La nozione di profitto confiscabile nelle ipotesi di reato in contratto

13 Settembre 2016

Il caso in esame si inserisce nell'ambito di un più ampio procedimento cautelare relativo alle indagini su un'associazione per delinquere realizzata da esponenti di enti pubblici e da alcuni privati, finalizzata ad intervenire stabilmente nei procedimenti di gara, attraverso varie modalità illecite, garantendo l'affidamento di una serie incarichi sempre ai medesimi professionisti, senza seguire le procedure previste dalla legge.
Massima

Per individuare il profitto assoggettabile alla confisca di cui all'art. 19 del d.lgs. 231/2001, quando il profitto stesso sia derivato dalla realizzazione di un reato in contratto al prezzo indicato nel contratto (dunque al "lordo") dovranno essere defalcate le somme riscosse dall'ente pari alla effettiva utilità conseguita dal danneggiato, id est al valore della prestazione di cui la controparte si sia effettivamente avvantaggiata in esecuzione di un contratto sinallagmatico.

Nella commisurazione del valore della utilità conseguita dal danneggiato, non si può in alcun modo tenere conto del margine di guadagno per l'ente, dell'utile d'impresa che – almeno fisiologicamente – compone il corrispettivo pagato per la prestazione.

Il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte de[ve] essere commisurato ai soli costi vivi, concreti ed effettivi, che l'impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all'obbligazione contrattuale, non potendo computarsi nel valore della utilitas conseguita dalla controparte anche il margine di guadagno per l'ente esecutore .

Il caso

Il caso in esame si inserisce nell'ambito di un più ampio procedimento cautelare relativo alle indagini su un'associazione per delinquere realizzata da esponenti di enti pubblici e da alcuni privati, finalizzata ad intervenire stabilmente nei procedimenti di gara, attraverso varie modalità illecite, garantendo l'affidamento di una serie incarichi sempre ai medesimi professionisti, senza seguire le procedure previste dalla legge.

In tale contesto è stata ravvisata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di truffa in capo ad un amministratore di una società che aveva ottenuto il conferimento di incarichi inerenti la rilevazione e gestione del rischio ambientale in assenza di una procedura negoziata, attraverso l'alterazione delle date, degli importi delle delibere a contrarre e dei contratti, nonché mediante il frazionamento artificioso della commessa, così da evitare le procedure previste per i contratti con soglia superiore ai 40.000 euro. Per tali fatti è stato disposto dal giudice per le indagini preliminari, e confermato dal tribunale del riesame, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato anche per equivalente nei confronti dell'ente, a norma del combinato disposto degli artt. 53 e 19del d.lgs.231 del 2001.

Sia il Gip che il tribunale hanno determinato il profitto in termini pari all'importo concordato e liquidato quale corrispettivo del contratto oggetto di truffa. I giudici di merito, infatti, hanno ritenuto che la stipulazione dei contratti era volta non a soddisfare l'interesse pubblico dell'ente, bensì ad assicurare un determinato fatturato alla società privata, così piegando l'operato dell'ente pubblico agli interessi esclusivamente privatistici, in violazione delle disposizioni di diritto pubblico e dei principi anche di rango costituzionale che dovrebbero connotare l'operato della pubblica amministrazione, primo fra tutti quello di cui all'art. 97 Cost. Pertanto, i negozi in esame sarebbero risultati interamente contaminati da illiceità e, conseguentemente, il profitto ingiusto andrebbe individuato in una somma pari all'intero compenso illecitamente percepito dalla società.

Avverso l'ordinanza ha presentato ricorso in Cassazione il difensore della società, impugnando l'ordinanza per motivi concernenti non il fumus boni iuris ma solo il quantum di profitto confiscabile.

La questione

La principale questione ermeneutica affrontata dalla sentenza in commento consiste nella determinazione del profitto confiscabile, con particolare riferimento a quelle ipotesi in cui il fatto sia realizzato nel corso di un'attività lecita d'impresa nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato. La decisione in esame appare significativa in quanto sviluppa e specifica i risultati ermeneutici cui erano pervenute le Sezioni unite in una importante decisione di alcuni anni precedente (Cass. pen., Sez. un., n. 26654/2008), affrontando analiticamente il tema delle componenti strutturali del profitto confiscabile, rispetto al quale la stessa giurisprudenza di legittimità era andata poco oltre all'ambito definitorio. In particolare, i giudici della Cassazione concentrano la loro analisi sul tema, sin ad ora analizzato esclusivamente in talune elaborazioni dottrinali (MONGILLO), della determinazione del valore della utilitas conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, unica voce scomputabile dal complessivo valore del negozio e, quindi, sottratta all'ablazione.

Per giungere alla definizione della questione ermeneutica sopra descritta, la Corte ripercorre puntualmente i passaggi salienti del dibattito dottrinale e giurisprudenziale degli ultimi anni sulla nozione di profitto nelle varie forme di confisca, con particolare riguardo per la confisca di cui all'art. 19 del d.lgs. 231/2001. Tale ipotesi di misura ablatoria, come è noto, risulta essere inserita tra le sanzioni principali irrogabili all'ente, presentandosi, dunque, come misura in cui convivono le tradizionali finalità di prevenzione speciale, consistenti nell'esigenze di scongiurare che la disponibilità dei proventi dell'illecito possa mantenere viva l'attrattiva dell'illecito e costituire occasione per commettere nuove condotte criminose, con finalità di prevenzione generale, che in una prospettiva di analisi economica del diritto intendono dar vita ad una controspinta all'illecito, incidendo proprio sulla propensione della persona giuridica ad orientare le proprie scelte sulla base di un'analisi costi/benefici, cui si affianca unafinalità riequilibratrice, dal momento che l'ablazione del profitto tende a ricomporre lo status quo economico antecedente alla consumazione del reato. Tale commistione di funzioni nell'ambito di un'unica misura ha determinato l'insorgere di nuove vie nella definizione dell'ambito di applicazione del provvedimento ablatorio, soprattutto per quanto concerne la delimitazione dell'area del profitto assoggettabile a vincolo reale.

Come si è detto le Sezioni unite, intervenute a dirimere la questione interpretativa concernente l'ampiezza della nozione di profitto di cui all'art. 19 d.lgs. 231/2001, con particolare rifermento alla deducibilità dei costi sostenuti dall'autore per realizzare il vantaggio economico, hanno tentato di tracciare i principi generali in punto di commisurazione del profitto suscettibile di confisca-sanzione. Sul punto, i giudici ribadiscono, in linea generale, l'orientamento tradizionale che ritiene che l'oggetto della confisca sia il profitto lordo, poiché il profitto va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l'utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico. Il crimine, si afferma, non rappresenta in alcun ordinamento un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato.

Tuttavia, a tale criterio vengono introdotte significative deroghe in ragione non solo della funzione che la specifica ipotesi di confisca intende perseguire ma anche del contesto in cui si è realizzato il fatto illecito e delle caratteristiche strutturali emergenti dalla vicenda.

Infatti, può pervenirsi a diversi esiti interpretativi nelle ipotesi in cui il fatto sia realizzato nel corso di un'attività lecita d'impresa nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato.

In tale contesto, infatti, il fatto tipico può realizzarsi nell'ambito di rapporti contrattuali di natura sinallagmatica. Al riguardo, la Corte richiama la tradizionale distinzione tra reati contratto, in cui vi è una immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest'ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità con l'effetto che il profitto che ne deriva è interamente assoggettabile a confisca; e reati in contratto, in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale. In tali categoria di reati è dunque possibile distinguere gli aspetti qualificati dalla legge penale come illeciti, dagli aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.). Da ciò discende la conseguenza che il profitto corrispondente agli aspetti leciti del rapporto contrattuale non può essere confiscabile ma risulteranno aggredibili i soli proventi direttamente ricollegabili ai momenti patologici del negozio (Cass. pen., Sez. un., n. 26654/2008).

Così, ad esempio, risulterebbe riconducibile all'ipotesi del c.d. reato contratto il caso in cui il reato si sostanzi in un'attività integralmente illecita, come l'associazione finalizzata ad attività di narcotraffico, fonte di responsabilità per l'ente, ex art. 24-ter del d.lgs. 231/2001. Al contrario, andrebbe qualificata come reato in contratto l'ipotesi in cui l'illecito si inserisca nella fase della negoziazione e stipula di un contratto sinallagmatico, cui l'ente abbia poi dato regolare e lecita esecuzione, come nei casi di truffa in danno dello Stato o di corruzione, fonte di responsabilità per l'ente rispettivamente ex artt. 24 e 25 stesso decreto. In tale ultimo caso il corrispettivo erogato dall'ente per una prestazione effettivamente realizzata dall'appaltatore non può considerarsi profitto del reato, in quanto trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure. Così, nell'ambito dei reati in contratto il profitto è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente(Cass. pen., Sez. un., n. 26654/2008).

Tuttavia, in dottrina (GRASSO, MONGILLO) la scelta di utilizzare l'utilità percepita dal danneggiato come parametro per determinare le somme deducibili dal profitto lordo nell'ambito dei rapporti sinallagmatici è stata criticata, in quanto si tratterebbe di una entità economica dai contorni incerti che in talune ipotesi potrebbe portare addirittura ad escludere del tutto la confiscabilità del corrispettivo pagato dalla persona offesa. Si pensi ad esempio ai casi in cui, per ottenere l'aggiudicazione di un appalto, un'impresa corrompa un pubblico ufficiale, per essere privilegiata sugli altri concorrenti ma senza alterare il prezzo pattuito. Ebbene, si rileva come in questi casi la somma complessivamente percepita dall'ente sarebbe perfettamente bilanciata dal valore della controprestazione erogata alla P.A. e, dunque, applicando il criterio statuito dalle Sezioni unite, non vi sarebbe alcun profitto da confiscare.

Proprio su tale questione, relativa alla determinazione del valore della utilitas conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, quale voce sottratta all'ablazione, è intervenuta la decisione in esame. In particolare, i dubbi ermeneutici, evidenziati dalla dottrina (MONGILLO), cui la Corte ha inteso rispondere consistono nel determinare se tale utilità possa essere calcolata avendo riguardo:

  • al prezzo della prestazione indicato nel contratto;
  • al valore di mercato di essa;
  • ai costi effettivamente sostenuti dall'impresa per dare esecuzione alla prestazione, ricostruibili sulla base della contabilità obbligatoria e dei bilanci oggetto di revisione contabile, ovvero dei costi medi delle imprese del medesimo settore per dare esecuzione a quella tipologia di prestazione.
Le soluzioni giuridiche

La scelta tra i vari criteri, nella prospettiva della Corte, va compiuta prendendo in considerazione il principio informatore che accomuna le differenti finalità perseguite dall'ipotesi di confisca in esame, consistente nel principio del crimen non lucrat, in virtù del quale si deve escludere che il responsabile dell'illecito possa conseguire un vantaggio economico dallo stesso.

Il primo passaggio del percorso argomentativo della Corte consiste dunque nell'espungere le prime due soluzioni, in quanto sia il prezzo della prestazione indicato nel contratto sia il valore di mercato della prestazione sono grandezze che necessariamente includono anche un margine di guadagno per l'ente, consistente nell'utile di impresa. Adottando uno di tali criteri per determinare l'utilitas conseguita dalla controparte assoggettabile a confisca, infatti si produrrebbe, come si è detto, il paradossale esito di escludere la stessa configurabilità di un profitto confiscabile nelle ipotesi in cui la prestazione dedotta nel contratto viziato dalla attività illecita sia correttamente adempiuta.

Dunque, secondo la Corte, il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte che può essere scomputato dalle somme assoggettabili a confisca deve essere commisurato ai soli "costi vivi", concreti ed effettivi, che l'impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all'obbligazione contrattuale.

La determinazione dei costi vivi andrà effettuataconsiderando, da un lato, le risultanze della contabilità e dei bilanci dell'ente, dall'altro lato, il costo di mercato di quella tipologia di prestazione, avuto riguardo ai valori medi del settore, ciò al fine di evitare di dedurre dal profitto confiscabile anche quei costi che siano stati artatamente maggiorati o sopravvalutati dall'impresa, proprio per conseguire maggiori introiti “gonfiando i costi” sostenuti.

Una stima equitativa dei costi utilmente sostenuti dovrà essere effettuata anche nelle ipotesi di esecuzione inesatta o parziale della prestazione. Ciò si verificherà, ad esempio, nell'ipotesi in cui, dopo aver ottenuto tramite un accordo corruttivo l'appalto per la costruzione di un edificio, l'impresa lo realizzi solo in parte o in modo non conforme a quanto pattuito. Ebbene in tali ipotesi non tutti i costi sostenuti per la realizzazione della prestazione parziale potranno essere dedotti da profitto confiscabile, ma solo l'ammontare che si sia tradotto in un'effettiva utilità per la controparte. Per fare ciò, dunque, occorrerà determinare il costo pro quota stimato equo per la prestazione in effetti eseguita e di cui la controparte si sia utilmente giovata e sottrarre solo tale valore al profitto lordo (in senso contrario, v. in dottrina MONGILLO, che sostiene come l'utilità delle somme investite per eseguire una prestazione contrattuale è circostanza che merita di essere considerata nella sua sede naturale, quella civilistica, dove i soggetti danneggiati da un'esecuzione inesatta, parziale o totalmente difforme, ben possono far valere le proprie ragioni risarcitorie e restitutorie).

Il concetto di profitto confiscabile nelle ipotesi di reati in contratto risultante dalle specificazioni contenute nella sentenza in esame, dunque, pur non corrispondendo al profitto lordo non coincide nemmeno con il concetto aziendalistico di profitto netto, in quanto l'individuazione dei costi detraibili è effettuata secondo parametri che sottendono giudizi valoriali e sono funzionali alla realizzazione delle finalità politico-criminali perseguite dalla misura di ablazione patrimoniale presa in considerazione.

Sulla base di tali considerazioni la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata che aveva erroneamente ritenuto confiscabile l'intero corrispettivo previsto dal contratto, senza dedurre da tale somma gli eventuali costi vivi, concreti ed effettivi, che l'impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all'obbligazione contrattuale.

Osservazioni

Con la sentenza in esame la Corte di cassazione sembra colmare talune delle più vistose lacune nella definizione del profitto confiscabile derivanti dalla precedente pronuncia delle Sezioni unite, rimediando alle incertezze proprie della nozione di utilità conseguita dal danneggiato cui deve essere commisurata l'entità della somma detraibile dal profitto lordo. Infatti, la decisione in commento riesce nel difficile compito di individuare una nozione più definita di profitto confiscabile, maggiormente aderente alle esigenze di precisione che devono caratterizzare la norma penale tanto nella parte precettiva quanto in quella sanzionatoria, pur non entrando in contraddizione con il precedente indirizzo delle Sezioni unite.

Pur concentrandosi, infatti, sul versante dei costi sostenuti dall'autore del reato, individuando quali di questi possono essere dedotti dal profitto lordo, la Corte utilizza tali grandezze per determinare il valore della utilità conseguita dal danneggiato, che rappresenta il parametro utilizzato dalle Sezioni unite. Si spiega così infatti la scelta di ammettere la deducibilità dei soli costi utili, gli unici che si traducono in un'effettiva utilità per il danneggiato, con esclusione di quei costi eccessivi o relativi ad adempimenti inesatti o parziali.

Tale soluzione, a nostro avviso, appare condivisibile, poiché in questo modo si esclude che l'autore possa giovarsi del suo inadempimento deducendo dalla nozione di profitto confiscabile l'intero ammontare dei costi sostenuti. Chiaramente, la confisca delle somme così calcolate dovrà effettuarsi, secondo quanto disposto dallo stesso art. 19 d.lgs. 231 del 2001, facendo salva la parte di profitto illecito che può essere restituita al danneggiato.

In questo modo, pur mantenendo un'unitarietà di indirizzo con la precedente elaborazione giurisprudenziale, la Corte aderisce sostanzialmente ad una nozione di profitto confiscabile in gran parte coincidente con quella di profitto netto a base parziale sostenuta da parte della dottrina (MONGILLO), discostandosene esclusivamente con riferimento alla deducibilità dei soli costi utili.

Guida all'approfondimento

ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, in Aa. Vv.,Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. Dolcini – C.E. Paliero, III, Milano, 2006, 2103 ss.;

GRASSO, Art. 240 c.p., in Romano - Grasso - Padovani (a cura di), Commentario sistematico del codice penale, vol. III, Milano, 2011, 605 ss.;

MONGILLO, I mobili confini del profitto confiscabile nella giurisprudenza di legittimità, in Dir. pen. cont.

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