L'appropriazione indebita “bancaria” nell'ottica autonomistica del diritto penale

Gianluca Bergamaschi
13 Gennaio 2016

L'interrogativo è se commetta appropriazione indebita aggravata, ex art. 646, comma 3, c.p., o altro reato o nessun reato, l'impiegato di banca che, senza autorizzazione, movimenti delle somme accreditate su un conto, spostandole su altro conto e/o investendole nell'interesse altrui; ciò analizzando gli elementi costitutivi, specialmente la nozione del bene denaro, alla luce della dottrina e della giurisprudenza prevalenti e conformi al principio di autonomia del diritto penale.
Abstract

L'interrogativo è se commetta appropriazione indebita aggravata, ex art. 646, comma 3, c.p., o altro reato o nessun reato, l'impiegato di banca che, senza autorizzazione, movimenti delle somme accreditate su un conto, spostandole su altro conto e/o investendole nell'interesse altrui; ciò analizzando gli elementi costitutivi, specialmente la nozione del bene denaro, alla luce della dottrina e della giurisprudenza prevalenti e conformi al principio di autonomia del diritto penale.

La questione alla luce dei fondamentali del reato

La questione va considerata alla luce dei concetti fondamentali del reato, in primis della ratio, che non si identifica semplicemente con lo scopo di lucupletazione indebita dell'agente ma nella volontà di reprimere le condotte che, siano o no inadempimenti dal punto di vista civilistico, diano alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni del possesso (Cass. pen., Sez. unite, 28 febbraio 1989, Vita; Cass. pen., Sez. unite, 7 luglio 1989,Cresti), avvalendosi, proditoriamente, della condizione di possessore legittimo della res, considerata per il suo valore intrinseco, in caso di beni infungibili, e per il suo valore rappresentato in caso di denaro, ciò in quanto il bene giuridico direttamente ed immediatamente tutelato è la concreta possibilità di limitare l'uso della cosa e di recuperarne il possesso da parte del titolare.

Tale considerazione influenza anche la nozione di altruità, da intendersi non necessariamente come il diritto di proprietà civilistico, ma come il diritto attualmente ed immediatamente poziore rispetto a quello del possessore, ossia una facoltà giuridica comunque estrinsecatesi nella possibilità immediata di pretendere un uso determinato e di ottenere la restituzione della res o del suo valore; situazione che ben può riferirsi ad un soggetto che civilisticamente non sia considerato proprietario, così come stabilito anche da Cass. pen., Sez. unite, 27 ottobre 2004 (dep. 19 gennaio 2005), n. 1327 ove si dice che il concetto di "altruità" nel delitto di appropriazione indebita non va determinato con riferimento all'istituto civile della "proprietà", ma in base alla ratio della disposizione incriminatrice di volta in volta presa in esame, che per il reato di cui all'art. 646 c.p. "deve essere individuata nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa, altresì nel caso che si tratti di una somma di denaro.

Inoltre, nel caso del bene denaro, l'altruità può ravvisarsi anche solo nell'obbligo, gravante sul debitore, di tenere le somme (non le singole monete) sempre a disposizione del creditore, così come di farne un uso determinato, ossia nel vincolo di scopo nell'interesse del titolare; anche perché solo ciò è in grado di spiegare e valorizzare l'esplicita menzione del denaro nell'art. 646 c.p., quale possibile oggetto del reato, datosi che il danaro è il bene fungibile per eccellenza, cosicché, civilisticamente, nella dinamica giuridico-economica della sua circolazione, passa sempre in proprietà di chi lo riceve, per effetto della confusione patrimoniale dovuta alla consegna, effetto che, ai fini penali, si considera evitato proprio in virtù del predetto vincolo di scopo o del limite d'utilizzo, i quali determinano il passaggio del possesso penale disgiunto dalla proprietà (Cass. pen., 25 ottobre 1972, Girelli; Cass. pen., 17 giugno 1977, Pomar; Cass. pen., 16 aprile 1985, Fugaroli; Cass. pen., 3 marzo 1989, Barbuto; Cass. pen., Sez. unite, 27 ottobre 2004 (dep. 19 gennaio 2005), n. 1327.

C'è, poi, la nozione di possesso, in senso penale, inteso come la disponibilità concreta della cosa, giuridica o materiale, fuori dalla sfera, anche solo ideale o potenziale, di controllo del titolare della stessa, il tutto contenuto nei limiti definiti dal titolo costitutivo del possesso, in contrapposizione alla nozione di detenzione intesa, sempre in senso penale, come disponibilità “concreta” della cosa, giuridica o materiale, entro la sfera, anche solo ideale o potenziale, di controllo del titolare.

Abbiamo, infine, la nozione di appropriazione, intesa come il comportarsi uti dominus rispetto alla cosa posseduta, ossia travalicare i limiti d'azione, implicitamente o esplicitamente, posti ed imposti dal titolo costitutivo del possesso, con ciò conseguentemente ledendo il diritto poziore del titolare da cui egli deriva la possibilità immediata di pretendere un uso determinato e di ottenere la restituzione della res o del suo valore.

La teoria più risalente e quella attualmente prevalente

Tali essendo i concetti fondamentali e gli elementi costitutivi del reato, non è accettabile la tesi tradizionale – oggi minoritaria e recessiva nella giurisprudenza – secondo la quale il reato non sarebbe mai configurabile in caso di appropriazione del denaro del cliente, da parte della banca o di un suo dipendente, per difetto di altruità.

In sostanza – sulla scorta dell'identificazione dell'altruità, con l'altrui diritto di proprietà, così come delineato dal codice civile – si nega la possibilità giuridica del reato, in quanto il cliente conclude con la banca un contratto di deposito irregolare, per effetto del quale, civilisticamente, la proprietà del denaro passa alla seconda ed il primo conserva solo un diritto di credito alla restituzione del tantundem eiusdem generis, quindi nessuna condotta abusiva operata dalla banca o da un dipendete potrebbe configurare appropriazione indebita o furto nei confronti del cliente, giacché costui non è proprietario del denaro e dunque manca la componente dell'altruità della res.

Tale impostazione, però, va respinta giacché, non rispettandone l'autonomia, non soddisfa le esigenze proprie del diritto penale e, specificatamente, quelle della ratio penalistica dell'art. 646 c.p., ossia la volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso, quindi sono, necessariamente, tale titolo e tali ragioni che concretizzano la nozione di altruità, in quanto permettono di identificare, tra i soggetti coinvolti, chi, per il diritto penale, sia titolare del diritto attualmente poziore, che è poi la vera essenza della nozione di altruità.

Inoltre, la dottrina e la giurisprudenza già richiamata, identificano un ulteriore requisito necessario ad integrare la nozione di altruità laddove sia coinvolto il denaro, vale a dire la sussistenza del vincolo di scopo o di destinazione impresso allo stesso al momento della dazione e che, vincolando l'uso che il possessore possa farne, impedisce, nella prospettiva penale, la confusione patrimoniale ed il relativo passaggio della somma nella proprietà del ricevente.

Ora è fuor di dubbio che nella prospettiva socio-economica, che è quella considerata dal diritto penale nella sua immanente e fondamentale funzione di tutela dell'ordine pubblico, quando qualcuno affida il proprio denaro alla banca, non intende privarsi della proprietà dello stesso, ne la banca è preoccupata della qualifica civilistica da darsi alla sua disponibilità, quello che conta, per il primo, è che il suo denaro/valore venga custodito, tenuto sempre a disposizione e movimentato a sua richiesta, pur consentendo, per il resto, che la banca ne faccia gli usi suoi propri, mentre a quest'ultima interessa possedere il denaro, che confluisce nella massa monetaria di cui dispone, per variamente commerciarlo. Ne consegue che, dal punto di vista socio-economico, il cliente resta titolare delle somme di denaro accreditategli, mentre la banca ha la disponibilità pratica e concreta delle stesse nella massa monetaria, col vincolo, però, che ciò non intacchi le prerogative garantite al cliente, quali il ritirare i soldi quando crede, salvo un preavviso tecnico, il movimentare le somme in uscita solo dietro suo comando e lasciarle ferme in caso contrario, ecc., con il che si concretizza il c.d. diritto poziore, giacché risulta ben chiaro che la dinamica giuridico-economica attribuisce non alla banca ma al cliente/titolare del conto corrente la facoltà di decidere la sorte delle somme accreditate, cosicché è costui ad essere tutelato dall'art. 646 c.p., anche se, dal punto di vista squisitamente civilistico, è titolare di un mero diritto di credito, che, quindi, dal punto di vista penale, ben è compatibile con il concetto di altruità.

Ciò considerato, unitamente alla nozione di possesso come supra delineata, possiamo dire che, ai fini penali, quando il cliente deposita del danaro in banca, egli resta titolare/proprietario delle somme accreditate, ossia del valore del denaro, mentre la banca acquisisce il possesso dello stesso, perché, pur con i limiti predetti, ne ha l'autonoma disponibilità e la facoltà giuridica di utilizzo nell'ambito della massa monetaria, ne consegue che se, dall'interno dell'istituto di credito, qualcuno pone in essere una condotta appropriativa, ossia un uso che travalichi i limiti e i vincoli predetti ed in contrasto con le ragioni del possesso (ad esempio, spostando somme da un conto di un cliente a quello di un altro senza la debita autorizzazione), al fine di ingiusto profitto, allora non è dubitabile che sia stata commessa, per lo meno, un'appropriazione indebita aggravata a danno del cliente medesimo.

Tale impostazione è da tempo assunta anche dalla giurisprudenza (Cass. pen., 24 febbraio 1994, Nardecchia; Cass. pen., 8 novembre 1987, Merlo; Cass. pen., 18 luglio 1988, Curta; Cass. pen., 28 giugno 1988, Centa Marin), che afferma la sussistenza dell'appropriazione indebita nella condotta del dirigente di banca che, travalicando i suoi poteri, accrediti sul conto corrente di un cliente del denaro della banca.

In tal caso, infatti, da punto di vista civilistico non si ha fuoriuscita del denaro dalla formale proprietà della banca, giacché al cliente viene riconosciuto solo un diritto di credito, cosicché, seguendo l'impostazione qui rifiutata, si dovrebbe escludere l'inconfigurabilità del reato, che invece si considera sussistente proprio in forza del ragionamento supra descritto.

Del resto, contro la chiarezza e l'incontrovertibilità di queste argomentazioni, poco può la tesi tradizionale “civilisticheggiante” e negatrice dell'autonomia del diritto penale, se non appunto invocare la tradizione o, sarebbe meglio dire, la “pigra abitudine”, quale vera ed unica ispiratrice di una sopravvalutata, mal riposta e mal intesa esigenza di “unità dell'ordinamento giuridico”, la quale negando l'evidente necessità di autonomia e distinzione tra fini e nozioni civili e penali, nega pure all'attività ermeneutica la possibilità di svolgersi nella massima pulizia concettuale e nella vivezza delle esigenze socio-economiche.

La tesi della ricorrenza del furto

Invero, di tanto in tanto vengono espressi dubbi, per altra via, sulla qualificazione giuridica del fatto di cui sopra, in quanto al dipendente bancario si vuole disconoscere la dimensione di possessore, per ricondurlo a quella di mero detentore, in quanto egli – unitamente all'istituto di credito, par di capire – non avrebbe la disponibilità neanche provvisoria della provvista dei conti correnti ma si limiterebbe ad eseguire le disposizioni del correntista, che, quindi, rimarrebbe possessore del conto, cosicché l'attività delittuosa andrebbe qualificata come furto aggravato e non appropriazione indebita; in tal senso si veda Cass. pen. Sez. IV, 10 luglio 1996 (dep. 19 agosto 1996), n. 1798, in cui si afferma che Il cassiere di un'agenzia bancaria non ha la disponibilità neanche provvisoria della provvista dei conti correnti dei clienti dell'istituto. Egli, nel momento in cui effettua il pagamento degli assegni, non esercita un libero atto di disponibilità ma si limita a compiere una mera attività di esecuzione di precise disposizioni del correntista, il quale rimane, in ogni momento, possessore e dominus della gestione del conto. Pertanto, risponde del reato di furto e non del delitto di appropriazione indebita, il cassiere che, con movimentazioni fittizie, effettui spostamenti o prelievi dai conti correnti dei clienti, sottraendo denaro alla disponibilità di costoro, nonché quello che, dopo avere richiesto alla sede centrale fondi maggiori di quelli necessari, gonfiando il fabbisogno giornaliero, s'impossessi del denaro contante che transiti nella cassa per fare fronte alle esigenze correnti, posto che egli di tali somme ha la mera, momentanea detenzione senza alcun autonomo potere di disposizione (nello stesso senso anche Cass. pen., Sez. V, 10 maggio 2007, n. 32543 e Gip tribunale di Trani, ordinanza cautelare del 13 agosto 2007).

La tesi, evidentemente, fa aggio sull'idea di parte della dottrina e della giurisprudenza, secondo la quale, per distinguere possesso e detenzione, sarebbe necessario un ulteriore elemento distintivo oltre quello dell'essere fuori o dentro la sfera di signoria/sorveglianza del titolare, richiedendosi, per il possesso, che l'agente abbia anche un qualche, anche minimo, potere legale di disporre dinamicamente della stessa, mentre, la detenzione, sarebbe caratterizzata dall'assoluta assenza di tale potere giuridico dispositivo.

Tale assunto non appare condivisibile, infatti, essendo la distinzione tra possesso e detenzione concepita per distinguere l'appropriazione indebita dal furto, essa si ricollega alla condotta realizzativa dei due reati, il primo mediante appropriazione, così come supra delineata, ed il secondo mediante sottrazione, intesa come movimentazione della cosa dal luogo in cui la collocò il titolare della stessa e finalizzata a distoglierla dalla diretta sfera di sorveglianza e signoria di quest'ultimo, per giungere all'impossessamento finale a scopo di profitto; ne consegue che, per aversi una detenzione occorre esclusivamente che la disponibilità concreta della res, giuridica o materiale, e la relativa condotta sottrattiva, avvengano nell'ambito dalla diretta sfera di sorveglianza, ideale o concreta, del titolare del diritto attualmente poziore, giacché è tale condizione che nel furto si vuole svellere al fine ultimo di trarre un ingiusto profitto dalla cosa medesima.

Se le cose stanno così, considerato che il tutto avviene al di fuori della sfera di controllo preventivo del titolare del conto, appare preferibile la lettura giuridica maggioritaria, che attribuisce la dimensione di possessore, in senso penalistico, anche al dipendente e la conseguente qualificazione del fatto come appropriazione indebita.

Del resto appare, poco praticabile la possibilità di spogliare la banca pure del possesso del denaro, dopo averle già negato, nella prospettiva penale, il diritto di proprietà; cosicché, se, per le suesposte ragioni, la banca possiede il denaro/valore del cliente/correntista/titolare e può disporne nella massa monetaria, pur nel rispetto dei limiti stabilita dal titolo, ciò non può avvenire che attraverso l'attività del dipendete, il quale, pertanto, necessariamente partecipa di tale possesso, penalisticamente considerato, realizzando una sorta di subpossesso o possesso immediato e diretto della res, in contrapposizione al possesso mediato ed indiretto della banca quale persona giuridica.

L'aggravante di cui all'art. 61, n. 11, c.p.

Resta da dire che ogni appropriazione indebita bancaria a danno del cliente, deve essere ricondotta all'ipotesi di cui al terzo comma dell'art. 646, c.p., ossia all'aggravamento ex art. 61, n. 11, c.p., con particolare riferimento all'abuso di prestazione d'opera, con il relativo aumento di pena e la procedibilità d'ufficio.

Tale conclusione appare obbligata solo che si consideri la ratio della norma quale punto di partenza ermeneutico, per poi passare all'individuazione dell'effettiva ricorrenza del quid pluris che giustifica l'aggravante.

Di regola, la ratio dell'aggravamento di pena viene fatta risalire alla violazione della fiducia, particolarmente insita nei rapporti in cui qualcuno s'impegni ad effettuare una prestazione a favore di un altro, cosicché se per effetto di ciò si determina la consegna di una cosa su cui, poi, è posta in essere la condotta appropriativa, abbiamo non solo la violazione dei limiti del possesso ma pure il tradimento subdolo della fiducia insita nell'impegno prestazionale.

Pertanto, perché abbia senso e quindi ricorra l'aggravante de qua, occorre che la res sia consegnata proprio in funzione dell'effettuazione di una prestazione, mentre non ricorre se la necessità di porre in essere una certa attività consegua, puramente e semplicemente, alla dazione ed al relativo possesso, nel qual caso resterà assorbita in esso e, anche a livello sanzionatorio, nella fattispecie semplice.

In altri termini, se il compimento di una data prestazione giustifica il possesso e ne costituisce il limite, allora ricorrerà l'aggravante, che invece non ricorrerà ove sia il possesso in se stesso a giustificare e determinare la necessità di una certa prestazione, ricavando aliunde la propria ragione, il proprio titolo costitutivo e limitativo.

Ne consegue che ricorre l'aggravante de qua nelle appropriazioni indebite bancarie, giacché, dal punto di vista socio-economico, nell'operazione di deposito di denaro in banca da parte del cliente/titolare, è il possesso acquisito dall'istituto di credito che è funzionale alle operazioni successive e non viceversa; attività che poi costituisce la prestazione professionale della banca e, al contempo, giustifica il possesso e ne stabilisce i limiti invalicabili, pena la realizzazione di una condotta appropriativa, che, se finalizzata all'ingiusto profitto, conduce alla realizzazione dell'appropriazione indebita.

D'altro canto, dottrina (Pedrazzi, Cipolla) e giurisprudenza (Cass. pen., 22 novembre 1960, Regestro), ritengono che, per l'operatività dell'aggravante, non è necessario che la relazione di prestazione d'opera ricorra direttamente tra il soggetto passivo del reato e la persona offesa; anche il rapporto intercedente tra l'autore e un terzo giustifica l'aggravamento di pena stabilito dalla stessa norma, quando ponga l'occasione del reato e ne agevoli l'esecuzione; è il caso, appunto, del dipendente della banca che, agevolato dalla sua posizione, ponga in essere movimenti abusivi, in quanto non autorizzati dal titolare, tra un conto e l'altro, giacché, così facendo, egli “tradisce” direttamente la banca per cui lavora e indirettamente anche il titolare che si affida alla banca ed a tutti i suoi dipendenti. (In linea generale, per l'affermazione che: Lo spostamento di denaro (…) da un conto all'altro dà luogo ad appropriazione indebita aggravata dall'abuso di prestazione d'opera, si vedano: Cass. pen., 9 novembre 1987, M.; Cass. pen., 26 novembre 1987, Giglio; Cass. pen., 13 ottobre 1989, Chiesa; Cass. pen., 2 ottobre 1987, Peruzzo; Cass. pen., 30 aprile 1988, Rossato; Cass. pen., 20 maggio 1988, Caruso; Cass. pen., 2 giugno 1988, Merlo; Cass. pen., 30 giugno 1988, Toscano; Cass. pen., 27 luglio 1988, Giorgetto; Cass. pen., 17 ottobre 1988, Manetti; Cass. pen., 7 luglio 1989, Cresti; Cass. pen., 28 novembre 1989, Gigliozzi; Cass. pen., 10 febbraio 1990, Pulvirenti).

In conclusione

Alla luce degli elementi costitutivi del reato di appropriazione indebita e considerate le tesi dottrinarie e giurisprudenziali prevalenti, è possibile affermare che il dipendete di una banca che, senza autorizzazione, movimenti delle somme accreditate sul conto del correntista, all'interno del patrimonio bancario, spostandole su altro conto e/o investendole nell'interesse proprio o altrui, dovrà rispondere del reato di cui all'art. 646, comma 3, c.p. e non di furto o di un semplice illecito civile e disciplinare.

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