Le Sezioni unite aprono la strada alle conformazioni d'ufficio del vizio di motivazione

12 Settembre 2016

Le Sezioni unite mettono ordine nel sistema di rilevabilità del vizio rappresentato dalla violazione della giurisprudenza consolidata Cedu – in caso di ribaltamento dell'assoluzione in secondo grado – e chiudono il cerchio sulla non estraneità ai contenuti del giudizio di legittimità dell'analisi funzionale della motivazione.
Massima

Con la decisione in esame, le Sezioni unite della Corte di cassazione, chiamate a dirimere un contrasto interpretativo vertente sulla rilevabilità di ufficio – da parte del giudice di legittimità – della violazione dell'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in caso di avvenuta riforma della sentenza assolutoria, in secondo grado, realizzata senza nuova escussione di fonti testimoniali da ritenersi decisive, hanno affermato i seguenti principi di diritto:

  • i principi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, come viventi nella giurisprudenza consolidata della Corte Edu, pur non traducendosi in norme di diretta applicabilità nell'ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione (convenzionalmente orientata) ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell'applicazione delle norme interne;
  • la previsione contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte Edu – la quale costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne – implica che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, a norma dell'art. 603, comma 3, c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado;
  • l'affermazione di responsabilità dell'imputato pronunciata dal giudice di appello su impugnazione del pubblico ministero, in riforma di una sentenza assolutoria fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma 3, c.p.p., integra di per sé un vizio di motivazione della sentenza di appello, ex art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. per mancato rispetto del canone di giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio di cui all'art. 533, comma 1, c.p.p. In tal caso, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata;
  • gli stessi principi trovano applicazione nel caso di riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado, ai fini delle statuizioni civili, sull'appello proposto dalla parte civile.
Il caso

Tapas Kumar Dasgupta, assolto in primo grado da una imputazione di estorsione, viene condannato in sede di appello.

Il giudice di primo grado valorizza, nella sua decisione, talune affermazioni rese dallo stesso imputato e dalla consorte tese a giustificare in modo alternativo la certa attribuzione patrimoniale ricevuta dall'imputato da parte della persona offesa.

L'atto di appello evidenzia la scarsa attendibilità di tali giustificazioni offerte.

La Corte di appello, in assenza di ulteriore attività istruttoria, condanna l'imputato valorizzando, di contro, la piena attendibilità della persona offesa e il contrasto tra le affermazioni dell'imputato – e della di lui moglie – con alcuni elementi di fatto emersi nell'istruttoria.

La questione

A fronte di un ricorso proposto dal condannato basato, in prevalenza, su plurime deduzioni di vizio motivazionale (per illogico ribaltamento delle valutazioni espresse nel primo giudizio, in punto di attendibilità o inattendibilità delle principali fonti dichiarative) e non ricomprendente la specifica richiesta di considerazione di incidenza del vizio correlato alla omessa rinnovazione parziale dell'istruttoria (secondo i criteri elaborati, in più arresti, dalla Cedu) il ricorso è stato rimesso – con ordinanza Sez. II, 26 novembre 2015 – alle Sezioni unite.

L'ordinanza evidenzia e ripercorre i termini di un contrasto interpretativo sorto tra le diverse Sezioni della Corte, sul tema della rilevabilità ex officio da parte del giudice di legittimità di ipotetici vizi del procedimento ricollegabili a violazioni delle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, per come interpretate nelle decisioni della Cedu. In estrema sintesi, per talune decisioni tale rilevabilità ex officio sarebbe preclusa (si tratterebbe di violazione di legge processuale, senza possibilità di superamenti della volontà della parte non impugnante sul punto, nè richiedente la rinnovazione in secondo grado) mentre secondo il diverso orientamento soccorrebbe, in simili casi, la norma di cui all'art. 609, comma 2, c.p.p. posto che il valore della legalità convenzionale del processo andrebbe, in ogni caso, tutelato, data anche la necessità di conformarsi ai contenuti delle decisioni Cedu tese ad evidenziare un problema strutturale dell'ordinamento interno, da cui derivi un deficit di tutela di una posizione giuridica protetta dalla Convenzione.

Le soluzioni giuridiche

Le Sezioni unite ritengono il ricorso fondato (si dispone l'annullamento con rinvio della decisione impugnata) pur in assenza di specifica deduzione della legalità convenzionale del processo (art. 6 Cedu), accogliendo, secondo un articolato percorso interpretativo, i profili di critica espressi dalla parte sub specie vizio di motivazione della sentenza, con arricchimento ex officio di tali profili.

In ciò è bene evidenziare che le Sezioni unite affermano espressamente di non aderire ad alcuno dei due orientamenti in contrasto (ferma restando, per le ragioni che si diranno, una identificabile vicinanza culturale al secondo).

Viene riproposta, in apertura, la sintesi degli orientamenti che – a partire dalle c.d. sentenze gemelle Corte cost. n. 348/2007 e 349/2007 – hanno affermato la natura di norme interposte (tra legge ordinaria e Costituzione) di quelle contenute nella Convenzione, con obbligo di prioritaria interpretazione adeguatrice della norma interna che si ponga in contrasto e, ove ciò non sia possibile, promovimento dell'incidente di costituzionalità ex art. 117, comma 1, Cost. (senza disapplicazione diretta della norma interna contrastante), così come viene ribadita (Corte cost. 49 del 2015) la vincolatività della sola linea interpretativa Cedu definibile come consolidata o espressa da sentenza pilota.

Le decisioni Cedu (a partire dal caso Bricmont c. Belgio del 7 luglio 1989 e sino alle più recenti Dan c. Moldavia del 5 novembre 2011, Hanu c. Romania del 4 giugno 2013 ed altre) sul tema della necessità di assunzione diretta dei testimoni nel corso di giudizio di appello conclusosi con affermazione di responsabilità (proiezione dell'art. 6 Cedu, al comma 3 lett. d)) vengono riconosciute come espressioni di una linea consolidata e dunque da ritenersi vincolanti anche per il nostro ordinamento, pur se emesse in danno di Stati diversi.

Del resto, si evidenzia che non sono mancati gli arresti della Corte suprema italiana (già Cass. pen., Sez. unite, n. 45276 del 2002 ed altre) tesi a rimarcare la obbligatorietà – in generale – di una motivazione rafforzata in caso di ribaltamento di decisione assolutoria avvenuto in secondo grado, specie dopo l'introduzione del canone per cui la colpevolezza, ove affermata, deve risultare dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio (legge 46 del 2006 di novellazione, sul punto, dell'art. 533 c.p.p.).

In tale quadro, numerose decisioni hanno già riconosciuto (per lo più a fronte di deduzione espressa) la necessità della riassunzione della fonte decisiva, da parte del giudice di appello, come condizione di validità della successiva affermazione di responsabilità in secondo grado.

Tale orientamento viene ampiamente condiviso, con inquadramento logico e funzionale del giudizio di appello teso a rimarcare l'assoluta necessità di una elaborazione del vaglio critico sulla decisione di primo grado che – in caso di prova dichiarativa – non spezzi il legame tra la valutazione dei materiali cognitivi e l'ascolto diretto della fonte ( … l'apporto informativo che deriva dalla diretta percezione della prova orale è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento dimostrativo, tanto più in relazione all'accresciuto standard argomentativo imposto, per la riforma di una sentenza assolutoria, dalla regola del ragionevole dubbio ...).

Ciò posto, si ritiene di affermare come nella interpretazione dell'art. 603, comma 3, c.p.p. (rinnovazione istruttoria ex officio) che il presupposto della assoluta necessità debba essere ritenuto sussistente (con integrazione del precetto in via sistematica) in tutti i casi in cui l'oggetto del giudizio di appello (e dunque i motivi proposti) si incentri essenzialmente su valutazioni di attendibilità o meno di fonti dichiarative già assunte, il cui apporto risulti decisivo per sciogliere il nodo posto dall'atto di impugnazione (ciò anche in caso di giudizio di primo grado celebratosi con rito abbreviato o in ipotesi di impugnazione a soli fini civili, data l'incidenza della regola sul rispetto del criterio del ragionevole dubbio).

La decisione di secondo grado che, in ipotesi, abbia affermato – in condizioni di doverosità della rinnovazione – la responsabilità dell'imputato risulta affetta da vizio di motivazione, da ricomprendersi nella stringa di cui all'art. 606, comma 1, lett e) c.p.p.

Su tale aspetto, parte essenziale della decisione in rapporto al quesito posto, le Sezioni unite affermano, in particolare che il vizio di motivazione, in quanto tale non rilevabile ex officio, ricomprende le ipotesi in cui la scorretta metodologia di raccolta della prova (nel caso in esame) abbia alterato il procedimento valutativo con arbitrario superamento del canone del ragionevole dubbio (più volte ribadito come punto di criticità della descritta sequenza) sì da pervenire ad una ingiusta affermazione di responsabilità (sempre che la diversa valutazione della prova dichiarativa sia da ritenersi decisiva).

Ciò consente l'esame complessivo del ricorso, sempre in presenza di una valida prospettazione del vizio di motivazione, ed il suo accoglimento – in rapporto al riscontrato vizio metodologico influente – anche lì dove la parte non abbia, come nel caso in esame, espressamente formulato una sub-doglianza sul tema.

Osservazioni

Ogni passaggio argomentativo espresso dalla decisione Sezioni unite Dasgupta, meriterebbe un particolare approfondimento, trattandosi di un arresto – molto atteso – che interviene su temi nevralgici e trasversali dell'intero sistema processuale penale, finendo con il coinvolgere profili di diritto costituzionale e sovranazionale di estremo rilievo.

Non potendosi sviluppare in modo analitico ciascuno degli spunti offerti dalla decisione in parola, ci si limita qui a formulare talune osservazioni di sistema che, muovendo da una sommaria (e di certo perfettibile) analisi delle soluzioni offerte, cercano di soppesarne le ricadute sul presente e, forse, sul futuro del giudizio di legittimità.

Una prima osservazione è d'obbligo. Le Sezioni unite tendono a comporre l'apparente antinomia (posta a base del contrasto sorto tra le sezioni semplici) tra il vincolo posto all'oggetto del giudizio dai motivi di ricorso (art. 609, comma1, c.p.p.) e la necessità di evitare il rischio di esporre lo Stato italiano a responsabilità internazionale per violazione dei contenuti precettivi dell'art. 6 Cedu, non attraverso la dilatazione del perimetro applicativo della rilevabilità di ufficio dell'ipotetico vizio rappresentato dal contrasto con le norme della Convenzione europea (art. 60, comma 2, c.p.p.) e dunque, non attraverso un allargamento ex officio dell'oggetto del giudizioma mediante una raffinata riconduzione di tale rilevabilità nell'ambito dell'introdotto – dalla parte ricorrente – vizio di motivazione della sentenza.

La soluzione assomiglia, a prima lettura, ad un dribbling ma in realtà può parlarsi di un approdo ad una rilevabilità di ufficio «mediata» dall'avvenuta introduzione del tema – in senso ampio – ad opera della parte, ove la stessa contesti, in modo specifico e valido, punti argomentativi della decisione di secondo grado concernenti le fonti «sospette», pur senza formulare censure ricollegabili ai dicta della Cedu .

Nel compiere tale operazione interpretativa, di certo agevolata dall'argomento in esame e dalla sedimentata sensibilità espressa dall'intera Corte suprema sui temi in trattazione, la Cassazione – nella sua più alta articolazione – sembra essere ispirata dalla necessità di evitare, da un lato, derive soggettivistiche (affidate alla sensibilità del singolo Collegio) e sovrapposizioni di piani ordinamentali tra loro diversi, pur se comunicanti (il sistema delle impugnazioni ordinarie è cosa diversa rispetto alle ricadute delle decisioni emesse dalla Cedu e tese ad inverare il sistema di tutela dei diritti fondamentali negli stati aderenti al Consiglio d'Europa) ma dall'altro appare ben consapevole dell'elevata posta in gioco (che trascende il caso sottoposto a scrutinio) sul piano della verifica di legalità convenzionale e costituzionale del processo, valore da tutelarsi in quanto tale e, potremmo aggiungere, anche a scopi preventivi (... meglio prevenire una condanna a Strasburgo che curare ... mediante una complessa procedura di revisione nei modi dettati da Corte cost. n. 113 del 2011).

Al di là dei riferimenti generali al valore delle pronunzie Cedu (tema su cui non sono mancate autorevoli critiche all'utilizzo, operato da Corte cost. 49 del 2015, della nozione di giurisprudenza consolidata come unico contenitore vincolante ) la decisione apre più fronti sistematici ed interpretativi dell'intero assetto del sistema delle impugnazioni, che appare opportuno evidenziare.

Il primo è rappresentato dalla «estrazione» dal sistema di una regola di condotta non espressamente codificata, per quanto concerne il giudizio di appello promosso dalla pubblica accusa soccombente (con dimensione paranormativa della sentenza, fenomeno ormai ricorrente, si pensi a quanto deciso, in diverso ambito da Cass. pen., Sez. unite n. 4880/2015 ric. Spinelli ).

In ossequio ai contenuti espressi in decisioni Cedu (nessuna delle quali riguardante l'Italia, il che accresce la considerazione di una particolare sensibilità ai contenuti di principio espressi dalla giurisprudenza di Strasburgo) sulla portata applicativa, in tali evenienze, dell'art. 6 Cedu (nella parte in cui detta norma ipotizza come indefettibile il contatto diretto tra giudice che affermi la responsabilità e la fonte dichiarativa), si estrae dal sistema (intendendo per tale quello derivante dal “complesso” delle fonti giuridiche che regolamentano il rapporto tra Stato e cittadino) l'obbligo per il giudice di secondo grado – nelle condizioni date – di procedere, tramite lo strumento codicistico dell'art. 603, comma 3, c.p.p. al previo riascolto della fonte dichiarativa controversa e lo si pone come condizione di validità della decisione (il metodo influenza il risultato, secondo l'ormai indiscusso approdo delle scienze cognitive, cui non è estranea la ratio della modifica costituzionale dell'art. 111 Cost.).

Si tratta di un approdo ampiamente condiviso in numerosi arresti antecedenti (citati in sentenza) teso a restituire al giudizio di appello – nei limiti del possibile e del ragionevole – una dimensione cognitiva diretta, da ritenersi indispensabile per il corretto dispiegarsi dei poteri di merito, ferma restando la difficoltà pratica di individuare – nella prassi applicativa – i casi di reale decisività del potenziale apporto della fonte, aspetto su cui la Corte si diffonde ampiamente in motivazione, allo scopo di prevenire improprie dilatazioni del decisum.

Ma, ed è questo, lo spunto di maggior interesse, si tratta – in ipotesi di omissione dell'adempimento istruttorio di una invalidità in procedendo non produttiva – in quanto tale di nullità (non potendosi dilatare la generale previsione di cui all'art. 178, comma 1, lett. c)) e quindi non dotata di possibile inserzione nel catalogo dei vizi di cui all'art. 606, comma 1, lett. c)c.p.p., né tampoco può ipotizzarsi, per la sua deduzione, l'arnese costituito dalla previsione della lettera b) dell'art. 606 c.p.p. (norma ontologicamente destinata alla deduzione di vizi interpretativi o applicativi della legge penale sostanziale o di norme integratrici del precetto).

L'approdo, necessitato ma non per questo forzato, alla deduzione del particolare vizio in questione mediante la previsione della lettera e) dell'art. 606 c.p.p. – vizio di motivazione, di cui si evidenzia la connotazione in termini di specialità, risalente a Cass. pen., Sez. un. 26 febbraio 1991, ric. Bruno – è dunque il vero “cuore” della sentenza ed è frutto, ci sembra di poter dire, del definitivo sdoganamento della rilevabilità, sotto tale profilo, della accertata violazione della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio in sede di legittimità .

Sul tema, va ricordato che la formulazione testuale dell'art. 606, comma 1, lett.e) c.p.p. non menziona espressamente – in tale ambito – il tradimento dell'aspettativa funzionale della motivazione (ossia la sua inidoneità a rendere esplicito il criterio logico con cui si è realizzato, in caso di condanna, il superamento di ogni dubbio ragionevole) limitandosi a raffigurare i tradizionali connotati di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità.

Ciò tuttavia, attraverso le riflessioni sul tema della giustificazione esterna non ha impedito, da tempo, sia di porre il tema del sindacato sul corretto utilizzo delle massime di esperienza come realizzabile in sede di legittimità in chiave funzionale di validità logica della motivazione (tra le molte, Cass. pen., Sez. VI, 13 novembre 2012, n. 6582; Cass. pen., Sez. II, 13 ottobre 2009, n. 44048, con superamento interpretativo di precedenti rigidità, espresse, in particolare da Cass. pen., Sez. un., 31 maggio 2000, n. 12) nonché, dopo il 2006, di evidenziare come il mancato rispetto della regola di giudizio di cui all'art. 533, comma 1, c.p.p. finisca con essere deducibile in sé, nell'ambito della lettera e) dell'art. 606 c.p.p. come ipotesi particolare di apparenza di motivazione (secondo linee espresse da Cass. pen., Sez. I, 24 ottobre 2011, n.41110; Cass. pen., Sez. VI, 24 gennaio 2013, n. 8705; Cass. pen., Sez. I, 10 febbraio 2015, n. 8163) sia pure con il limite – connaturale al giudizio di legittimità – della presa d'atto da parte della Corte suprema dell'avvenuta considerazione, in termini non illogici, da parte del giudice del merito delle formulate ipotesi alternative di ricostruzione del fatto (in tal senso Cass. pen., Sez. V, 28 gennaio 2013, n. 10411).

Ora, in un momento in cui la – endemica – crisi della Corte (per eccesso di ricorsi correlato alle necessità di tempestiva evasione) tende ad appannarne la funzione nomofilattica ed ad esaltarne il profilo casistico, con sgradite ricadute sui profili di uniformità delle decisioni, le Sezioni unite esprimono – con la sentenza in commento – un valore particolarmente alto di tutela della funzione di legittimità, intendendo per tale quella che consente di verificare la correttezza non solo formale (logicità interna) ma soprattutto funzionale della motivazione affermativa di responsabilità espressa in sede di merito.

Ciò, peraltro, accade in una fase di – peraltro ricorrente – ricchezza di prospettazioni (in chiave legislativa) circa i rimedi del suddetto male, che sovente includono l'abolizione del controllo della suprema Corte sul vizio di motivazione in quanto tale, prospettiva che appare sideralmente lontana dalla sensibilità culturale mostrata dalle Sezioni unite nella vicenda in esame, nonché dalla correlata necessità di trovare spazio attuativo preventivo alle pronunzie significative emesse dalla Cedu.

Se è vero, infatti, che il rilievo della violazione dell'obbligo di riascolto della fonte tende a tradursi – secondo le Sezioni Unite – in un profilo metodologico di irragionevole superamento della criticità della controversia fattuale (qui esaltata dalla dinamica di contrasto tra prima e seconda decisione) tale da incrinare – con valutazione ex officio nei limiti del punto dedotto – il rispetto della regola di giudizio “finale” di cui all'art. 533 c.p.p., è evidente che è data per assodata la implicita premessa maggiore di simile ragionamento, ossia la possibilità generale per ogni ricorrente – che con ricorso non inammissibile introduca profili di critica al ragionamento ricostruttivo – di dedurre tale tipologìa di violazione (ossia l'assenza di una motivazione capace di sostenere, sul piano funzionale, il superamento del ragionevole dubbio) in tal modo confermandosi autorevolmente la sua cittadinanza nel perimetro applicativo della lettera e) dell'art. 606 c.p.p.

Quali ricadute sui futuri giudizi di legittimità? Al di là dell'ambito specifico, rappresentato dal giudizio di secondo grado su pronunzia assolutoria, sono ipotizzabili ricadute più generali. Tra queste, in estrema sintesi, meritano di essere evidenziate:

  • la necessità di valutare come ammissibile un ricorso avverso sentenza di condanna prospettato sub art. 606 lett. e) c.p.p. (vizio di motivazione) con cui si intenda contestare non tanto la logicità interna della motivazione ma la complessiva tenuta dell'apparato motivazionale in chiave di superamento del ragionevole dubbio. Ricorsi del genere, per il vero, implicano un elevato grado di specializzazione dei redigenti, posta la sottile linea di demarcazione esistente tra la generica contestazione dell'attribuzione del valore da parte del giudice di merito ad uno o più elementi dimostrativi (operazione che sovente conduce alla inammissibilità, posto che implica la riformulazione – in quanto tale – di un giudizio di merito, salva l'emersione di travisamenti o illogicità manifeste) e la critica all'esito del ragionamento probatorio nel suo complesso operata sulla base del confronto tra le ragioni complessive del convincimento e il dato normativo di riferimento (art. 533 c.p.p. così come le linee guida di cui all'art. 192 c.p.p.) che impone l'esplorazione concreta delle ipotesi antagoniste non del tutto irrazionali (in tale secondo caso il ricorso andrebbe, per quanto detto sopra, ritenuto ammissibile);
  • la necessità di valutare come ammissibili ricorsi nel cui ambito il vizio motivazionale venga proposto dalla parte, sempre in chiave di tenuta complessiva del ragionamento decisòrio, attraverso la deduzione espressa di violazioni del giusto processo rapportabili ai contenuti della giurisprudenza Cedu, su punti diversi rispetto a quello oggetto di scrutinio nella sentenza Dasgupta (si pensi, ad esempio, al tema del recupero di atti dichiarativi per sopravvenuta irrepetibilità ai sensi dell'art. 512 c.p.p., argomento su cui si è già manifestata, in più occasioni, la tendenza della Corte di cassazione a recepire i contenuti della giurisprudenza di Strasburgo);
  • la possibilità di ritenere sussistente, da parte della Corte, nell'ambito di valido ricorso prospettato in rapporto a vizi motivazionali, una violazione della giurisprudenza consolidata Cedu ricadente sul tema e non espressamente dedotta, lì dove sia identificabile il contrasto con il canone decisorio del ragionevole dubbio;
  • di contro, la possibilità, che pure emerge confermata dalla decisione in commento, di valutare come inammissibili ricorsi che prospettino sub art. 606 lettera b) (violazione di legge) o c) (violazioni di norme processuali) aspetti di critica (violazione dei parametri dell'art. 192 o del 533 c.p.p., violazione dei contenuti di decisioni Cedu in tema di giusto processo con aderenza al piano ricostruttivo del fatto) correlati in realtà a violazioni di norme processuali sprovviste di sanzione di nullità, cui non si accompagni una valida deduzione di un vizio motivazionale (in tal senso già Cass. pen., Sez. III, 12 marzo 2015, n. 24574).

Il percorso di adeguamento della Corte suprema italiana alle esigenze di tutela dei diritti individuali in campo processuale, con apertura ragionata alla importazione dei contenuti giurisprudenziali elaborati a Strasburgo si è dunque sicuramente arricchito di un importante tassello, ferma restando l'attenzione al rispetto delle peculiari caratteristiche del giudizio di legittimità.

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