Attività medica d'equipe: nesso di causa e responsabilità del primario

Vittorio Nizza
15 Settembre 2016

Ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento (art. 41, comma 2, c.p.), il comportamento successivo può avere valenza interruttiva non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio che il garante è chiamato a governare.
Massima

Ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento (art. 41, comma 2, c.p.), il comportamento successivo può avere valenza interruttiva non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio che il garante è chiamato a governare: in effetti, tale eccentricità potrà rendere in qualche caso (ma non necessariamente) statisticamente eccezionale il comportamento ma ciò è una conseguenza accidentale, in quanto l'effetto interruttivo può e deve essere individuato in qualsiasi circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che, appunto, il garante è chiamato a governare. In questa prospettiva, in cui è la teoria del rischio a guidare nell'apprezzamento dell'eventuale effetto interruttivo, anche il fatto illecito altrui non esclude in radice l'imputazione dell'evento al primo agente, che avrà luogo fino a quando l'intervento del terzo, in relazione all'intero concreto decorso causale della condotta iniziale dell'evento, non abbia soppiantato il rischio originario; cosicché l'imputazione non sarà invece esclusa quando l'evento risultante dal fatto del terzo possa dirsi realizzazione sinergica anche del rischio creato dal primo agente.

Il caso

Il procedimento vedeva imputati per omicidio colposo i diversi sanitari che avevano avuto in cura la paziente dal suo ricovero in ospedale per un ascesso peritonsillare con edema fino all'esecuzione dell'intervento chirurgico per la rimozione dello stesso con esito infausto che aveva determinato il decesso della paziente.

In particolare dopo due giorni dal ricovero a seguito dell'ingravescenza della patologia, i sanitari decidevano di sottoporre la paziente ad un intervento chirurgico. Per pervenire ad un'anestesia totale, l'anestesista procedeva con la somministrazione del curaro per poi effettuare l'intubazione, tentata per due volte, ma senza esito. Il curaro avendo effetto miorilassante aveva determinato una paralisi dei muscoli respiratori con totale occlusione delle vie respiratorie. Si tentava allora tracheotomia di emergenza, ma senza esito, anzi provocando anche la lesione dell'esofago e di alcuni vasi. La paziente decedeva per arresto cardiocircolatorio seguito ad asfisia indotta farmacologicamente.

I sanitari venivano condannati in primo e secondo grado per omicidio colposo e venivano condannati, in solido con il responsabile civile, al risarcimento dei danni alle parti civili. Tutti gli imputati proponevano ricorso per Cassazione con motivi diversi a seconda del ruolo ricoperto durante il ricovero e l'esecuzione dell'intervento chirurgico alla paziente.

La questione

Le questioni che affronta la Corte nel valutare la responsabilità di tutti i sanitari coinvolti nella vicenda riguarda sono principalmente due: la valutazione del nesso di causa, poiché l'evento morte sarebbe stato determinato, secondo le ricostruzioni delle difese, esclusivamente da un errore imputabile all'anestesista; nonché la responsabilità di equipe, in particolare con riferimento alla posizione del primario della sala operatoria, il chirurgo che avrebbe poi dovuto eseguire l'intervento di rimozione dell'ascesso.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza affronta una situazione di intervento medico con esito infausto abbastanza peculiare. La paziente era stata ricoverata con una patologia correttamente diagnostica, la cui cura farmacologica non si era rivelata sufficiente e si era predisposto un intervento chirurgico per la rimozione dell'ascesso. L'esecuzione dell'intervento, però non sarebbe stata preceduta da tutti i necessari esami diagnostici, necessari per determinare l'esatta localizzazione e dimensione dell'ascesso, così da rendere più difficile e complesse le operazioni anestesiologiche. Secondo la ricostruzione delle perizie il decesso sarebbe stato causato da un errore dell'anestesista.

Il primo punto, pertanto, su cui si sofferma la Corte riguarda proprio la valutazione del nesso di causa. La sentenza, infatti, vedeva imputati tutti i sanitari che avevano avuto in cura la paziente, sia quelli che l'avevano visitata prima dell'intervento, sia i vari specialisti presenti in sala operatoria. La problematica pertanto si incentrava sulla valutazione della condotta dell'anestetista e se potesse essere considerato comportamento interruttivo del nesso di causa rispetto agli altri medici che comunque rivestivano una posizione di garanzia nei confronti della paziente.

La valutazione della suprema Corte si ricollega ad una recente pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. pen., Sez.unite, 24 aprile 2014, n. 38343) secondo la quale un comportamento può essere ritenuto interruttivo non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio che il garante è chiamato a governare. L'effetto interruttivo, quindi, può essere dovuto a qualunque circostanza introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare.

Il fatto illecito altrui, quindi, non esclude a priori l'imputazione dell'evento al primo agente ma solo nel caso in cui tenendo conto dell'intero concreto decorso causale dalla condotta iniziale all'evento la sua condotta abbia soppiantato il rischio originario. Qualora, invece, l'evento sia determinato da una sinergia tra il rischio creato dal primo agente e quello del soggetto terzo, che su questo si innesta, si avrà un concorso di cause con conseguente responsabilità di tutti i soggetti agenti.

La teoria del rischio si può applicare anche al caso di specie, ove vi era una prima condotta illecita dei terapeuti che avevano omesso di effettuare gli approfondimenti strumentali necessari per l'esatta individuazione della patologia ed il suo monitoraggio. Tali errori, però, rileva la Corte, non hanno avuto un ruolo rilevante nel verificarsi dell'evento, ruolo che eventualmente avrebbero potuto avere se l'intervento chirurgico fosse poi stato effettivamente eseguito. L'evento morte, invece, risultava essere stato determinato unicamente dal gravissimo errore dell'anestesista. La condotta del medico anestesista, a parere della Corte, costituisce un rischio nuovo e drammaticamente incommensurabile, tale da escludere il nesso causale in relazione alle condotte degli altri medici.

Secondo la Corte, poi, l'unica posizione che richiede un ragionamento differente è, invece, quella del primario, entrando così nella seconda problematica, quella relativa alla responsabilità di equipe. Dagli atti di indagine, infatti, sarebbe emerso che il primario ebbe ben chiaro il rischio che i tentativi posti in essere dall'anestesista di usare il curaro avrebbero prodotto l'ingravescenza dell'edema e il grave pericolo di un blocco respiratorio, poi realizzatosi.

Secondo i giudici il primario avrebbe dovuto rifiutarsi di eseguire l'intervento in quelle condizioni rischiose. In materia di responsabilità di equipe, infatti, trova generalmente applicazione il principio di affidamento ma non nei confronti del capo-equipe. Il capo del gruppo di lavoro, infatti, ha un ruolo di guida e deve coordinare e dirigere l'attività degli altri terapeuti, non può disinteressarsi della stessa, non operando generalmente nei suoi confronti il principio di affidamento, con il limite delle competenze specialistiche. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che l'errore dell'anestesista fosse banale e riconoscibile dal chirurgo capo – equipe (come poi effettivamente accaduto), egli pertanto avrebbe dovuto intervenire ed imporre la soluzione più appropriata, fino ad arrivare a sospendere l'operazione, che nel caso specifico era urgente ma non impellente.

La Corte ha pertanto confermato la condanna per omicidio colposo nei confronti dell'anestesista e del chirurgo capo - equipe, riformando la sentenza nei confronti di tutti gli altri sanitari.

Osservazioni

La sentenza in commento affronta, come si è visto, la doppia problematica, da una parte l'interruzione del nesso di causa per la sussistenza di un condotta abnorme di per sé causativa dell'evento che però a sua volta si innesta su condotte negligenti altrui. Dall'altra la valutazione di tale condotta nel ipotesi in cui si verta di un'attività di equipe e quindi si applichi il principio di affidamento, ma con un'attenzione particolare al ruolo del capo-equipe.

Con riferimento alla prima problematica, della valutazione della sussistenza del nesso di causa, la Corte in questa sentenza segue un'interpretazione fatta propria dalle Sezioni Uunite nel noto caso Thyssenkrupp. La tesi, che si basa sulla teoria del rischio, non rappresenta l'orientamento dominante della giurisprudenza in materia di responsabilità ex art. 41 c.p. ma permette una valutazione più concreta della singola situazione. La valutazione infatti si incentra sull'iterazione delle varie condotte: valutando se il comportamento successivo colposo costituisca un fattore di rischio che si inserisce sul precedente divenendo così una concausa dell'evento, o se rappresenti un rischio nuovo ed autonomo, così da far venir meno il nesso di causa rispetto alla condotta del primo soggetto agente. Nel caso di specie era stato accertato che l'evento morte era ricollegabile all'errore dell'anestesista che aveva posto in essere un comportamento abnorme, e come tale andava considerato come un rischio nuovo che non si innestava su quello dei precedenti medici, che nessun rilievo avevano avuto rispetto al decesso della paziente.

La valutazione della Corte deve però tenere in considerazione anche un altro fattore, trattandosi di un ipotesi di responsabilità medica, quindi della posizione di garanzia che tutti i sanitari ricoprivano in virtù della responsabilità d'equipe. Seguendo l'orientamento consolidato la Corte ha affermato che tra i vari sanitari opera il principio di affidamento, per cui ciascuno risponderà del proprio operato, confidando poi nell'operato diligente dei propri colleghi, mantenendo però un generale dovere di diligenza da parametrarsi al ruolo, alle competenze, alla riconoscibilità ed emendabilità dell'errore altrui. In tal modo la sentenza differenzia la posizione dei vari sanitari coinvolti da quella del primario. Quest'ultimo infatti, quale capo- equipe, ha un dovere di coordinamento e di controllo di tutta la sua squadra (con i limiti delle competenze specialistiche) e, quindi, avrebbe dovuto intervenire a fronte di un errore così macroscopico e grossolano dell'anestesista facilmente rilevabile, ed effettivamente anche rilevato, dallo stesso. Ha pertanto concluso la Corte che il primario ben avrebbe potuto intervenire per impedire l'evento impedendo all'anestesista di effettuare tale operazione scorretta e pericolosa o di continuarla, fino ad arrivare a sospendere l'intervento.

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