Evasione dai domiciliari: custodia cautelare in carcere, opzione normativa legittima e “sensata”

Enrico Campoli
15 Febbraio 2016

Il giudice può applicare la misura cautelare della custodia in carcere nell'ipotesi di evasione dagli arresti domiciliari, pur essendo per quest'ultima edittalmente prevista, ex art. 385, commi 1 e 3, c.p., una pena non superiore ai tre anni di reclusione.
Massima

Il giudice può applicare la misura cautelare della custodia in carcere nell'ipotesi di evasione dagli arresti domiciliari, pur essendo per quest'ultima edittalmente prevista, ex art. 385, commi 1 e 3, c.p., una pena non superiore ai tre anni di reclusione.

Il limite edittale stabilito dall'art. 385, commi 1 e 3, c.p. solo apparentemente si pone in contrasto con il confine stabilito dall'art. 275, comma 2-bis, seconda parte, c.p.p., secondo cui non può applicarsi la misura della custodia in carcere se il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni.

Quest'ultimo, difatti, disciplina espresse eccezioni tra cui quella che tra le condizioni di applicabilità delle misure coercitive prevede il superamento del divieto di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere per reati con pena non inferiore nel massimo ai cinque anni di reclusione (art. 280, comma 2, c.p.p.) in presenza di una trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare – (art. 280, comma 3, c.p.p.).

Il caso

L'imputato, ristretto agli arresti domiciliari, evade: il giudice per le indagini preliminari emette nei confronti dello stesso ordinanza applicativa della misura della custodia in carcere.

Il tribunale del riesame conferma il provvedimento restrittivo ritenendo che per l'ipotesi di reato dell'evasione (punibile ex art. 385, comma 1, c.p. con la pena da uno a tre anni di reclusione) –, è possibile l'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere sebbene l'art. 275, comma 2-bis, c.p.p. vieti tale restrizione nei casi in cui il giudice, all'esito del giudizio, ritenga irrogabile una pena non superiore ai tre anni.

L'imputato fa ricorso per cassazione lamentando, fra i vari aspetti, quello del divieto di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere per il delitto di evasione atteso il limite edittale di cui all'art. 275, comma 2-bis, seconda parte, c.p.p.

La questione

Il comma 2-bis dell'art. 275 c.p.p. è stato interamente riformulato dalla legge 117 dell'11 agosto 2014 (con modifiche rilevanti, in sede di conversione, del decreto legge 92/2014).

Oltre a statuire il divieto di applicazione di ogni misura custodiale (custodia in carcere; arresti domiciliari) in tutti i casi in cui il giudice dovesse ritenere che, all'esito del giudizio, il soggetto interessato possa ottenere il beneficio della sospensione condizionale della pena, il legislatore ha anche stabilito, limitatamente alla custodia in carcere, che quest'ultima non può trovare applicazione tutte le volte in cui, con prognosi anticipata, si ritenga che, per le contestazioni mosse, non sia irrogabile una pena detentiva superiore ai tre anni di reclusione.

Tale limite assume pregnante significato in relazione al delitto di evasione essendo per quest'ultimo prevista – nell'ipotesi non aggravata di cui ai commi 1 e 3 dell'art. 385 c.p. – una pena fino a tre anni di reclusione, inferiore, quindi, al limite, sopra individuato, dall'art. 275, comma 2-bis, c.p.p.

Nel dar luogo al divieto di applicazione della misura della custodia in carcere – palesemente finalizzato ad impedire che un soggetto possa patire anticipatamente la restrizione in carcere laddove al termine del processo, in forza della pena detentiva irrogata entro i tre anni di reclusione, usufruirebbe di misure alternative alla detenzione (art. 656 c.p.p.) – ci si è premurati di stabilire tutta una serie di dovute eccezioni.

Quest'ultime si individuano espressamente :

  • nell'indicazione nominativa dei reati (delitti ex artt. 423-bis, 572, 612-bis, 624-bis c.p. nonché tutti quelli di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario) per i quali non vige il divieto;
  • nell'impossibilità di accesso alla misura degli arresti domiciliari per la mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'art. 284, comma 1, dello stesso codice;
  • nel rimando a specifiche previsioni di legge, tipizzate dal comma 3 dello stesso art. 275 c.p.p. e dagli artt. 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, c.p.p.
Le soluzioni giuridiche

I giudici di legittimità nel rigettare il ricorso dell'imputato, riguardante anche altri aspetti qui non d'interesse, hanno affermato, implicitamente, il seguente principio di diritto.

La circostanza che per il delitto di evasione è contemplata una pena edittale inferiore a quella dei tre anni prevista dall'art. 275, comma 2 bis, c.p.p. non incide riguardo all'applicabilità per tale ipotesi di reato della custodia in carcere attesa l'espressa clausola di riserva contemplata dalla stessa norma: quest'ultima, difatti, lascia salve l'applicazione del comma 3 dello stesso art. 275, dell'art. 276 comma 1 ter e (rilevante, nel caso di specie) dell'art. 280, comma 3, che prevede l'ipotesi di colui il quale abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare.

Osservazioni

Si va sempre più consolidando l'orientamento di legittimità che sancisce la possibile applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nel caso di evasione dai domiciliari.

Pur a fronte di qualche diversa opinione in dottrina, sembra prevalere, prim'ancora delle motivazioni in punto di diritto, il semplice buon senso.

Sostenere, difatti, che un soggetto ristretto agli arresti domiciliari possa impunemente, e reiteratamente, evaderli senza che mai il comportamento trasgressivo adottato possa trovare un argine, concreto ed attuale, nella misura più grave della custodia in carcere costituisce un vulnus alla stessa credibilità dell'apparato normativo cautelare ed, in particolare, ad uno dei criteri strutturali, quale la gradualità, che lo disciplina.

Precedenti esperienze normative prive di flessibilità hanno determinato, proprio in tema di criteri di scelta delle misure cautelari personali, il necessario intervento del legislatore al fine di consentire, in situazioni nelle quali l'argine domiciliare si rivelava essere del tutto inconsistente, l'accesso all'extrema ratio della custodia in carcere (vedi, in tal senso, la legge 231 del 12 luglio 1999 introduttiva dei commi 4-ter e 4-quater dell'art. 275 c.p.p.).

Solo una lettura, formalistica e restrittiva, del disposto di cui all'art. 275, comma 2-bis, seconda parte, c.p.p., che affida alla prognosi del giudice la previsione dell'irrogazione di una pena definitiva non superiore ai tre anni di reclusione, potrebbe consentire una conclusione preclusiva dell'applicabilità della misura cautelare della custodia in carcere in relazione al delitto di evasione ponendo sullo stesso piano quanto strettamente legato alla sanzione finale con quanto è necessario affinché a quella definizione si giunga senza che nelle more le esigenze cautelari siano sacrificate oltremisura.

La prognosi affidata al giudice cautelare riguardo alla pena finale che sarà irrogata ha quale evidente scopo quello di non infliggere al soggetto interessato un “transito” carcerario allorquando lo stesso potrà ottenere, all'irrevocabilità della sentenza, un trattamento alternativo alla detenzione in carcere.

Tale finalità, legittimamente ed opportunamente perseguita dal legislatore, non può però essere in alcun modo confusa con quella sottesa all'applicazione delle misure cautelari personali, e ciò per due ordini di ragioni: la prima strettamente connessa proprio alla fase dell'esecuzione della pena irrogata (non superiore ai tre anni di reclusione) che prende in espressa considerazione il diverso regime cautelare degli artt. 284 e 285 c.p.p. e la seconda avente ad oggetto, con concretezza ed attualità, la salvaguardia delle esigenze ex art. 274 c.p.p. volta per volta individuate.

Per quanto riguarda il primo aspetto non può non essere evidenziato che l'art. 656, comma 9, lett. b), c.p.p. esclude espressamente la sospensione dell'esecuzione della pena non superiore ai tre anni di reclusione nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva mentre concede tale possibilità ai soggetti che al momento della irrevocabilità si trovano ristretti agli arresti domiciliari (comma 10) così sancendo una fondamentale “premialità” a chi ha rispettato il regime domiciliare non evadendo.

Relativamente al secondo aspetto ogni qualvolta le esigenze cautelari siano state individuate ed, in ossequio alla gradualità, la scelta è ricaduta su quella domiciliare ne consegue che il mancato rispetto della stessa, – purché non di lieve entità – necessita di una rivisitazione sotto il profilo dell'adeguatezza.

Pertanto, pure in presenza di una prognosi di una pena irrogabile, all'esito del processo, certamente non superiore ai tre anni di reclusione, – in quanto per il delitto di evasione ex art. 385, comma 1, c.p., è prevista una sanzione al massimo coincidente con tale limite – il giudice della cautela potrà dar luogo all'applicazione della custodia in carcere, salva ogni valutazione in concreto del comportamento trasgressivo.

È lo stesso art. 275, comma 2-bis, seconda parte, c.p.p. che prevede il rimando agli artt. 276, comma 1-ter e 280, comma 3, c.p.p.

Nel primo dei due casi il legislatore prevede l'aggravamento della misura domiciliare in corso con quella della custodia in carcere, salvo che il fatto sia di lieve entità (così come previsto dall'art. 276, comma 1-ter, c.p.p. novellato dalla legge 47/2015).

Nel secondo, invece, è specificamente prevista l'applicazione genetica della misura cautelare della custodia in carcere in quanto l'applicabilità della stessa solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni viene espressamente meno nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare, cioè anche di chi ha violato gli arresti domiciliari.

Tutte le volte in cui, pertanto, nella prassi applicativa un soggetto venga condotto dinanzi al giudice monocratico per il giudizio direttissimo in relazione all'arresto (in flagranza o fuori) per il delitto di evasione potrà allo stesso essere applicata, fatta salva la valutazione di lieve entità della trasgressione, la misura della custodia in carcere, in forza del combinato disposto di cui agli artt. 275, comma 2-bis, e 280, comma 3, c.p.p.

Ad altrettale conclusione potrà giungersi nel procedimento ove geneticamente al medesimo soggetto era stata applicata la misura domiciliare: anche in questo caso, difatti, fatta sempre salva la valutazione di lieve entità, potrà essere applicata la custodia in carcere in forza del combinato disposto di cui agli artt. 275, comma 2-bis, seconda parte e 276, comma 1-ter, c.p.p.

Guida all'approfondimento

MARI, Prime osservazioni sulla riforma in materia di misure cautelari, in Cass. pen., 7-8, 2015, 2538.

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