La sospensione del processo con messa alla prova. Istituto di diritto sostanziale o processuale?

13 Marzo 2017

La sentenza affronta la questione relativa alla natura giuridica dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. Ci si chiede in particolare se lo stesso abbia natura sostanziale o processuale con tutte le conseguenze che ne discendono ...
Massima

L'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, pur avendo effetti sostanziali perché dà luogo all'estinzione del reato, è intrinsecamente caratterizzato da una dimensione processuale. Alla stregua di ciò è stato previsto un termine per la richiesta senza distinguere tra processi pendenti e processi nuovi. Conseguentemente, esercitando legittimamente la propria discrezionalità rispetto a un istituto processuale e non prevedendo alcuna disciplina transitoria, il Legislatore ha determinato la applicabilità alla sospensione con messa alla prova del principio del tempus regit actum e non l'applicazione retroattiva della lex mitior che, al contrario, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena.

Il caso

Un soggetto ha riportato in primo e secondo grado una condanna ai sensi e per gli effetti dell'art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990 per detenzione di 3,39 grammi di sostanza stupefacente di tipo hashish.

Il ricorso in cassazione dell'imputato è articolato in quattro motivi. In particolare, con il primo si deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione rispetto alla presunta attività di cessione a terzi, stante il mancato rinvenimento di strumenti e materiali necessari per lo svolgimento dell'attività di spaccio.

Inoltre, a corredo di un presunto uso personale, viene allegata documentazione del Ser attestante lo status di tossicodipendente del ricorrente.

Con il secondo motivo è chiesto l'annullamento della sentenza con rinvio alla Corte di appello per consentire all'imputato di beneficiare della sospensione del procedimento con messa alla prova che, attesa la sua natura di istituto di diritto sostanziale, sarebbe applicabile in base al principio del favor rei.

Il terzo motivo, viceversa, concerne la mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art 131-bis c.p., in ragione della occasionalità dell'evento, della personalità dell'imputato, del minimo disvalore della condotta e della esiguità del pericolo.

L'ultimo motivo, al contrario, ancora articolato sotto il profilo del vizio di motivazione, si duole del diniego del beneficio della non menzione.

La questione

La sentenza affronta due questioni egualmente importanti e che richiedono in questa sede qualche breve riflessione.

La prima concerne la natura giuridica dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova; ci si chiede in particolare se lo stesso abbia natura sostanziale o processuale con tutte le conseguenze che ne discendono.

La seconda questione attiene alla possibilità che il silenzio dell'imputato possa essere posto a fondamento di un giudizio negativo come nel caso di specie è stato alla base della negazione del beneficio della non menzione.

Le soluzioni giuridiche

Le soluzioni giuridiche offerte alle questioni prospettate in precedenza, pur non presentandosi in termini di discontinuità con gli orientamenti già precedentemente espressi in sede di legittimità, riaffermano negli specifici segmenti di riferimento principi di massima importanza.

Per quanto concerne la sospensione del procedimento con messa alla prova, la suprema Corte è stata chiamata ad intervenire in merito all'applicabilità o meno dell'istituto ai procedimenti in corso nei quali il termine processuale fosse maturato nonché, ovviamente, in merito alla natura giuridica dello stesso.

La soluzione fornita è sostanzialmente sovrapponibile al recente approdo della Corte costituzionale che, chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dell'art. 464-bis c.p.p, ha riconosciuto come il nuovo istituto abbia senz'altro effetti sostanziali, perché dà luogo all'estinzione del reato, ma è connotato da un'intrinseca dimensione processuale.

Esso, infatti, si caratterizza per essere un nuovo procedimento speciale deflattivo e dunque alternativo al giudizio ordinario- le norme del codice di rito sono per l'appunto inserite nel Libro VI a cui la legge 67 del 2014 ha introdotto il Titolo V-bis - nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.

L'art. 464-bis c.p.p. stabilisce dal canto suo i termini entro i quali, a pena di decadenza, l'imputato personalmente ovvero un suo procuratore speciale, possono formulare la richiesta di sospensione con messa alla prova e che nel rito monocratico a citazione diretta su cui è intervenuta la Consulta può essere chiesta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

La Corte costituzionale ha però dichiarato infondata la questione di legittimità, precisando come in una prospettiva processuale appaia comunque giustificata e ragionevole la scelta legislativa di non distinguere tra processi in corso e processi nuovi. La disciplina del termine, si ribadisce, attiene al processo ed è allo stato del processo che il legislatore ha inteso fare riferimento e sotto questo aspetto ben può dirsi che ha trattato in modo uguale situazioni processuali uguali.

Peraltro, il termine entro il quale l'imputato può richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle caratteristiche e alla funzione dell'istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo (Corte cost., 7 ottobre 2015, n. 240).

La conclusione fatta propria dalla suprema Corte nella sentenza in commento sposa dunque pienamente la prospettiva della Corte costituzionale, sottolineando anch'essa come sia nella discrezionalità del Legislatore la predisposizione della disciplina temporale di nuovi istituti processuali o delle modificazioni introdotte in istituti già esistenti e che l'unico parametro cui il Legislatore è tenuto ad attenersi è la non irragionevolezza della scelta (Cfr. Corte cost., 10 marzo 2006, n. 455 e Corte cost., 8 marzo 2005, n. 91).

L'art. 464-bis c.p.p. riguarda esclusivamente il processo ed è espressione del principio tempus regit actum che potrebbe essere derogato da una diversa disciplina transitoria, la cui predisposizione rientra nella piena discrezionalità del Legislatore e la cui mancanza non appare censurabile alla stregua dell'art. 7 della Cedu.

Egualmente interessante è poi la questione attinente al diritto al silenzio attribuito dall'ordinamento all'indagato/imputato. La Corte, nello specifico, conferma la legittimità della scelta di costui di avvalersi della facoltà di non rispondere (nella specie in sede di interrogatorio di garanzia ai sensi dell'art. 294 c.p.p.), sancendo l'impossibilità di inferire da siffatto comportamento valutazioni negative. È proprio su questo presupposto che la Cassazione annulla con rinvio il provvedimento impugnato, atteso che i giudici di merito avevano negato il beneficio della non menzione motivandolo con l'essersi avvalso della facoltà di non rispondere da parte del ricorrente.

Osservazioni

Ribaltando l'ordine delle questioni prospettate, si può senz'altro partire, per maggiore praticità, da quella attinente al diritto al silenzio dell'indagato.

Come è noto, gli articoli 64 ss. c.p.p. contengono le regole relative all'interrogatorio di volta in volta richiamate dalle disposizioni che specificamente concernono la posizione dell'indagato o dell'imputato all'interno del procedimento.

Per quello che qui interessa, in particolare, l'art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p., consente all'indagato/imputato di avvalersi della facoltà di non rispondere, fatta eccezione per le domande relative alle generalità e a tutto quanto necessario alla completa identificazione (art. 66 c.p.p.).

Nessuno ha mai seriamente dubitato della portata della normativa in commento, al punto che può ritenersi pacifica non solo la facoltà di non rispondere ma addirittura quella di mentire. Tuttavia si è più volte posto il problema se la scelta difensiva potesse in qualche modo riverberarsi sulle sorti future della parte. Per esempio, in materia di misure cautelari personali, è granitico l'insegnamento che riconosce all'indagato la facoltà di non rispondere o di non collaborare senza che da ciò possa derivare alcuna prognosi sfavorevole in ordine al pericolo di reiterazione di reati, o altra conseguenza negativa. Ovviamente non potrà beneficiare degli eventuali benefici che possono legittimamente derivare dalla collaborazione (Cass. pen., Sez. VI, 24 settembre 2008, n. 38139).

Sotto altro profilo la questione è stata oggetto di attenzione in materia di ingiusta detenzione e riparazione dell'errore giudiziario. L'art. 314, comma 1, c.p.p (in materia di ingiusta detenzione) e l'art. 643, comma 1, c.p.p (in materia di riparazione per errore giudiziario) prevedono che la somma a titolo di riparazione sia dovuta nel caso in cui il soggetto non vi abbia concorso con dolo o colpa grave. A questo proposito si è più volte ribadito come l'esercizio, da parte dell'indagato, della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio, la reticenza e persino la menzogna costituiscono legittimo esercizio del diritto di difesa può rilevare rispetto all'accertamento del dolo o della colpa grave idonei a escludere il diritto a una equa riparazione solo quando l'interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare (Cass. pen., Sez. IV, 12 novembre 2008, n. 47041; ma anche Cass. pen., Sez. III, 9 novembre 2011, n. 44090 e da ultimo Cass. pen., Sez. III, 2 aprile 2014, n. 29967).

D'altronde, opinando diversamente, non si comprenderebbe fino in fondo la scelta del Legislatore di attribuire un diritto alla persona soggetta all'accertamento processuale per poi penalizzarla una volta che di tale diritto ne faccia esercizio.

A ben vedere è proprio questo l'orientamento correttamente ribadito nella pronuncia in commento che ha negato che l'esercizio della facoltà di non rispondere possa costituire elemento idoneo a giustificare il mancato riconoscimento del beneficio della non menzione.

Venendo all'altro e ancor più rilevante tema affrontato, giova in questa sede ribadire come la sospensione del procedimento con messa alla prova per gli imputati maggiorenni, pur essendo di recente introduzione, è un istituto che ha originato un vivo dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza. Introdotto con la l. 28 aprile 2014, n. 67, la relativa disciplina è contenuta negli artt. 168-bis - 168-quater c.p., che ne definiscono i presupposti, i contenuti e gli effetti; e negli artt. 464-bis - 464-novies, 657-bis c.p.p. e ancora gli artt. 141-bis e 141-ter disp. att. c.p.p. che invece contemplano la disciplina processuale.

Dal punto di vista sostanziale la messa alla prova assume la connotazione di una causa di estinzione del reato subordinata ad una serie di condotte del richiedente. In particolare essa si caratterizza per l'imposizione all'imputato maggiorenne che ne abbia fatto richiesta di comportamenti finalizzati all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove ciò sia possibile, il risarcimento del danno e l'affidamento al servizio sociale con un particolare programma. La concessione della messa alla prova è poi subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (art. 168-bis c.p.) e solo all'esito positivo della prova, che non può avere durata superiore a due anni, il giudice dichiara estinto il reato per cui si procede (art. 168-ter c.p.).

A fronte di questi caratteri dell'istituto, dal punto di vista processuale la richiesta può essere presentata anche a mezzo di procuratore speciale rispettivamente: fino a quando non siano state formulate le conclusione in udienza preliminare ove la stessa sia prevista; fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel rito monocratico a citazione diretta e nel giudizio direttissimo; entro il termine di 15 giorni dalla notifica del decreto di fissazione di giudizio immediato; nell'atto di opposizione a decreto penale di condanna. Infine è prevista la possibilità di presentare la richiesta di ammissione alla messa alla prova anche nel corso delle indagini preliminari ed è questo il caso in cui è richiesto il consenso del pubblico ministero.

Come si evince dalla ricostruzione che precede, l'istituto si pone a cavallo tra diritto sostanziale e diritto processuale ma la prevalenza dell'una o dell'altra natura non è scevro di ricadute di carattere pratico soprattutto in mancanza di un regime transitorio per i processi in cui già vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento.

Se si ritiene infatti che la messa alla prova sia un istituto di diritto penale sostanziale o comunque si considera prevalente l'effetto estintivo del reato, dovrebbe trovare applicazione la disciplina contenuta nell'art. 2, comma 4, c.p. e dunque il principio della retroattività della lex mitior. In questa ipotesi, allora, il termine stabilito dall'art. 464-bis, comma 2, c.p. non opera nei processi in corso, per i quali ai sensi dall'art. 2, comma 4, c.p. la nuova causa di estinzione del reato deve trovare applicazione con riferimento a tutti i fatti-reato pregressi a prescindere dal termine processuale

Viceversa, nel caso in cui si ritenga esclusiva (o prevalente) la natura processuale dell'istituto si applicheranno le regole generali in materia di successione di norme processuali e conseguentemente il principio del tempus regit actum alla cui stregua lo sbarramento procedurale di cui all'art. 464-bis, comma 2, c.p.p. assumerebbe un preciso significato intertemporale.

Il punto è stato oggetto di molteplici interventi giurisprudenziali, non tutti coerenti tra loro. Le prime decisioni di merito hanno riconosciuto natura sostanziale all'istituto della messa alla prova, con conseguente restituzione in termini ex art. 175 c.p.p. degli imputati per i quali, erano ormai scaduti i termini per la richiesta di probation (cfr. ad esempio trib. Torino, ord. 21 maggio 2014, e anche tribunale di Genova, ord. 7 ottobre 2014).

Nella giurisprudenza di legittimità, al contrario, l'orientamento assolutamente dominante è stato nel senso di ritenere prevalente la natura processuale della messa alla prova.

Infatti, malgrado qualche iniziale apertura all'opzione più sensibile alle istanze degli imputati (su tutte Cass. pen., sez IV, 9 luglio 2014, n. 30559 che aveva rimesso la questione della natura giuridica della sospensione del procedimento con messa alla prova alle Sezioni Unite considerata la delicatezza della materia e di soluzioni interpretativa di radicale contrasto afferenti il regolamento di diritti di rilievo costituzionale), successivamente si è sempre affermata la natura processuale o prevalentemente processuale, negando per tale via la possibilità di chiedere la messa alla prova per reati commessi prima della novella ma i cui procedimenti fossero già oltre l'apertura del dibattimento (Cass. pen., Sez. fer., 31 luglio 2014, n. 35717; Cass. pen., Sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897 ove si fa riferimento al provvedimento del Primo presidente che rispetto alla prospettata remissione alle Sezioni unite ha restituito gli atti alla sezione remittente; Cass. pen., Sez. III, 14 aprile 2015 n. 22104).

In altri termini, nella giurisprudenza di legittimità, vista la prevalenza del profilo processuale dell'istituto il regime transitorio è stato disciplinato dai principi generali della successione di norme processuali e quindi si è applicato il criterio del tempus regit actum. (Cass. pen., Sez. V, 30 settembre 2015 n. 43009).

L'orientamento granitico della suprema Corte non ha però trovato pacifico accoglimento in sedei di merito, ove si è continuato a ritenere la natura prevalentemente sostanziale della messa alla prova. Tuttavia, ritenuta la impossibilità di superare in via interpretativa l'ostacolo frapposto dall'art. 464-bis c.p.p all'applicabilità della disciplina ai processi in corso per i quali il relativo termine fosse spirato, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale.

In particolare, il tribunale di Torino ha sollevato la questione di legittimità costituzionale , dell'art. 464-bis, comma 2, c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24, 111, 117 Cost., art. 7 Cedu poiché, in mancanza di una disciplina transitoria, non consente agli imputati di processi pendenti in primo grado nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell'entrata in vigore della l. n. 67 del 2014, di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova (trib. di Torino, Sez. V, ord. 28 ottobre 2014).

La Consulta, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale, pur sottolineando gli effetti sostanziali dell'istituto ne ha valorizzato la [...] intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio.

Corollario di questo assunto è la non operatività dell'istituto per i processi in corso per il quale il termine di apertura del dibattimento fosse maturato.

La Corte, come peraltro riportato nel paragrafo relativo alle soluzioni giuridiche, ha ritenuto pienamente legittima e ragionevole la parificazione della disciplina del termine per richiedere il probation, senza prevedere alcuna rimessione in termini per quegli imputati i cui processi siano già in una fase successiva alla apertura del dibattimento.

Per quanto concerne invece la paventata violazione degli artt. 117 Cost. e art. 7 Cedu, si è sottolineato come la preclusione sia conseguenza del normale regime temporale della norma processuale atteso che l'art. 464-bis c.p.p. riguarda esclusivamente il processo, senza alcuna violazione del principio di retroattività della legge penale favorevole.

Del resto, si precisa, nel caso di specie la retroattività non verrebbe in gioco in quanto è stata la stessa Corte europea ad aver fissato i paletti di applicazione di tale canone, stabilendo che esso concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono (Corte Edu, Grande camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia) e non le ipotesi, quali la messa alla prova prive di un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto (Corte cost., 22 luglio 2011, n. 236).

Il provvedimento della Corte costituzionale testé richiamato, con buona pace di quanti soprattutto in dottrina sottolineavano la natura sostanziale della sospensione del processo con messa alla prova, avrebbe dovuto risolvere definitivamente la questione nel senso della prevalente natura processuale della sospensione.

Tuttavia appare doveroso menzionare in questa sede la recente pronuncia delle Sezioni unite, precedente alla sentenza in commento e avente ad oggetto la questione relativa alla necessità di computare o meno le circostanze nell'ambito dei limiti edittali di cui all'art. 168-bis c.p.

Ivi, infatti, pur a fronte di un richiamo alla pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost., n. 240 del 2015) e alla accentuata dimensione processuale dell'istituto della messa alla prova, si sottolinea come di esso debba essere riconosciuta, soprattutto, la natura sostanziale di istituto che persegue scopi special-preventivi in una fase anticipata (Cass. pen., Sez. un., 1 settembre 2016, n. 36272).

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