Il favoreggiamento personale del sanitario per le cure prestate ad un latitante

12 Novembre 2015

In tema di favoreggiamento ascritto a un soggetto esercente la professione sanitaria, la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute. Non integra favoreggiamento personale la prestazione di assistenza medica a favore di un latitante o di un indiziato di reato, resa da un sanitario consapevole della condizione d'illegalità in cui versa il paziente
Massima

In tema di favoreggiamento ascritto a un soggetto esercente la professione sanitaria, la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute. Non integra favoreggiamento personale la prestazione di assistenza medica a favore di un latitante o di un indiziato di reato, resa da un sanitario consapevole della condizione d'illegalità in cui versa il paziente, a condizione che l'attività rimanga entro limiti coerenti con la patologia e non si accompagni a condotte ulteriori, finalizzate ad agevolare la sottrazione del soggetto alla giustizia.

In questo ambito, l'eventuale omissione del referto obbligatorio ex art. 334 c.p.p. non può essere assunta quale condotta elusiva caratterizzante il favoreggiamento, laddove il paziente sarebbe con ciò esposto a procedimento penale, ricorrendo così l'ipotesi di cui all'art. 365, comma 2, c.p. (la suprema Corte precisa nuovamente che il valore costituzionale della salute prevale sul valore costituzionale della tutela dell'interesse pubblico sotteso ad un puntuale esercizio dell'amministrazione della giustizia).

Il caso

Nella sentenza in esame la Corte si pronuncia sulla condotta di due esercenti la professione sanitaria, accusati di favoreggiamento, per aver prestato cure mediche in un'abitazione privata ad un latitante, coinvolto in un conflitto a fuoco durante un “regolamento di conti tra bande”, senza successivamente segnalare l'accaduto agli organi di polizia, garantendo in questo modo la clandestinità del paziente.

Gli imputati sono stati ritenuti colpevoli del reato di favoreggiamento personale di cui all'art. 378 c.p. dal tribunale di primo grado che li ha condannati con sentenza confermata anche in Corte d'appello.

I giudici distrettuali hanno ritenuto infatti che la condotta del medico, più che caratterizzata dalla necessità di apprestare le cure, fosse piuttosto primariamente indirizzata dall'esigenza di garantire la clandestinità al paziente, così da ritenere configurabile il reato prospettato.

Avverso questa sentenza gli imputati hanno separatamente proposto ricorso per Cassazione, adducendo la mancanza della volontà cosciente in capo ad entrambi di aiutare qualcuno a sottrarsi alle investigazioni, nonché la mancanza di quei comportamenti attivi ulteriori, ai quali in genere la giurisprudenza, in casi simili, ricollega la responsabilità del sanitario per le cure mediche prestate al latitante, tanto che dovevano risultare indifferenti il luogo di esecuzione della cura, nonché l'aver omesso di consigliare al paziente di recarsi presso una struttura pubblica.

La suprema Corte di cassazione ha assolto i due medici che avevano curato il latitante Mevio, colpito con ferite da arma da fuoco, senza denunciare il fatto, dall'accusa di favoreggiamento personale, annullando la sentenza impugnata senza rinvio. I giudici di legittimità hanno escluso il delitto di favoreggiamento nella condotta dei due sanitari ritenendo che: Nell'intersecarsi di esigenze tutte costituzionalmente correlate, i valori legati alla integrità fisica rendono necessariamente recessivi quelli contrapposti e finiscono per imporre comunque l'intervento sanitario.

In particolare, dinanzi alla richiesta di cure urgenti, la situazione di illegalità in cui versa il paziente non ostacola in alcun modo l'obbligo del medico di intervenire, afferma la Corte, in quanto la rilevanza costituzionale dei valori della vita e della salute, che vengono in gioco, e dunque la doverosità della prestazione professionale, rendono esente da sanzione penale la condotta del sanitario e valgono a differenziarne la posizione da quella di qualsiasi altro soggetto che con la propria condotta, finisca per aiutare un terzo, garantendone la latitanza o favorendolo nell'eludere le investigazioni.

D'altra parte, perché possa configurarsi il delitto di favoreggiamento nella condotta del sanitario che presta le cure ad un soggetto in stato di illegalità, è necessario che questi ponga in essere condotte aggiuntive che travalichino il limite della diagnosi e della terapia e ciò in quanto l'art. 378 c.p. sanziona i comportamenti di chi, fuori dal concorso nel reato presupposto, aiuta un terzo a sottrarsi alle ricerche dell'autorità o ad eludere le indagini”. Censurando il ragionamento della Corte del merito, la suprema Corte ha infatti puntualizzato che le modalità di esecuzione della prestazione e il luogo dell'intervento sanitario, finiscono per divenire indifferenti a tal fine: il medico, infatti, ha il dovere di assistere chiunque abbia necessità delle sue prestazioni professionali, a prescindere dal modo e dall'ambiente in cui, poi, le cure vengono prestate.

Il tema di giudizio, dunque, non è quello inerente la consapevolezza della situazione di illiceità correlata allo status di latitanza del destinatario delle cure o alle cause della patologia da curare, come nella fattispecie concreta pacificamente correlate ad un conflitto a fuoco, bensì è la necessità, per l'interprete, di individuare quell'elemento “aggiuntivo” alla prestazione sanitaria nel quale si sarebbe concretato, al di là della doverosa assistenza al paziente, il contributo alla elusione che, per quanto sopra, costituisce il tratto tipizzante della condotta di favoreggiamento resa dal medico.

La questione

La questione di diritto risolta con la sentenza commentata riguarda la delimitazione della liceità dell'attività del sanitario che presti le proprie cure ad un latitante, affinché essa non integri gli estremi del reato di favoreggiamento personale.

In particolare, ci si chiede se il sanitario che presti delle cure urgenti ad un paziente ricercato, in presenza di una situazione illecita, che configura certamente un reato perseguibile d'ufficio, garantendo la clandestinità di questo intervento, debba rispondere del solo reato di omissione di referto, ai sensi dell'art. 365 c.p., ovvero se tale condotta debba essere assorbita nel più grave reato di favoreggiamento personale di cui all'art. 378 c.p. ovvero, infine, se essa debba considerarsi del tutto lecita.

Le soluzioni giuridiche

La decisione in esame si inquadra in un recente ma ormai costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, compendiato in genere nella massima – citata nella stessa motivazione - in forza della quale, in tema di favoreggiamento ascritto ad un soggetto esercente la professione sanitaria, la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute. Per contro, la condotta del sanitario chiamato ad esercitare il dovere professionale di tutela della salute del cittadino non può esorbitare il limite della diagnosi e della terapia, onde lo stesso non deve porre in essere condotte “aggiuntive” di altra natura che travalichino tale limite e siano finalizzate soggettivamente e oggettivamente a far eludere la persona assistita alle investigazioni dell'Autorità o a sottrarla alle ricerche di quest'ultima, giacché in siffatta ipotesi risultano integrati gli estremi del favoreggiamento (cfr di recente Cass. pen., Sez. V,11879/2013, nonché gli arresti ivi richiamati tra i quali spiccano Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 2005, n. 26910; Cass. pen. Sez. VI, 30 ottobre 2001 - dep. 25 gennaio 2002, n. 2998).

La giurisprudenza più recente infatti tende ad escludere il delitto nel caso del sanitario che si sia limitato a prestare la propria attività a favore di un ricercato, senza alcuna altra condotta positiva di aiuto al latitante per sottrarsi alle ricerche, partendo dall'assunto per il quale non esiste in capo al medico un obbligo giuridico di attivarsi per favorire le ricerche dell'autorità confermato dal dato sistematico, contenuto all'art. 365, comma 2 c.p., che esonera il medico dall'obbligo di referto nel caso in cui ciò possa esporre il paziente ad un procedimento penale. Si ritiene, infatti, che questa norma esprima la preferenza del legislatore per la tutela del bene costituzionalmente protetto della salute (art. 32 Cost.), anche a scapito dell'esigenza di tutela della giustizia.

Per tale ragione, si è escluso il reato nella condotta del medico che si limiti a diagnosticare la malattia e ad indicare la terapia, senza porre in essere condotte aggiuntive finalizzate specificamente a fuorviare le indagini e ad agevolare la latitanza del paziente. Sono state, pertanto, ritenute irrilevanti la mancata registrazione della visita effettuata in atti privati o pubblici, in quanto consistente in una mera irregolarità amministrativa, in mancanza di un obbligo di referto (v. Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 2005).

Viceversa, in altre ipotesi, più risalenti si è stabilito che si ha favoreggiamento e non omissione di referto, quando il sanitario non si limiti ad omettere l'invio del referto all'autorità giudiziaria ma ometta anche di compilare per la medesima persona, implicata in una rapina, la cartella, attivandosi inoltre, al di là della prestazione di cure ed assistenza dovute, nella ricerca di un radiologo e di una clinica privata, nella quale ricoverare il favorito (Cass. pen., Sez. VI, 24 gennaio 1983, Alfano, in Cass. pen., 1984, 1118), oppure ravvisando il delitto nella condotta del sanitario che, dopo aver estratto il proiettile ad un ricercato, ferito durante un'azione delittuosa, aveva compilato la cartella clinica relativa all'intervento, intestandola ad un nome falso (Cass. VI, 15 marzo 1985, Pelosio, in Cass. pen., 1986, 1544).

In dottrina, per individuare la linea di demarcazione tra la condotta penalmente rilevante e l'attività lecita del sanitario, si ricorre al concetto di normalità della prestazione – così come quella del difensore - ritenendo comunque, ad esempio, che il nascondimento del soggetto da curare integri un favoreggiamento.

Osservazioni

Il delitto di favoreggiamento personale, al di là forse delle stesse intenzioni del legislatore, a causa dell'infelice scelta terminologica effettuata per descrivere la condotta incriminabile, ricaduta sul verbo aiutare, finisce per dare adito a letture interpretative di troppo ampio raggio, prestandosi a dilatazioni applicative discutibili.

Vista l'indeterminata portata applicativa della norma, pertanto, è frequente che figure professionali, quali l'avvocato, il commercialista, il medico o il sarcedote, siano investite da procedimenti penali per tale tipologia di delitto, anche laddove le loro condotte siano non solo deontologicamente, bensì anche penalmente lecite.

Lo sforzo principale al quale viene sovente chiamata la giurisprudenza è pertanto quello di distinguere tra le attività lecite di tali professionisti e le condotte vere e proprie di favoreggiamento personale. In tale direzione si è rivolta la Corte di legittimità anche nel caso di specie, sottolineando quello che è il tratto distintivo della condotta materiale del reato di cui all'art. 378 c.p., caratterizzato da una condotta positiva di aiuto ad un terzo a sottrarsi alle ricerche dell'autorità o ad eludere le indagini, senza imporre invece un obbligo di favorire le ricerche e le indagini stesse. A ragionare diversamente, secondo la Corte, si finirebbe per sanzionare non tanto l'ausilio alla elusione bensì il non aver favorito le ricerche dell'Autorità.

La norma non è tesa, infatti, a punire l'omesso aiuto alle indagini, non imposto da alcuna norma di legge, bensì la condotta attiva di un positivo aiuto elusivo.

La suprema Corte passa perciò ad analizzare se l'eventuale mancato aiuto alle indagini da parte del sanitario possa integrare il diverso reato di omissione di referto ai sensi dell'art. 365 c.p., per aver violato l'obbligo imposto dall'art. 334 c.p.p., vista la incontroversa presenza di un fatto di reato perseguibile d'ufficio, ricavabile dalla consapevolezza da parte di medico che aveva prestato le sue cure che il ferimento del paziente si fosse verificato nel corso di un “regolamento di conti tra bande”, in un contesto di reciproca malavitosità.

Secondo il supremo Collegio, non può esservi dubbio che, stante l'identità del bene giuridico tutelato, laddove la condotta omissiva sia integralmente mirata a favorire il terzo, si debba ritenere che la meno grave ipotesi dell'omissione, sanzionata dall'art. 365 c.p., finisca per rimanere assorbita dalla condotta di favoreggiamento, che contiene tutte e due le azioni illecite, con l'aggiunta della finalizzazione dell'omissione all'elusione.

La suprema Corte in verità puntualizza di essere d'accordo con l'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità che ritiene che possano integrare la condotta materiale di favoreggiamento anche delle mere condotte omissive, purché finalizzate ad eludere le investigazioni, e salvo vi sia uno specifico obbligo giuridico di attivarsi.

Sotto questo profilo la motivazione in esame aderisce alla tesi della prevalente dottrina che ritiene che la mera condotta omissiva non possa integrare l'elemento materiale del reato di favoreggiamento, senza la violazione di uno specifico obbligo giuridico di attivarsi, perché ciò violerebbe lo stesso dettato normativo, dando luogo ad una inammissibile analogia in malam partem e non ad una mera interpretazione estensiva della lettera della norma, laddove ci si avvale del verbo “aiutare”.

Nel caso de quo pertanto la condotta omissiva del medico poteva astrattamente integrare la condotta materiale del reato di favoreggiamento personale stante l'obbligo giuridico imposto dall'art. 334 c.p.p. di procedere al referto in presenza di un reato procedibile d'ufficio, violazione sanzionata specificamente dal reato di cui all'art. 365 c.p.p. Sennonché, correttamente la Corte di merito, prima, e la suprema Corte, poi, sottolineano come il medico non fosse tenuto nel caso di specie all'obbligo di referto, stante quanto previsto dal secondo comma dell'art. 365 c.p., che esonera il sanitario dalla redazione del referto ogni qualvolta possa derivarne l'esposizione a procedimento penale per la persona alla quale egli ha prestato assistenza.

La Corte di legittimità ha avuto così modo di delimitare anche i reciproci rapporti tra il reato di omissione di referto e quello di favoreggiamento personale del sanitario che presti la sua opera professionale ad un latitante. A tale proposito i giudici di legittimità, dopo aver chiarito che in linea generale il reato di cui all'art. 365 c.p., laddove sia finalizzato a favorire il paziente ricercato, debba essere assorbito dal più grave reato di favoreggiamento personale, specificano, altresì, che per aversi una condanna per il reato di favoreggiamento di cui all'art. 378 c.p. occorre comunque una condotta ulteriore del medico, positivamente indirizzata a favorire l'elusione delle indagini da parte del paziente.

L'articolata e ben motivata decisione della suprema Corte consente pertanto una lettura costituzionalmente orientata del delitto di favoreggiamento personale, che in altri casi, in passato, si è prestato ad applicazioni estensive assai discutibili, ai limiti della violazione del divieto di analogia in materia penale.

Guida all'approfondimento

G. IADECOLA, Cura del latitante e favoreggiamento personale. L'esercizio della medicina tra la protezione della salute e il non intralcio – ed anzi la collaborazione - con la giustizia penale, nota a Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 2005, in Cass. pen., 2006, 1796
A. GULLO, Il favoreggiamento personale tra tendenze repressive e nuove esigenze di tutela, in Cass. pen., 1999, 3345.

D. PULITANÒ, Favoreggiamento personale tra diritto e processo penale, Milano, 1984, 37.

P. PISA, voce Favoreggiamento personale e reale, in Dig. disc. pen., vol. V., Torino, 1992, 162.

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