Lo stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi dei privati integra la fattispecie della corruzione c.d. propria

17 Febbraio 2017

In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio, ancorché non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero ...
La massima

In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio, ancorché non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio.

Il caso

La complessa vicenda oggetto della presente nota riguardava diversi imputati i quali sono stati condannati per aver concluso e dato esecuzione ad un accordo corruttivo avente ad oggetto il perfezionamento di un complesso procedimento amministrativo culminato con il rilascio della concessione edilizia in favore di una società di costruzioni per la edificazione di un complesso residenziale costituito da otto corpi di fabbrica pluripiano, in cambio della promessa ai pubblici ufficiali ed ai mediatori tra questi ed i privati di vari appartamenti nonché della somma di euro 1.550.000, materialmente corrisposta per un importo superiore a 280.000 euro.

Il pubblico ministero, nel corso del dibattimento davanti al tribunale, aveva modificato l'imputazione: questa, infatti, mentre nell'iniziale formulazione indicava come atti oggetto di mercimonio le note dal contenuto asseritamente mendace redatte, rispettivamente, il 10 febbraio 2004 dall'ufficio tecnico del Comune di Messina ed indirizzata all'A.R.T.A. e il 31 marzo 2004 dall'A.R.T.A. in risposta a quella dell'ufficio tecnico, nel testo “rivisitato” menzionava come oggetto di compravendita la complessiva attività amministrativa.

Si rileva, in estrema sintesi, che le sentenze di primo e secondo grado hanno accolto questa nuova impostazione, ritenendo frutto di corruzione tutta l'attività amministrativa dei pubblici ufficiali imputati

In particolare, secondo le sentenze di merito, l'imputato principale aveva svolto la funzione di mediatore tra i privati interessati, segnatamente gli imprenditori imputati, quali amministratori e soci della società di costruzioni ed i pubblici ufficiali, tra cui il soggetto, che nelle more dell'iter procedimentale aveva svolto la funzione di vice presidente e poi di presidente del consiglio comunale di Messina, ed un altro P.U., funzionario tecnico in servizio presso l'ufficio Area coordinamento politica del territorio del Comune di Messina, sia affinché questi ultimi intervenissero nel corso procedimento per assicurarne l'esito positivo e, quindi, il rilascio della concessione ad edificare, sia per garantire la remunerazione dei medesimi in funzione dell'attività svolta.

I giudici di merito, sia in primo grado che in appello, condannavano gli imputati per il delitto di corruzione propria, disattendendo le richieste delle difese che chiedevano, a seconda dei ruoli, la derubricazione delle imputazioni nei meno gravi reati di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., ovvero del traffico di influenze illecite art. 346-bisc.p.

La questione

Avverso la sentenza della Corte di appello di Messina gli imputati proponevano ricorso per cassazione. Malgrado le diverse posizioni soggettive, si possono riassumere in motivi delle impugnazioni nei seguenti termini: che non era configurabile il reato di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, perché la nota asseritamente falsa dell'Assessorato regionale per il territorio e l'ambiente (A.R.T.A.) del 31 marzo 2004 era stata formata da funzionari regionali cui non è mai stata contestata la corruzione ed, inoltre, perché l'iter procedimentale diretto alla classificazione urbanistica dell'area era stato corretto e perché, comunque, i due P.U. imputati non avevano esercitato alcuna funzione pubblicistica in ordine alla procedura culminata con il rilascio della concessione.

Le soluzioni giuridiche

La sesta sezione della suprema Corte con la sentenza 20 ottobre 2016 (dep. 24 gennaio 2017), n. 3606/2017 ha rigettato i ricorsi degli imputati così confermando le severe condanne.

In primo luogo per quanto attiene alla nozione di atto dell'ufficio rilevante ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, il Collegio condivide il consolidato orientamento giurisprudenziale, che, secondo cui è necessario e sufficiente che l'atto rientri nelle competenze dell'ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto (cfr., tra le tante: Cass. pen., Sez. VI, 26 febbraio 2006, n. 23355; Cass. pen., Sez. VI, 2 marzo 2010, n. 20502, Martinelli, relativa ad una fattispecie estremamente prossima a quella in esame; Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, Battistella; Cass. pen., Sez. I, 27 ottobre 2003, n. 4177, Napoli). Del resto, si è anche precisato che l'atto dell'ufficio non deve essere inteso in senso strettamente formale ma può essere integrato anche da comportamenti materiali costituenti esplicazione dei poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata (così Cass. pen., Sez. V, 16 gennaio 2013, n. 36859, Mainardi, che ha ritenuto atto dell'ufficio, sia pure rilevante ai fini della configurabilità della corruzione impropria, anche il sollecito telefonico per favorire lo “sblocco” di pratiche).

Ciò che resta estraneo alla nozione di atto di ufficio, in questa prospettiva, è solo la condotta commessa in occasione dell'ufficio ma non implicante lo svolgimento di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell'agente, come, ad esempio, quella integrata dalla redazione di ricorsi amministrativi da parte del dipendente di un Comune nell'interesse di privati contro sanzioni irrogate dall'ente locale (Cass. pen., Sez. VI, 12 febbraio 2016, n. 7731, Pasini,), o quella costituita dalla “segnalazione” indirizzata a soggetti appartenenti ad amministrazioni pubbliche estranee a quella presso la quale operava il “segnalante” (Cass. pen., Sez. VI, 8 marzo 2012, n. 38762, D'Alfonso).

Per quanto concerne la nozione di atto contrario ai doveri di ufficio, la sentenza in esame ravvisa, conformemente all'indirizzo giurisprudenziale prevalente, la sussistenza della prima delle fattispecie di cui all'art. 319 c.p. sia quando ricorre uno stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, pur se mediante atti non predefiniti, né specificamente individuabili ex post (cfr., in questo senso, Cass. pen., Sez. VI, 23 settembre 2014, n. 6056, Staffieri, nonché Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 47271, Casarin, nonché ancora Cass. pen., Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, Terenghi), sia allorché poteri discrezionali istituzionalmente spettanti siano esercitati operandosi la rinuncia ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato (vedi in particolare: Cass. pen., Sez. VI,4 febbraio 2014, n. 23354, Conte; Cass. pen., Sez. VI, 18 giugno 2010, n. 24656, Cosentino; Cass. pen., Sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, Mussoni; Cass. pen., Sez. VI, 23 gennaio 2004, n. 12237).

La Cassazione ha perciò concluso che si versa nel reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio quando lo stabile asservimento del pubblico ufficiale si sia anche tradotto nel compimento, a vantaggio del privato, di uno o più atti formalmente legittimi, ma non rigorosamente predeterminati nell'an, nel quando o nel quomodo.

Relativamente alla delimitazione dei confini inerenti all'applicazione dei delitti di corruzione rispetto alla fattispecie di traffico di influenze illecite, la sentenza osserva, da un lato, che il concorso nel reato di corruzione può essere anche eventuale, in forza della clausola di estensione della punibilità di cui all'art. 110 c.p., e, dall'altro, che la disposizione di cui all'art. 346-bisc.p. fissa esplicitamente un rapporto di sussidiarietà del reato da essa introdotto e quelli di cui agli art. 319 e 319-terc.p. (fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter). In linea con questa prospettiva, è stato anche precisato che il delitto di traffico di influenze, di cui all'art. 346-bisc.p., si differenzia, dal punto di vista strutturale, dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l'opera di mediazione e non potendo, quindi, neppure in parte, essere destinato all'agente pubblico.

Di conseguenza, la Corte afferma che risponde di corruzione, e non di traffico di influenze illecite, colui che pone in essere un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra corruttore e corrotto (per la configurabilità del delitto di corruzione in capo all'intermediario cfr. Cass. pen., Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani, e Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 2006,n. 33435, Battistella).

Osservazioni

Con riguardo ai rapporti tra la corruzione propria (art. 318 c.p.) e quella cosiddetta impropria (art. 319 c.p.), la Cassazione con questa sentenza ha perciò ribadito un filone giurisprudenziale ormai consolidato, secondo cui il novellato art. 318 c.p., rubricato con il titolo corruzione per l'esercizio della funzione, troverebbe applicazione solo per quelle situazioni residuali in cui la vendita della funzione abbia ad oggetto con certezza uno o più atti dell'ufficio, oppure non sia noto il finalismo del mercimonio del pubblico ufficiale. In tutti gli altri casi, certamente molto più frequenti nella realtà, la condotta di stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, pur se mediante atti non predefiniti, né specificamente individuabili ex post integra il reato più grave della corruzione cosiddetta propria, ossia quella per atto contrario ai doveri di ufficio di cui all'art. 319 c.p.

La soluzione può sembrare un'evidente forzatura rispetto al testo dell'art. 319 c.p. in violazione del principio di tassatività delle norme incriminatrici, dato che il citato articolo fa espresso riferimento alla condotta di chi compie un atto contrario ai doveri di ufficio, senza la cui individuazione parrebbe errato contestare la corruzione c.d. propria.

La sussumibilità della condotta del pubblico ufficiale che si pone in condizione di stabile asservimento ad interessi privati nella fattispecie prevista dall'art. 319 c.p., e non invece in quella contemplata dall'art. 318 c.p., viene affermata dall'indirizzo più diffuso sia perché la contrarietà dell'atto o dell'attività al dovere di ufficio si individua alla luce non tanto di una verifica della astratta legittimità formale degli stessi, quanto, essenzialmente, delle modalità dell'azione e degli scopi perseguiti, sia perché risulta difficilmente compatibile con i principi di gradualità dell'offesa, ragionevolezza e proporzionalità della pena, desumibili dagli artt. 3 e 27 Cost., la previsione di un trattamento più “mite” per il pubblico funzionario stabilmente infedele, che pone l'intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici, rispetto a quello riservato al pubblico ufficiale che compie per denaro o altra utilità un solo suo atto contrario all'ufficio (per questi rilievi, cfr. specificamente Cass. pen., Sez. VI, n.9883/2013, Terenghi, cit.). La soluzione contraria, invece, muove dal rilievo secondo cui il delitto previsto dall'art. 318 c.p. costituisce reato di pericolo per il corretto svolgimento della funzione, a differenza di quello di cui all'art. 319 c.p., il quale, invece, integra fattispecie di danno.

Se queste sono le ragioni poste a base dei due diversi orientamenti, non sembrano sussistere convincenti ostacoli alla configurabilità della fattispecie di cui all'art. 319 c.p. quando sia possibile individuare, oltre ad un rapporto di stabile asservimento del pubblico ufficiale, uno o più atti dello stesso che, pur se formalmente legittimi, si conformino all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato, nonostante questa non sia una soluzione necessaria. In tali casi, infatti, ad avviso della suprema Corte [] perde completamente rilievo l'obiezione che argomenta dalla natura di danno o di pericolo delle due fattispecie incriminatrici: l'effettivo esercizio di poteri pubblici nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali, salvo i casi limite di attività rigorosamente predeterminata nell'an, nel quando e nel quomodo, determina con immediatezza un pregiudizio per l'imparzialità ed il buon andamento dell'amministrazione, perché implica l'impiego di strumenti e funzioni pubblicistiche al di fuori dei presupposti per i quali i medesimi sono stati prefigurati, e, quindi, si traduce in un “attuale” ed ingiustificato trattamento di privilegio in favore del beneficiario dell'azione indebitamente orientata.

In altre sentenze la Cassazione ha ricostruito il rapporto tra corruzione propria e quella c.d. impropria in termini di progressione criminosa. Si legge infatti che: […] lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all'art. 318 c.p. (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190), e non il più grave reato di corruzione propria di cui all'art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poichè, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente” (in questi termini la sentenza Cass. pen., Sez. VI, 7 luglio 2016, n.40237 ed anche Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226). Tale interpretazione ha come corollario che la prescrizione decorre per tutti gli episodi corruttivi dalla cessazione del reato permanente, ossia dall'ultima dazione illecita, con l'effetto di spostare in avanti il termine di estinzione del reato.

Queste conclusioni sono però contrastate da un parte della dottrina che non condivide la ricostruzione in termini unitari ( sia come reato permanente, sia come progressione criminosa) delle ipotesi di corruzione per così dire multipla, ossia con più episodi e corrispondenti pagamenti illeciti, sull'assunto che nei reati di corruzione la consumazione avverrebbe, secondo l'inequivoco dato normativo, già dal momento del perfezionamento dell'accordo illecito; le successive condotte sarebbero perciò da classificare come un postfatto non punibile, con l'effetto pratico, di non poca importanza, che la prescrizione decorrerebbe dal momento della conclusione dell'accordo e non già dall'ultima dazione del compenso illecito.

Di interesse anche la ricostruzione dei rapporti con la fattispecie del traffico di influenze illecite di cui all'art. 346-bis c.p.; la Cassazione ribadisce che quest'ultima è una fattispecie che punisce un comportamento propedeutico alla commissione di una eventuale corruzione e non è quindi, ipotizzabile quando sia già stato accertato un rapporto - come nella specie - paritario tra il pubblico ufficiale ed il soggetto privato. Di tanto è espressiva la clausola di esclusione posta all'art. 346-bis c.p., comma 1, che definisce il rapporto della fattispecie con quelle corruttive di cui agli artt. 319 e 319-ter c.p., ponendo la condotta dei due soggetti attivi del traffico di influenze illecite – il mediatore ed il compratore di influenze – prima ed al di fuori del patto corruttivo, assumendo detta condotta autonomo rilievo penale in ragione di una soglia anticipata di tutela voluta dal legislatore. Dal punto di vista strutturale, elemento differenziale tra la fattispecie corruttiva e quella del traffico di influenze è la connotazione causale del prezzo, destinato - nel traffico di influenze - a retribuire l'opera di mediazione, e non potendo detto prezzo, neppure in parte, essere destinato all'agente pubblico, altrimenti realizzandosi un concorso nella corruzione attiva (cfr. in questi termini Cass. pen., Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 29789, Angeleri).

Guida all'approfondimento

CINGARI, Gli incerti confini del delitto di corruzione per l'esercizio della funzione, in Dir. pen. proc., 2014, 8, 962 ;

GAMBARDELLA, Corruzione, millantato credito e traffico di influenze nel caso “Tempa rossa”: una debole tutela legislativa”, in Cass. pen. , 2016 , 10, 3597;

GAMBARDELLA, Dall'atto alla funzione pubblica, la metamorfosi legislativa della corruzione impropria, in Arch. Pen., 2013, 1, 51 e ss.

MANTOVANI, Corruzione e "funzionario a libro paga": la riforma operata dalla l e il muro della giurisprudenza-fonte”, in Ind. Pen., 2015, 1-2, 110 ;

PALAZZO, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. Pen., 2015, fasc. 10, pag. 3389;

STAMPANONI BASSI, Configurabilità del reato di cui all'art. 318 c.p. nel caso di sistematico ricorso ad atti contrari alla funzione non predefiniti nè identificabili, in Cass. pen., 2015 , 4, 1419;

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