L'invito (accolto) a precisare l'imputazione non rende incompatibile il Gup

17 Febbraio 2017

Il giudice che, avendo ravvisato, nel corso dell'udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell'imputazione, invito al quale il pubblico ministero abbia aderito, diviene incompatibile a svolgere le medesime funzioni?
Massima

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del magistrato che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell'imputazione, invito cui il pubblico ministero abbia aderito.

Il caso

La procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli aveva richiesto il rinvio a giudizio di un imputato accusandolo dei reati di divulgazione di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, comma 3, c.p.) e di tentata violenza privata (artt. 56 e 610 c.p.).

Nel corso dell'udienza preliminare, il giudice, ravvisando una diversità dei fatti accertati rispetto a quelli contestati, aveva invitato il rappresentante del pubblico ministero a modificare l'imputazione. L'accusa aveva accolto l'invito contestando i reati di produzione di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, comma 1, c.p.) e di atti persecutori (art. 612-bis c.p.).

All'udienza successiva, il difensore dell'imputato aveva eccepito l'incompatibilità sopravvenuta del giudice ai sensi dell'art. 34 c.p.p. in conseguenza del provvedimento adottato.

Il giudice, ritenendo fondata l'eccezione e ravvisando l'impossibilità di estendere analogicamente al caso di specie le cause di incompatibilità previste dall'art. 34 c.p.p., stante il loro carattere tassativo, sollevava questione di legittimità costituzionale della predetta norma, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del magistrato che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell'imputazione, invito cui il pubblico ministero abbia aderito.

La Corte costituzionale, nel rigettare la questione, ha osservato che la valutazione sulla medesima regiudicanda pregiudica la riedizione del medesimo potere valutativo solo se si colloca in una precedente e distinta fase del procedimento rispetto a quella della quale il giudice è attualmente investito.

Tuttavia, l'invito a modificare l'imputazione, a differenza dell'ordinanza di restituzione degli atti ex art. 521, comma 2, c.p.p., non comporta alcuna regressione del procedimento, di talché la sua adozione non genera alcuna incompatibilità del giudice.

La questione

La questione in esame è la seguente: il giudice che, avendo ravvisato, nel corso dell'udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell'imputazione, invito al quale il pubblico ministero abbia aderito, diviene incompatibile a svolgere le medesime funzioni?

Le soluzioni giuridiche

Occorre premettere che secondo la suprema Corte (Cass. pen., Sez. un., 20 dicembre 2007, n. 5307) il meccanismo restitutorio previsto dall'art. 521, comma 2, c.p.p. per il caso in cui il giudice del dibattimento ravvisi la diversità del fatto oggetto di imputazione rispetto alle risultanze processuali è applicabile analogicamente anche nella diversa fase dell'udienza preliminare.

Tuttavia, poiché l'udienza preliminare si configura come il luogo privilegiato di stabilizzazione dell'accusa, il progressivo consolidamento dell'imputazione deve essere realizzato, in primis, all'interno della fase, mediante il meccanismo d'integrazione e specificazione predisposto per la diversità del fatto dall'art. 423, comma 1, c.p.p.

Solo qualora il pubblico ministero rimanga inerte di fronte allo specifico provvedimento ordinatorio del giudice che abbia richiesto la revisione dell'imputazione, residua un epilogo decisionale in rito, con il quale il giudice, in virtù dell'applicazione analogica dell'art. 521, comma 2, c.p.p., attesta il vizio dell'atto imputativo, consistente nella non corrispondenza fra il fatto storico emergente dagli atti processuali e la descrizione dello stesso nella richiesta di rinvio a giudizio.

Dunque, solo dopo aver sollecitato invano il pubblico ministero nel corso dell'udienza preliminare ad integrare l'atto di imputazione è possibile determinare la regressione del procedimento onde consentire il nuovo esercizio dell'azione penale in modo aderente alle effettive risultanze d'indagine.

La Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 269 del 2003, aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla trattazione dell'udienza preliminare per il giudice che all'esito di una precedente udienza preliminare riguardante lo stesso imputato e il medesimo fatto storico abbia disposto la restituzione degli atti al pubblico ministeroex art. 521, comma 2, c.p.p., avendo ravvisato un fatto diverso da quello formalmente descritto nell'imputazione contestata.

Nella citata ordinanza i giudici di Palazzo della Consulta avevano sostenuto che detta ipotesi dovesse ritenersi già inclusa nel raggio d'azione dell'istituto dell'incompatibilità. Infatti, con le sentenze n. 224 del 2001 e n. 335 del 2002, la Corte aveva rilevato come le innovazioni legislative apportate all'udienza preliminare dalla l. 479/1999 (ossia l'incremento quantitativo e qualitativo dei poteri riconosciuti al giudice e alle parti e l'ampiezza delle valutazioni e del contenuto delle decisioni che il giudice è chiamato a prendere all'esito dell'udienza) avessero determinato il venir meno di quei caratteri di sommarietà, propri di una decisione orientata esclusivamente allo svolgimento del processo, che in precedenza la connotavano. Alla stregua di tali rilievi, la Corte concludeva che l'udienza preliminare è divenuta ormai un momento di giudizio e che pertanto anche per il giudice chiamato a celebrarla ricorrono, ove ne sussistano gli ulteriori presupposti, le incompatibilità previste dall'art. 34 c.p.p., qualora egli abbia già giudicato sulla medesima res iudicanda, indipendentemente dalla specifica causa che di volta in volta abbia determinato le reiterazione di detta funzione in capo allo stesso giudice-persona fisica, nell'ambito dello stesso procedimento e in relazione al medesimo fatto.

Ad avviso del giudice partenopeo, nel caso sottoposto al suo esame si sarebbe verificata una situazione analoga a quella presa in considerazione dall'ordinanza n. 269 del 2003.

Il giudice rimettente ha infatti svolto una piena delibazione del merito della regiudicanda adottando una ordinanza interlocutoria dal contenuto e dalle finalità del tutto analoghe a quelli dell'ordinanza prevista dall'art. 521, comma 2, c.p.p. Tuttavia, non potendo il giudice dell'udienza preliminare disporre l'immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero, dovendo utilizzare il “meccanismo correttivo” delineato dalle Sezioni unite, non è applicabile l'istituto dell'incompatibilità nei termini indicati dalla sentenza n. 224 del 2001, il quale presuppone un nuovo svolgimento della funzione di giudice dell'udienza preliminare da parte della stessa persona fisica a seguito di una vicenda regressiva, nella specie mancante.

Secondo il giudice a quo lo scenario descritto non sarebbe superabile in via interpretativa, perché, da un lato, non è possibile applicare analogicamente le cause di incompatibilità, stante il loro carattere tassativo, mentre, dall'altro, non può farsi riscorso all'istituto dell'astensione, il quale mira a porre rimedio a comportamenti del giudice, anche estranei all'esercizio della funzione, che possono determinare un pregiudizio per l'imparzialità da apprezzare in concreto, mentre nel caso in discussione il pregiudizio è riscontrabile già sul piano astratto e deriva da una decisione precedentemente adottata.

La Corte costituzionale, nel valutare come infondato il dubbio sollevato dal giudice a quo, non fa altro che applicare al caso in esame il suo costante orientamento volto a distinguere a seconda che la pronuncia sospettata di pregiudicare l'imparzialità del giudice sia stata adottata nella stessa fase di un medesimo procedimento o in fasi diverse.

Già nel 1996, dichiarando non fondata, in riferimento agli artt. 24 e 101 Cost., e manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 101 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio direttissimo il giudice che, all'esito del giudizio di convalida o comunque prima della fase dibattimentale, abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell'imputato, la Corte ebbe modo di chiarire che il processo è per sua natura costituito da una sequenza di atti, ciascuno dei quali può astrattamente implicare apprezzamenti su quanto risulti nel procedimento ed incidere sui suoi esiti. Non può, quindi, essere frammentato, isolando ogni atto che contenga una decisione idonea a manifestare un apprezzamento di merito ma preordinata, accessoria o incidentale rispetto al giudizio del quale il giudice è già investito, per attribuire ogni singola decisione ad un giudice diverso, sino a rompere la necessaria unità del giudizio e la sua intrasferibilità (cfr. Corte cost., 31 maggio 1996, n. 177; Corte cost., 30 dicembre 1996, ord. n. 433; Corte cost., 19 luglio 1996, ord.n. 267).

Quindi, la valutazione di merito sull'oggetto della causa che si colloca all'interno della medesima fase non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito senza che ne possa essere spogliato: anzi è la competenza ad adottare il provvedimento dal quale si vorrebbe far derivare l'incompatibilità che presuppone la competenza per il giudizio di merito e si giustifica in ragione di essa (sentenza n. 177 del 1996).

Aderendo a tale impostazione logica, l'ordinanza che invita il pubblico ministero a modificare l'imputazione non può essere assimilata all'ordinanza di trasmissione degli atti di cui all'art. 521, comma 2, c.p.p., nonostante siano comuni il presupposto (accertamento della discrepanza tra il fatto contestato e quello risultante dagli atti processuali) e l'obiettivo (adeguamento dell'imputazione a tali risultanze) dei due atti.

Invero, ciò che differenza l'invito alla mutatio libelli rispetto al provvedimento restitutorio è l'assenza, nel primo, dell'effetto regressivo del procedimento, tipico del secondo. Dopo che il giudice ha invitato il pubblico ministero ad adottare un intervento correttivo dell'imputazione la fase in corso davanti a quel giudice non si chiude, ma prosegue sulla base dell'imputazione emendata. È dunque ragionevole che dalla formulazione dell'invito non derivi alcuna incompatibilità del giudice all'ulteriore trattazione della medesima fase, così come avviene, ad esempio, quando il giudice adotta una decisione cautelare nell'ambito della medesima fase o convalida l'arresto per poi procedere al giudizio direttissimo.

In definitiva, qualora il giudice dell'udienza preliminare dia corso al meccanismo correttivo dell'imputazione elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, diverrà incompatibile alla prosecuzione delle funzioni solo se il congegno – stante l'insuccesso del rimedio endofasico dell'invito a modificare l'imputazione – debba approdare al successivo rimedio esterno di tipo restitutorio. Infatti, solo in tale estrema ipotesi si avrà la chiusure della fase in corso a cui seguirà una fase distinta e ulteriore, ancorché omologa alla prima, che si aprirà all'esito delle iniziative del pubblico ministero e rispetto alla quale la valutazione di merito insita nel precedente provvedimento potrà assumere una valenza pregiudicante.

Osservazioni

Con la decisione in esame la Corte costituzionale ribadisce ancor auna volta la tesi volta ad escludere l'incompatibilità del giudice a causa di decisioni emesse nel corso della stessa fase procedimentale, soluzione adottata dalla Consulta fin dalle prime pronunce sull'art. 34 c.p.p.

Ad avviso dei giudici costituzionali, l'unitarietà della singola fase non consente di distinguere al suo interno i singoli momenti decisionali, in quanto il giudice forma il suo libero convincimento durante l'intero svolgimento della fase, senza soluzione di continuità.

Del resto, nel caso in esame, se non potesse sollecitare il pubblico ministero ad aggiustare l'imputazione, il giudice sarebbe costretto a pronunciarsi su una imputazione che reputa non aderente alla realtà storica emersa dagli atti processuali.

Tuttavia, nel momento in cui accerta che il fatto è diverso da come descritto nell'imputazione, il giudice compie indubbiamente una penetrante delibazione del merito della regiudicanda, non dissimile da quella che, in mancanza di una valutazione della diversità del fatto, conduce alla definizione con sentenza del giudizio di merito. Si tratta di una delibazione che, implicando una approfondita valutazione giuridica degli atti investigativi, potrebbe compromettere la genuinità e la correttezza del processo formativo del libero convincimento del giudice.

Dal punto di vista psicologico, quindi, non vi è dubbio che il provvedimento in esame è idoneo a pregiudicare, o a far apparire pregiudicata, l'imparzialità e la serenità di giudizio del Giudice che l'ha emesso, in ragione della c.d. forza della prevenzione, ossia della naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto. Egli ha infatti già valutato il merito dell'imputazione, ravvisandone la diversità storica rispetto alle emergenze investigative, ed ha manifestato esteriormente il proprio convincimento; dopo l'emendamento dell'imputazione, l'udienza preliminare proseguirà con un magistrato inevitabilmente condizionato dalla decisione già presa.

Non può dunque nascondersi che sulla linea esegetica seguita dalla Consulta pesano anche valutazioni extragiuridiche, quali la consapevolezza che l'attribuzione di un effetto pregiudicante anche a decisioni adottate all'interno della medesima fase comporterebbe costi insostenibili dal punto di vista della gestione delle risorse giudiziarie, creando una moltiplicazione degli organi decidenti.

Guida all'approfondimento

TRINCI-VENTURA, Il giudizio direttissimo, Giuffrè, 2013;

FARINI-TOVANI-TRINCI, Compendio di diritto processuale penale, Roma, 2016.

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