Limiti del giudizio di legittimità in relazione alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti

Enrica Accardo
14 Aprile 2016

In tema di patteggiamento, il sindacato del giudice di merito in ordine all'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. è limitato alla valutazione circa l'esistenza, evidente, di una delle cause di non punibilità previste dalla stessa norma, mentre, quello del giudice di legittimità ha margini ancora più ristretti.
Massima

In tema di patteggiamento, il sindacato del giudice di merito in ordine all'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. è limitato alla valutazione circa l'esistenza, evidente, di una delle cause di non punibilità previste dalla stessa norma, mentre, quello del giudice di legittimità ha margini ancora più ristretti. Con riferimento, invece, all'erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza la possibilità di ricorrere per Cassazione è limitata ai casi di errore manifesto, restando escluse tutte le ipotesi in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità.

Il caso

Gli imputati venivano tratti a giudizio per i reati di truffa aggravata per la natura pubblica del destinatario e corruzione; patteggiavano, tutti, per le imputazioni loro ascritte, una pena superiore a due anni e venivano loro applicate le sanzioni accessorie previste dagli artt. 29, comma 1, 32-quinquies, 32-bis e 32-ter c.p., nonché veniva disposta, nei confronti di due soltanto degli imputati, la confisca delle utilità indicate in decisione.

Avverso la decisione del Gup interponevano ricorso per Cassazione tutti gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia; il P.G. concludeva: nei confronti di un imputato per l'annullamento senza rinvio della sentenza, limitatamente alle sanzioni accessorie applicate; nei confronti di altri due degli imputati per la rideterminazione della misura delle sanzioni accessorie ex art. 32-bis e 32-ter c.p.; infine per l'annullamento della sentenza, con riferimento alla confisca, riguardo agli imputati nei cui confronti la stessa era stata disposta.

Concludeva, infine, per la reiezione delle altre doglianze e per l'inammissibilità degli altri ricorsi.

La questione

Le questioni che la Corte si trova a prendere in esame sono molteplici; la prima di queste concerne l'istituto del c.d. patteggiamento con riguardo all'accordo delle parti ed ai limiti del sindacato del giudice. Come è noto, infatti, tale istituto processuale prevede un accordo del pubblico ministero e dell'imputato in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, alla concorrenza e comparazione delle circostanze, all'entità della pena. Con riferimento a tale accordo, mentre il giudice del merito può solo limitarsi a valutare la congruità della pena e l'esistenza, evidente, di una delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p., la Corte di legittimità ha margini ancor più ristretti, non potendo in alcun modo entrar nel merito delle pattuizioni, né con riguardo alla congruità della pena né con riguardo al titolo di reato, a meno che questo non sia palesemente erroneo.

Incidentalmente la Corte si sofferma, quindi, sulla immediata applicabilità dell'art. 129 c.p.p. nell'ambito del patteggiamento e sui conseguenti limiti che incontra il controllo di legittimità sul punto.

Sempre avendo riguardo alle peculiarità del rito speciale in questione, viene poi sottoposto alla valutazione della Corte il giudizio di congruità della pena applicata, avuto riguardo al diverso e più favorevole trattamento garantito dall'accordo ratificato da altri imputati la cui posizione è ritenuta di maggior disvalore complessivo.

Infine si analizza la problematica delle sanzioni accessorie con riferimento alla pena che il giudice di merito deve tenere in considerazione ai fini dell'applicazione delle stesse ai sensi dell'art. 445, comma 1, c.p.p., avendo altresì riguardo all'obbligo di motivazione di cui è gravato il giudice di merito in caso di applicazione della confisca.

In motivazione

F.G., quanto al reato di cui al capo A3, contestando la qualificazione dello stesso in termini di truffa aggravata per la natura pubblica del destinatario della truffa, id est società M.M. s.p.a., che non poteva essere ritenuta tale, con la conseguente natura semplice della truffa contestata e l'applicabilità dell'art. 129 per l'assenza di querela”.

S.P.A., D.G., G., tutti con la difesa dell'Avvocato D. V., avuto riguardo al capo S, che andrebbe qualificato quale corruzione impropria piuttosto che propria in linea con quanto statuito in sede di abbreviato dal medesimo Gup nel trattare la posizione relativa al coimputato C. e in coerenza con il dato emergente dall'attività d'indagine.

D.V., con i motivi aggiunti pervenuti il 25 novembre 2015, rivendicando la qualifica di mero incaricato di pubblico servizio che andava ascritta all'imputato, mero dipendente della M.M. s.p.s. tale da rendere incompatibile l'applicazione dell'art. 319 c.p. ritenuta dal primo giudice ratificando il patto.

S. G.G., quanto al capo A7 in ragione del mancato coinvolgimento nella imputazione portata a giudizio del soggetto dotato della qualifica pubblica originariamente coinvolto nella imputazione (il C.), estromissione che, in ragione già di quanto emergente del capo di imputazione, rendeva non configurabile il reato di cui all'art. 353 comma I cod. pen.

D.F., quanto al capo A8 (imputazione ex art. 353 cod. pen.) per avere quest'ultimo in aperto contrasto con la sentenza, nella quale indistintamente si parla di ammissioni rese da tutti gli indagati, sempre contestato il disvelamento di informazioni riservate comunicate dal pubblico ufficiale alla impresa S. e riversate dal ricorrente nella offerta veicolata dalla S., così da risultare trascurati gli argomenti a contrario addotti dall'imputato e dare luogo ad un evidente difetto di motivazione rispetto all'obbligo di cui all'art. 129 cod. proc. pen. conclusione resa ancor più evidente considerando l'assenza di puntuali riferimenti rispetto al ruolo svolto nel concorso dall'imputato e la genericità delle condotte, tra quelle tipizzate nell'art. 353 cod. pen., descritte nel capo d'imputazione.

nel caso di specie la pena applicata non può ritenersi illegale solo perché filtrata dalle considerazioni afferenti il diverso rilievo ponderale da ascrivere ad altri imputati, più gravemente coinvolti nelle situazioni delittuose portate a giudizio.

al D. , condannato per diverse ipotesi di corruzione propria, delitti ex art. 353 cod. pen., truffa aggravata, falso ex art. 479, oltre alla pena detentiva, è stata irrogata la sanzione accessoria della interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e quella della estinzione del rapporto di lavoro o impiego nei confronti di amministrazioni o enti pubblici. il dispositivo contiene anche una duplicazione della prima sanzione (delimitata temporalmente alla medesima durata della pena, frutto evidente di un mero errore materiale destinato integralmente a cadere in ragione di quanto si evidenzierà da qui a poco sulla sorte in sé della sanzione).

agli imputati S. condannati per diverse ipotesi di truffa , delitti ex art. 353 cod. pen., falso e corruzione impropria(per queste ultime, tre risultano consumate, quelle di cui ai capi I, M, S, in data successiva alla novella apportata dalla legge 190 del 2012: si veda quanto indicato a pag. 46) è stata disposta l'interdizione dai pubblici uffici per anni cinque; quella temporanea dagli uffici direttivi, per la durata uguale a quella della pena principale applicata; infine, per il medesimo arco temporale quella della incapacità a contrattare con la P.A.

come, con la puntualità che connota l'intera requisitoria, ha evidenziato la Procura Generale, nella decisione vi è un diffuso riepilogo dei diversi provvedimenti di sequestro resi nel corso del procedimento avuto riguardo ai beni di volta in volta sottoposti a vincolo in termini di valore corrispondente a quanto ritenuto prezzo o profitto dei rispettivi reati.

Le soluzioni giuridiche

Risulta evidente dall'analisi delle questioni giuridiche sopra evidenziate che le principali questioni che la Corte si è trovata ad affrontare hanno riguardo all'istituto del patteggiamento e alle sue peculiari caratteristiche; in particolare, con riferimento ai limiti in cui incorre il giudice di legittimità in ordine all'erronea qualificazione del fatto contestato, la Corte afferma il principio secondo cui il ricorso in Cassazione è esperibile nei soli casi in cui l'erronea qualificazione del fatto sia manifesta, onde evitare che accordi sulla pena si trasformino in accordi sui reati; è al contrario escluso tutte le volte in cui, invece, sussistano margini di opinabilità e le censure si leghino ad approfondimenti argomentativi che presuppongano valutazioni in fatto precluse alla Corte. Ma vi è di più, nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, il mero richiamo all'art. 129 c.p.p. è sufficiente a far ritenere che il Giudice abbia verificato ed escluso la presenza di cause di proscioglimento; di conseguenza, sussiste un vizio di motivazione, censurabile in sede di legittimità, solo e soltanto, se dal testo della sentenza la causa di non punibilità appaia evidente.

Posti tali principi, il ricorso di D. è stato ritenuto inammissibile implicando valutazioni di merito estranee al giudizio di legittimità, mentre con riferimento al ricorso di G.S., oltre a tali considerazioni, a parere della Corte, nel caso di specie il giudice di merito ha adeguatamente motivato in ordine alla rilevanza delle questioni emarginate.

La Corte ha ritenuto poi inammissibile anche la doglianza addotta nell'interesse del D. sotto il profilo della congruità della pena; secondo la Corte è, infatti, ammissibile un vaglio di legittimità solo nel caso si versi in ipotesi di penale illegale.

Da ultimo, vertendosi in un'ipotesi di applicazione di una pena superiore a due anni, la Corte si è soffermata sulla problematica questione dell'applicazione, ex art. 445, comma 1, c.p.p. delle pene accessorie.

Secondo la Corte, sulla scorta di un indirizzo già consolidato, il giudice di merito, trattandosi di reati uniti dal vincolo della continuazione, in primis avrebbe dovuto prendere in considerazione la pena base stabilita per il reato più grave (e non quella finale comprensiva degli aumenti per la continuazione) e, al netto delle riduzioni operate, compresa quella afferente il rito, qualora fosse addivenuto ad una pena sotto la soglia dei tre anni prevista dall'art. 29 c.p., sarebbe risultata impedita l'applicazione della interdizione temporanea dai pubblici uffici; nei confronti del ricorrente, infatti, non opera il disposto di cui all'art. 317-bis c.p., oggi vigente (applicabile oltre ai reati di cui agli artt. 314 e 317 c.p. anche ai reati p. e p. dagli artt. 319 e 319-ter c.p.), perché i fatti di corruzione allo stesso ascritti sono stati consumati tutti in epoca antecedente l'entrata in vigore della legge 190/2012.

Osservazioni

Sebbene la sentenza in commento sia stata ritenuta dai primissimi commentatori significativa principalmente perché ha annullato con riferimento alle pene accessorie una sentenza di merito che non aveva tenuto conto dello spartiacque fissato dalla legge Severino, a parere di chi scrive, tale pronuncia principalmente costituisce un valido riferimento in ordine ad innumerevoli questioni giuridiche che la Corte di legittimità si è trovata ad affrontare in ordine all'istituto del patteggiamento.

Pur non sottovalutando il fatto che la Corte, con la pronuncia in oggetto, contribuisca a chiarire che per i fatti di corruzione commessi in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge 190/2012 non sia consentito applicare l'interdizione dai pubblici uffici nel caso in cui la pena da applicare (esclusi gli aumenti per la continuazione) sia inferiore ai tre anni (operando in tal caso il limite previsto dall'art. 29 c.p.), si ritiene, tuttavia, che la stessa assuma preminente rilievo con riferimento ai profili processuali trattati, riguardanti l'istituto del patteggiamento; come già accennato, infatti, la sentenza affronta molteplici problematiche concernenti tale istituto ribadendo, e riepilogando efficacemente, importanti principi enunciati nel tempo dalla stessa Corte in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Posta la natura negoziale dell'istituto, in primis si evidenziano con chiarezza limiti che incontrano il giudice di merito prima, ed il giudice di legittimità poi, nella valutazione dell'accordo intervenuto tra le parti, in secondo luogo si analizzano, proprio con riferimento a tali limitati poteri del giudicante, le inevitabili ricadute dal punto di vista motivazionale (Cass., Sez. III, 24 giugno 2015, n. 34902; Cass., Sez VI, 1 aprile 2015, n. 15927; Cass, Sez. III, 13 febbraio 2013, n. 10286).

Tutti profili che molto da vicino interessano l'attività quotidiana del difensore, sia nella delicata fase in cui, valutata l'opportunità di scegliere tale rito premiale per contenere le eventuali conseguenze sanzionatorie, si trova a sottoporre al pubblico ministero una proposta di accordo, sia nella fase, altrettanto delicata, in cui si trova ad esercitare quell' irrinunciabile potere di controllo sulla motivazione del giudice attribuitogli dalla legge, seppur con tutti i limiti che discendono dalle caratteristiche dell'istituto.

Guida all'approfondimento

DE GASPERIS, La rideterminazione della pena illegale nel patteggiamento, in Cass. pen., 10, 2015, p. 3784;

DOLCINI, Appunti su corruzione e legge anti – corruzione, in Riv. It. Dir. E proc. pen., fasc. 2, 2013, p. 527.

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