari a 16, 18 e 20 mg.; al contrario, Cass. pen.,Sez. III, n. 20673/2014 e Cass. pen., Sez. VII, n. 30704/2014 hanno ritenuto offensiva la coltivazione rispettivamente di 6 e 5 piante di marijuana idonee a produrre un apprezzabile quantitativo di principio attivo).

Le considerazioni fin qui svolte in punto di concreta offensività della condotta vanno – infine – integrate alla luce dell'introduzione, da parte del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, dell'istituto della particolare tenuità del fatto quale causa di esclusione della punibilità: è invero noto che l'art. 131-bis c.p. consente, in relazione a fatti giuridicamente qualificabili come di lieve entità ex art. 73, comma 5, Tu stupefacenti (e sempre che non sia contestata una delle circostanze aggravanti ad effetto speciale di cui all'art. 80 del Testo unico), di ritenere non punibile la condotta che, pur se concretamente offensiva del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, abbia arrecato un'offesa particolarmente tenue.

Si può facilmente prevedere che proprio l'applicazione di questo istituto consentirà di lasciare esente da sanzione penale quella vasta area di condotte afferenti a piccole coltivazioni domestiche che la giurisprudenza – soprattutto di merito – degli ultimi decenni ha con fatica, e senza successo, cercato di far approdare prima sulle sponde dell'assenza di tipicità e poi su quelle dell'assenza di offensività.

Ed invero, in presenza di esigue coltivazioni di un limitatissimo numero di piante, pur essendo la condotta – sulla base di quanto si è fin qui detto – tipica ed offensiva (sol che si accerti la semplice idoneità delle piante a produrre infiorescenze dalle quali sia ricavabile principio attivo), potrà certamente ritenersi lieve l'offesa arrecata ai beni giuridici della salute, dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, non solo ove si verifichi che il quantitativo di principio attivo avrebbe consentito il confezionamento di poche dosi, ma anche ove possa comunque dirsi accertato che quelle piante avrebbero alimentato il consumo del solo coltivatore: in entrambi i casi si può ragionevolmente sostenere che non vi è stato alcun apprezzabile accrescimento dei quantitativi di sostanza stupefacente presenti sul mercato, risolvendosi la condotta incriminata nella costituzione da parte di soggetto tossicofilo di una autonoma fonte di approvvigionamento, così da rendersi indipendente rispetto alla nutrita rete di spacciatori da strada.

In conclusione

La riconosciuta natura di reato di pericolo astratto rende la condotta punibile fin dal momento della messa a dimora dei semi ed indipendentemente dalla destinazione del prodotto estratto dalla coltivazione: tuttavia, in ossequio al principio di necessaria offensività della condotta, non potrà ritenersi integrato il reato quando si accerti l'inidoneità della pianta (per ragioni botaniche o ambientali) a giungere a maturazione, ovvero quando si accerti, in relazione a piante già mature, una tale esiguità del principio attivo complessivamente ricavato o ricavabile, da essere radicalmente insufficiente a produrre nell'assuntore gli effetti di alterazione neuropsichica tipici della sostanza stupefacente coltivata.

In presenza di un esiguo numero di piante, dalle quali siano ricavabili apprezzabili ma non eccessivi quantitativi di principio attivo, potrà invece trovare applicazione l'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all'art. 131-bis c.p.

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