Ammissibile la testimonianza degli operanti della polizia giudiziaria sul contenuto delle intercettazioni telefoniche

Giovanni Campese
16 Maggio 2016

L'ordinanza in commento affronta la questione se gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possano deporre sul contenuto delle conversazioni o comunicazioni intercettate.
Massima

In materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non trova applicazione il divieto di cui all'art. 62 c.p.p. di testimonianza indiretta sulle dichiarazioni rese nel corso del procedimento dall'imputato o dall'indagato. Ed invero, il divieto è inteso a evitare possibili condizionamenti del dichiarante da parte della polizia giudiziaria ed eventuali travisamenti del contenuto delle dichiarazioni acquisite. Nel caso delle intercettazioni, invece, l'operante non ha alcun potere di condizionare il contenuto delle dichiarazioni ed esso è sempre verificabile dal giudice del dibattimento nel contraddittorio delle parti, essendo la prova nel processo costituita dalla riproduzione fonica e/o scritta del contenuto delle conversazioni.

Il caso

L'ordinanza in commento, emessa dal tribunale di Roma nell'ambito del processo c.d. Mafia Capitale, affronta tre questioni sollevate da altrettante eccezioni della difesa degli imputati relativamente all'audizione dei testi indicati dal pubblico ministero, come ammessi dal tribunale, e al calendario delle udienze.

La prima questione attiene alla compatibilità tra giudizio immediato e attività integrativa di indagine. A questo riguardo il tribunale aderisce al consolidato orientamento interpretativo della Corte di cassazione, secondo cui l'evidenza della prova – quale presupposto di ammissibilità del giudizio immediato – è nozione diversa da quella di definibilità allo stato degli atti, con la conseguenza che deve ritenersi consentita l'acquisizione di ulteriori prove in dibattimento (v. Cass. pen., Sez. V, 5 febbraio 2002, n. 12165). L'ordinanza in commento richiama anche la sentenza delle Sezioni unite 26 giugno 2014, n. 42979, la quale ha statuito che, ai fini dell'instaurazione del giudizio immediato (anche custodiale, ex art. 453, comma 1-bis, c.p.p.), l'evidenza della prova consiste in una valutazione di tipo prognostico circa l'idoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio, non diversa da quella compiuta nell'udienza preliminare. L'evidenza probatoria va quindi intesa come sostenibilità dell'accusa in giudizio e come inutilità della celebrazione dell'udienza preliminare.

Il tribunale affronta poi il tema dell'ammissibilità della testimonianza degli operanti della polizia giudiziaria sul contenuto delle intercettazioni e, dunque, sulle dichiarazioni rese in tale contesto dall'indagato. Di tale questione si dirà più diffusamente tra poco.

Infine l'ordinanza in commento si occupa dell'applicazione dei principi del giusto processo, come delineati dall'art. 111 Cost., allo svolgimento dell'istruttoria dibattimentale. Il tribunale, richiamando sia la Carta costituzionale che l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, esclude che la garanzia della ragionevole durata del processo imponga la celerità come un valore assoluto e di rango superiore. Questa va contemperata con altri principi fondamentali inerenti al diritto di difesa e, in particolare, con il principio del contraddittorio nella formazione della prova. Su questa base l'ordinanza afferma la necessità di commisurare la ragionevole durata del processo alla sua complessità, tenendo conto del numero dei soggetti processuali, dell'entità delle accuse mosse agli imputati e della consistenza dell'istruttoria da svolgere.

La questione

La questione di maggior interesse affrontata dal tribunale è quella se gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possano deporre sul contenuto delle conversazioni o comunicazioni intercettate.

In argomento ci si deve confrontare con il divieto posto dall'art. 62, comma 1, c.p.p., in forza del quale le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza. Tale garanzia dell'imputato, ai sensi dell'art. 61 c.p.p., si estende anche alla persona sottoposta alle indagini.

Viene altresì in rilievo l'art. 195, comma 4, c.p.p., il quale vieta la testimonianza indiretta degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, i quali non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lett. a) e b).

Occorre infine considerare quanto previsto dall'art. 63 c.p.p. in tema di dichiarazioni indizianti rese da chi ancora non riveste la qualità di imputato o indagato: in tal caso l'autorità procedente è tenuta a interrompere l'esame della persona, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e invitandola a nominare un difensore; le precedenti dichiarazioni non sono comunque utilizzabili contro la persona che le ha rilasciate. Inoltre, ai sensi del comma 2 di detto articolo, se la persona doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate.

Le soluzioni giuridiche

Il tribunale risolve la questione aderendo all'ormai consolidata interpretazione della suprema Corte, secondo cui se – nel corso di un'attività di intercettazione di conversazioni regolarmente autorizzata – vengono captate dichiarazioni con le quali un soggetto si autoaccusa della commissione di reati, queste hanno integrale valenza probatoria, non trovando applicazione gli artt. 62 e 63 c.p.p. (v. Cass. pen., Sez. VI, 19 febbraio 2013, n. 16165; Cass. pen., Sez. IV, 2 luglio 2010, n. 34807; Cass. pen., Sez. VI, 22 maggio 2003, n. 31739; Cass. pen., Sez. V, 3 maggio 2001, n. 27656).

I giudici di legittimità fondano tale soluzione su un duplice rilievo. Da un lato l'ammissione di circostanze indizianti, fatta spontaneamente dall'indagato nel corso di una conversazione legittimamente intercettata, non è assimilabile alle dichiarazioni da lui rese dinanzi all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria. Dall'altro le registrazioni e i verbali delle conversazioni non sono riconducibili alle testimonianze de relato su dichiarazioni dell'indagato, in quanto integrano la riproduzione fonica o scritta delle dichiarazioni stesse, delle quali rendono in modo immediato e senza fraintendimenti il contenuto.

L'ordinanza in commento condivisibilmente evidenzia che il divieto posto dall'art. 62 c.p.p. mira a evitare possibili condizionamenti del dichiarante da parte della polizia giudiziaria ed eventuali travisamenti da parte dell'operante chiamato a riferire sul contenuto delle dichiarazioni acquisite. Nel caso delle intercettazioni, invece, l'operante non ha alcun potere di condizionare il contenuto delle dichiarazioni e questo è sempre verificabile dal giudice del dibattimento, nel contraddittorio delle parti. In effetti la prova nel processo è costituita dalla riproduzione fonica e/o scritta del contenuto delle conversazioni, mentre l'audizione dell'operante ha la funzione di inquadrare le conversazioni stesse nell'ambito della complessiva attività di indagine svolta.

Il tribunale, data la specificità della fattispecie al suo esame, non affronta invece un ulteriore profilo, di cui si occupa invece la giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di valenza probatoria delle dichiarazioni intercettate.

È stato in più occasioni affermato che il contenuto di un'intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa a carico di una terza persona che non abbia preso parte alla conversazione, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, pur dovendo essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p., ossia alla necessità di rinvenire riscontri di carattere esterno (v., tra le più recenti, Cass.pen., Sez. V, 17 luglio 2015, n. 4572; Cass., Sez. V, 26 marzo 2010, n. 21878; Cass., Sez. IV, 28 settembre 2006, n. 35860). In tal modo viene differenziato il regime delle dichiarazioni etero-accusatorie rese nel procedimento da quelle registrate all'insaputa del dichiarante.

Peraltro gli elementi raccolti nel corso dell'intercettazione etero-accusatoria - pur costituendo fonte di prova diretta, soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato previsto dall'art. 192, comma 1, c.p.p. - ove abbiano natura indiziaria devono possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza ai sensi dell'art. 192, comma 2, c.p.p. (v. Cass. pen., Sez. I, 18 giugno 2014, n. 37588; Cass. pen., Sez. VI, 4 novembre 2011, n. 3882). In particolare il giudice è tenuto a un rigoroso apprezzamento delle risultanze processuali potenzialmente idonee a invalidare il rilievo accusatorio delle dichiarazioni captate nell'intercettazione (v. Cass. pen., Sez. VI, 19 dicembre 2013, n. 5073).

Osservazioni

Per completare il quadro degli orientamenti giurisprudenziali in tema di testimonianza degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria sul contenuto delle conversazioni intercettate, è utile fare cenno a un rilevante problema interpretativo che ha dato adito a soluzioni diversificate, anche a livello di giurisprudenza di legittimità e nonostante l'intervento delle Sezioni unite della suprema Corte.

Cass. pen., Sez. unite, 28 maggio 2003, n. 36747, aveva statuito che il divieto posto dall'art. 195, comma 4, c.p.p. – il quale esclude che gli operanti della polizia giudiziaria possano deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lett. a) e b) – si riferisce tanto alle dichiarazioni che siano state ritualmente assunte e documentate in applicazione di dette norme, quanto ai casi in cui la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime. In tale prospettiva gli altri casi, per i quali l'art. 195, comma 4, c.p.p. legittima la testimonianza de auditu del funzionario di polizia, si riducono alle sole ipotesi in cui dichiarazioni di contenuto narrativo siano state rese da terzi e percepite dal funzionario al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di p.g., ciascuno nella propria qualità.

Le Sezioni unite avevano così concluso che la registrazione fonografica di una conversazione o di una comunicazione ad opera di uno degli interlocutori, anche se operatore di polizia giudiziaria, e all'insaputa dell'altro (o degli altri) non costituisce intercettazione, difettandone il requisito fondamentale, vale a dire la terzietà del captante, che dall'esterno s'intromette in ambito privato non violabile.

Sulla base di questi principi una successiva pronuncia di legittimità ha affermato l'inutilizzabilità del contenuto dell'intercettazione di un colloquio tra un ufficiale di polizia giudiziaria e un soggetto indagato (v. Cass.pen., Sez. II, 7 novembre 2007, n. 46023).

L'interpretazione fornita dalle Sezioni unite è stata seguita anche da Cass. pen., Sez. I, 4 luglio 2012, n. 41090; Cass.pen.,Sez. II, 25 gennaio 2012, n. 6355; Cass.pen.,Sez. VI, 17 marzo 2010, n. 13465; Cass.pen., Sez. I, 6 dicembre 2007, n. 46606.

Altre pronunce hanno invece sostenuto che la mancata verbalizzazione da parte della polizia giudiziaria di dichiarazioni da essa ricevute, in contrasto con quanto prescritto dall'art. 357 c.p.p., non le rende nulle o inutilizzabili in quanto nessuna sanzione in tal senso è prevista da detta norma. Ne consegue che, salvi i limiti di cui all'art. 350, commi 6 e 7, c.p.p., l'agente o l'ufficiale di polizia giudiziaria può fare relazione del loro contenuto all'autorità giudiziaria e rendere testimonianza de relato (v. Cass.pen., Sez. I, 20 giugno 2014, n. 33821; Cass. pen., Sez. II, 18 ottobre 2012, n. 150).

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