Ammissibilità del rimedio risarcitorio ex art. 35-ter ord. pen. in caso di detenzione inumana

Pasquale Bronzo
15 Gennaio 2016

In caso di richiesta ex art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen. avverso il provvedimento di inammissibilità adottato de plano dal magistrato di sorveglianza unico mezzo di impugnazione è il ricorso per cassazione e non il reclamo al tribunale di sorveglianza nel contraddittorio delle parti.
Massima

In caso di richiesta ex art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen. avverso il provvedimento di inammissibilità adottato de plano dal magistrato di sorveglianza unico mezzo di impugnazione è il ricorso per cassazione e non il reclamo al tribunale di sorveglianza nel contraddittorio delle parti, perché la declaratoria di inammissibilità de plano adottata eventualmente fuori dai casi previsti impone che la richiesta venga esaminata dal magistrato nel giudizio partecipato di primo grado, recuperando il contraddittorio espressamente previsto, e non dinanzi al tribunale saltando un grado di merito.

Pur avendo il legislatore ricondotto il pregiudizio derivato al detenuto dalle condizioni inumane e degradanti della carcerazione a quello più generale dell'esercizio dei diritti del soggetto ristretto, derivante dall'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni dell'ordinamento penitenziario, attraverso il richiamo del comma 1 dell' art. 35-ter all'art. 69, comma 6, lett. b) ord. pen., le caratteristiche di gravità e attualità del pregiudizio indicate da tale ultima norma non costituiscono presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorío compensativo che può essere richiesto dal detenuto al magistrato di sorveglianza a norma del comma 1 e 2 dell' art. 35-ter ord. pen.

Il caso

Il magistrato di sorveglianza dichiara inammissibile l'istanza con la quale un detenuto chiedeva di essere risarcito ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. (art. 1 d.l. 92/2014 conv. nella l. 117/2014) per la detenzione patita in condizioni inumane (art. 3 Cedu). Il magistrato ha ritenuto che il presupposto per il risarcimento nella forma specifica della riduzione di pena (di competenza del magistrato di sorveglianza) sia l'attualità del pregiudizio al momento della richiesta, previsto dalla disciplina generale delle competenze del magistrato di sorveglianza (art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen., richiamato dall'art. 35-ter ord. pen.).

Il detenuto ricorre per Cassazione, contestando che il rinvio dell'art. 35-ter, comma 1, ord. pen. al pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen. si riferisca anche ai presupposti di gravità ed attualità del pregiudizio, ritenendo che presupposto per proporre il reclamo al magistrato di sorveglianza sia soltanto l'attuale stato di detenzione dell'istante e la prospettazione delle circostanze di fatto dalle quali desumere l'esistenza del pregiudizio da condizione detentiva inumana e degradante.

Il procuratore generale chiede di qualificare il ricorso per cassazione come reclamo al tribunale di sorveglianza (ex art. 568, comma 4 c.p.p.) e di trasmettere gli atti al predetto tribunale; il ricorrente contesta la richiesta, rilevando che nella specie l'istanza del detenuto è stata dichiarata inammissibile, con decreto, all'esito di un vaglio de plano effettuato ai sensi dell'art. 666, comma 2, c.p.p. e che avverso quest'ultimo tipo di decisioni lo stesso art. 666 c.p.p. prevede la ricorribilità per Cassazione.

La questione

L'art. 35-ter ord. pen. disciplina due tipologie di rimedi diretti a riparare il pregiudizio derivante a detenuti ed internati da condizioni detentive contrarie all'art. 3 Cedu.

Il primo (commi 1 e 2) è destinato ai detenuti che stiano subendo un pregiudizio grave ed attuale ai propri diritti, in conseguenza delle condizioni detentive in cui si trovano, i quali possono ottenere dal magistrato di sorveglianza, una riparazione in forma specifica, consistente in uno “sconto” della pena da espiare. In alternativa – nel caso in cui il pregiudizio sia stato inferiore ai 15 giorni o lo “sconto” sia maggiore del residuo di pena – un risarcimento in forma monetaria.

Il secondo rimedio (comma 3) si rivolge a coloro che abbiano finito di scontare la pena detentiva o abbiano subito il pregiudizio durante una custodia cautelare non computabile nella pena, i quali possono rivolgersi entro sei mesi dalla cessazione della pena o della custodia cautelare al tribunale civile per ottenere un risarcimento monetario.

La decisione affronta due diverse questioni interpretative riguardanti l'istituto.

La prima (preliminare) è se, rispetto ad un provvedimento con il quale il magistrato di sorveglianza dichiara inammissibile il reclamo giurisdizionale proposto ex art. 35-ter ord. pen., vale per il detenuto che voglia dolersi della decisione, la previsione del reclamo al tribunale di sorveglianza (ed eventualmente contro quest'ultima decisione il ricorso per cassazione per violazione di legge) contenuta nei commi 4 e 5 dell'art. 35-bis ord. pen. (norma generale del procedimento di reclamo), oppure se, essendo quel reclamo riservato alle decisioni monocratiche che si siano pronunciate sul merito dell'istanza, accogliendola o respingendola, il detenuto possa proporre direttamente ricorso per cassazione avverso il decreto di inammissibilità, come prevede l'art. 666, comma 2, c.p.p.

La seconda, se la condizione detentiva degradante debba essere attuale al momento della proposizione dell'istanza, affinché il detenuto possa ottenere il risarcimento in forma specifica del pregiudizio subito ex art. 35-ter ord. pen., attraverso la riduzione della pena residua.

Le soluzioni giuridiche

Quanto alla prima questione, la Corte nota come la disposizione disciplina specificamente solo il procedimento di competenza del giudice civile (comma 3), cosicché per il magistrato di sorveglianza il rito applicabile non può che essere quello del reclamo giurisdizionale exart. 35-bis ord. pen. (del resto, lo stesso comma 1 dell'art. 32-ter rinvia all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen., secondo il quale il magistrato segue il rito di cui al citato art. 35-bisord. pen.).

A sua volta, il procedimento di reclamo dell'art. 35-bis ord. pen. si svolge secondo le cadenze degli artt. 666 e 678 c.p.p., con le particolarità dell'impulso dell'interessato e, soprattutto, del doppio grado di giudizio di merito in contraddittorio: salvi i casi di manifesta inammissibilità, la decisione è reda all'esito dell'udienza, ed è soggetta a reclamo al tribunale di sorveglianza.

La possibilità di decidere de plano è perciò limitata alle eccezioni previste dallo stesso art. 35-bis, comma 1, ord. pen. ossia ai casi di manifesta inammissibilità exart. 666, comma 2 c.p.p. (richiesta manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero […] mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi. Quando cioè la ‘presa d'atto' dell'assenza delle condizioni di legge non richieda 'accertamenti' istruttori, né valutazioni discrezionali (Cass. pen., Sez. I, 11 giugno 2015, n. 43722). Violerebbe il contraddittorio l'anticipazione di una decisione sostanzialmente di merito, alla fase di delibazione preliminare, che si svolge senza contributi di parte

Orbene, secondo la Corte la decisione di inammissibilità è soggetta a ricorso per Cassazione e non a reclamo al tribunale, in quanto un'inammissibilità pronunciata de plano fuori dai casi previsti impone che, annullata la decisione, la richiesta venga esaminata nel giudizio partecipato di primo grado (così recuperando il confronto tra le parti eluso dall'erronea decisione del magistrato) e non già dinanzi al tribunale, con perdita di un grado di merito (Cass. pen., Sez. I, 14 maggio 2015,n. 35840; Cass. pen., Sez. I, 12 giugno 2015, n. 45376).

D'altronde, qui il tribunale dovrebbe – a fronte di una patente violazione del contraddittorio – provvedere exart. 604, comma 4, c.p.p., dichiarando la nullità del provvedimento e rimettendo le parti davanti al magistrato, con inutile dispendio di tempo e risorse.

Per questo, la richiesta del procuratore generale di riqualificazione del ricorso in reclamo al tribunale viene rigettata, il provvedimento è annullato senza rinvio e gli atti trasmessi al Magistrato di sorveglianza perché provveda alla trattazione della richiesta nel contraddittorio delle parti.

Quanto alla questione della attualità del pregiudizio derivante da condizione detentiva degradante ed alla sua incidenza sull'accoglibilità della richiesta risarcitoria, la sentenza nega che in mancanza di attualità – ossia nel caso che la situazione di sovraffollamento sia stata già risolta con provvedimenti dell'amministrazione o sia comunque cessata per qualsiasi causa - al detenuto spetti solo un risarcimento monetario.

Sia l'interpretazione letterale sia quella sistematica della normativa devono invece condurre a ritenere che il richiamo contenuto all'art. 35-ter, comma 1, ord. pen. al pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen. serve ad individuare la categoria del reclamo relativo alla violazione dei diritti inviolabili del detenuto ed a determinare il modello procedimentale applicabile ma non può essere riferito ai presupposti del pregiudizio in termini di necessaria attualità al momento della domanda e, ancor meno, della decisione.

Osservazioni

I due quesiti posti alla suprema Corte sono sciolti in modo convincente. Quanto alla prima questione (del rimedio esperibile avverso il provvedimento che dichiara inammissibile l'istanza di risarcimento) la soluzione adottata (che si tratti di provvedimento ricorribile in cassazione) si pone in contrasto con un'altra decisione, in cui la Corte è approdata a conclusioni diverse, sulla base della premessa secondo cui la valutazione dell'inattualità della condizione detentiva degradante, basata su una istruttoria, non attenga in realtà alla manifesta infondatezza, – motivo di inammissibilità ex art. art. 666, comma 2, c.p.p. – quanto piuttosto alla fondatezza, ossia al merito, della istanza medesima, e conduca dunque al rigetto, così rientrando nell'ambito applicativo del reclamo al tribunale di sorveglianza previsto dallo stesso art. 35-bis, comma 4, ord. pen. (Cass. pen., Sez. I, 11 giugno 2005, n. 43722); sostanzialmente sulla stessa linea Cass. pen., Sez. I, 17 dicembre 2014, n. 315, riguardante una fattispecie in cui veniva dichiarata inammissibile (ma con ordinanza) un'istanza che, in realtà, il magistrato aveva rigettato, nel merito.

Quanto alla seconda questione, della necessaria attualità del pregiudizio riparabile con la riduzione di pena, la decisione in esame sposa una delle due esegesi alternative che si sono fatte strada nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha evidenziato sul tema un (singolare) contrasto, tra due letture, coeve, offerte dalla medesima sezione della suprema Corte.

Vari gli argomenti che è possibile addurre a conforto della soluzione offerta. Anzitutto, pur postulando (questa la premessa della tesi attualista) che il richiamo all'art. 69, comma 6, lett b), ord. pen.si riferisca anche alle qualità (gravità ed attualità) del pregiudizio all'esercizio dei diritti conseguenza delle inosservanze dell'amministrazione che giustificano il reclamo, si potrebbe fondatamente affermare – come è stato notato in dottrina – che, in termini civilistici, il pregiudizio non va confuso con la condotta pregiudizievole (nel nostro caso la violazione della normativa penitenziaria). Il pregiudizio è piuttosto l'effetto dell'attività lesiva e, anche quando quest'ultima sia cessata, il primo rimane attuale sino a quando non è risarcito.

Ma il punto vero è che è assai opinabile che il rimedio di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 35-terord. pen. sia condizionato all'attualità, al momento del reclamo, della situazione detentiva contra legem. Militano contro di due ordini di considerazioni, fondate rispettivamente sulla ratio dell'istituto e sul testo normativo.

Quanto alla ratio: se la riduzione di pena fosse subordinata all'attualità del danno, verrebbe tradita la funzione di ristoro pronto ed effettivo del pregiudizio derivante dal sovraffollamento carcerario, che il d.l. 92/2014 ha inteso realizzare attraverso un rafforzamento complessivo degli strumenti tesi alla riaffermazione della legalità della detenzione con estensione dei poteri di verifica e di intervento dell'autorità giurisdizionale (Cass. pen. Sez. I,11 giugno 2015, n. 43722). Le domande risarcitorie originate dalla situazione di abnorme affollamento verrebbero dirottate verso il ristoro pecuniario.

Si noti che, nonostante la sentenza in esame affermi che al soggetto detenuto ma in condizioni non più lesive sarebbe accessibile la tutela risarcitoria di cui all'art. 35-ter comma 3, ord. pen. in realtà a tale soggetto, difficilmente potrebbe riconoscersi quella tutela civilistica speciale, riservata ai soggetti già scarcerati; per giungere ad una tale conclusione dovrebbe praticarsi una estensione analogica, in bonam partem, della disciplina dei comma 1 e 2 (come pure è stato proposto in dottrina).

Più facilmente, potrebbe sostenersi che questi soggetti debbano adire piuttosto il giudice civile in via ordinaria ex art. 2043 c.c. Ma in tal caso sarebbe poco giustificabile – anche dal punto di vista convenzionale e costituzionale – una soluzione che congeli eventualmente per anni la possibilità di indennizzo.

Quanto alla littera legis: il rinvio al pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen. oltre ad essere menzionato al comma 1 dell'art. 35-ter ord. pen., si riflette anche sul comma 3 con il richiamo al pregiudizio di cui al comma 1, ancorché sia evidente che la condizione detentiva risarcibile attraverso l'azione dinanzi al giudice civile non possa essere attuale. Così come il risarcimento di un pregiudizio inferiore a quindici giorni, che il comma 2 prevede in forma monetaria, non potrebbe mai essere attuale al momento della decisione.

Insomma, il legislatore riconduce nell'alveo dell'art. 69, comma 6, lett. b) ord. pen. il particolare pregiudizio derivante dal trattamento degradante perché si tratta di una forma aggravata di violazione dei diritti del detenuto ma ciò non autorizza a ritenere che la sua attualità sia condizione di accesso al rimedio risarcitorio.

In realtà, il requisito di questione si giustifica – soltanto - in relazione alle lesioni “comuni” dei diritti dei detenuti (di cui all'art. 69 ord. pen.) che danno luogo a rimedi di tipo inibitorio/preventivo, tesi a rimuovere la condizione di ostacolo alla fruizione del diritto. Detto in altre parole, laddove il magistrato provvede, ex art. 69, ord. pen. ordinando all'amministrazione di fare o non fare qualcosa (per consentire, ad es., il pieno esercizio del culto religioso, o l'effettivo mantenimento dei legami familiari, ostacolati da una non adeguata gestione penitenziaria) l'intervento giudiziario che incide sull'opera amministrativa per conformarla a legge presuppone l'attualità della situazione lesiva, senza la quale quell'ordine non avrebbe senso. Lo stesso vale quando si tratti di rimuovere una condizione di sovraffollamento che danneggia il detenuto attraverso l'assegnazione di una cella più idonea o attraverso la dislocazione dei detenuti. Ciò non vale, però, quando l'intervento del magistrato di sorveglianza sia invocato per ottenere il ristoro (in termini monetari o di riduzione del residuo di pena) di un pregiudizio già patito dal detenuto.

Guida all'approfondimento

GIOSTRA, Sub art. 35-ter,Ordinamento Penitenziario commentato, a cura di Della Casa-Giostra,.,V, CEDAM 2015, p.422.

DELLA BELLA, Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del nuovo rimedio introdotto dal d.l. 92/2014, Dir.Pen.Cont. online,13 Ottobre 2014, §12.

DEGANELLO, I rimedi risarcitori, in Sovraffollamento carcerario e diritti dei detenuti, a cura di CAPRIOLI E SCOMPARIN, Giappichelli, 2015, 257.

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