Il reciproco riconoscimento delle decisioni sulle misure alternative alla custodia cautelare

Costantino De Robbio
18 Marzo 2016

Il decreto legislativo 36/2016 (Gazz. uff. 11 marzo 2016, n. 59) introduce nel nostro ordinamento due possibilità inedite: quella di eseguire in Italia misure cautelari emanate in danno di un nostro cittadino dall'Autorità giudiziaria di altro Stato comunitario e quella di consentire ai cittadini comunitari colpiti da misure cautelari emesse dall'Autorità giudiziaria italiana di adempiere alle relative prescrizioni nello Stato di residenza.
Abstract

Il decreto legislativo 36 del 2016 introduce nel nostro ordinamento due possibilità inedite:

a) eseguire in Italia misure cautelari emanate in danno di un nostro cittadino dall'autorità giudiziaria di altro Stato comunitario;

b) consentire ai cittadini comunitari colpiti da misure cautelari emesse dall'autorità giudiziaria italiana di adempiere alle relative prescrizioni nello Stato di residenza.

La nuova normativa è applicabile a tutte le misure coercitive, tranne la custodia in carcere, nonché alla misura interdittiva prevista dall'articolo 290 del codice di procedura penale.

Il provvedimento entra in vigore il 26 marzo del 2016.

Ambito di applicabilità del decreto legislativo 36 del 2016: le misure alternative alla detenzione cautelare

Con decreto legislativo del 15 febbraio 2016 n. 36 sono state emanate le disposizioni per dare attuazione ad una decisione quadro del Consiglio europeo che risale al 2009 (decisione quadro 2009/829/Gai).

La decisione quadro riguarda il reciproco riconoscimento delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare: secondo quanto esplicitato nel preambolo della decisione quadro, le disposizioni in esse contenute dovrebbero mirare a rafforzare la protezione dei cittadini in generale, consentendo a una persona residente in uno Stato membro ma sottoposta a procedimento penale in un secondo Stato membro di essere sorvegliata dalle autorità dello Stato in cui risiede in attesa del processo.

Il problema si pone soprattutto per le misure cautelari c.d. minori, con cui si impongono al destinatario determinate limitazioni alla libertà di circolazione senza compromettere il diritto a continuare la propria attività lavorativa o la coltivazione dei propri interessi affettivi, familiari, sociali e culturali.

In queste ipotesi, l'assoggettamento di una misura cautelare in un contesto territoriale potenzialmente anche molto lontano dal proprio (ad esempio perché si è colpiti dalla misura cautelare mentre si era temporaneamente in viaggio in altro Stato comunitario per lavoro o altro) rischia di comprimere eccessivamente le predette libertà individuali, senza che a tale sacrificio corrisponda un effettivo interesse dello Stato che ha emesso la misura (unicamente interessato a che il destinatario adempia le prescrizioni imposte, non a dove avvenga tale adempimento).

Di qui la necessità di prevedere la possibilità di delegare ad altro Stato, scelto dal destinatario, il controllo sull'adempimento delle prescrizioni interenti una misura cautelare emessa da un giudice italiano, parallelamente alla possibilità per i nostri cittadini di adempiere in Italia alle prescrizioni inerenti le misure emesse dall'autorità giudiziaria di altro stato appartenente alla Comunità europea.

Il primo stringente problema posto dalla normativa in esame è costituito dall'ambito di applicazione della stessa: quali sono i provvedimenti emessi nel corso di un procedimento penale dall'autorità giudiziaria con cui si impongono ad una persona fisica, in alternativa alla detenzione cautelare, uno o più obblighi e prescrizioni (secondo la dizione dell'articolo 1 del decreto in esame)?

Una considerazione preliminare: non è possibile l'applicazione del decreto legislativo alla misura cautelare della custodia in carcere.

Ciò in primo luogo poiché tale esclusione è esplicitata sin dalla rubrica del testo legislativo e confermata dalla mancata previsione della stessa nel “catalogo” delle misure cautelari previsto dall'articolo 4 del decreto legislativo (di cui si dirà a breve).

Tale esclusione ha peraltro una ragione logica prima che formale: la custodia cautelare non prevede alcuna prescrizione a carico del destinatario, per tale intendendosi l'obbligo di attenersi ad un comportamento che discende dalla misura cautelare e la cui osservanza è rimessa alla diligenza del soggetto che la riceve.

Tutte le altre misure cautelari consistono invece, in concreto, nella sottoposizione a prescrizioni che il destinatario è tenuto ad osservare ed il cui adempimento è affidato in parte ad un sistema di controlli esogeno ma di fatto, in larga misura, alla stessa volontà dell'indagato/imputato, motivato dalla circostanza che la scoperta della violazione comporta conseguenze a lui pregiudizievoli (aggravamento delle prescrizioni medesime e/o apertura di un ulteriore procedimento penale a suo carico, laddove la violazione delle prescrizioni sia prevista come reato a sé, come nel caso degli arresti domiciliari).

La sola custodia in carcere non contiene alcuna prescrizione utile a garantirne l'osservanza, proprio perché la totale compressione della libertà personale e la detenzione della sua persona in mani altrui (i preposti all'istituto penitenziario) impedisce di per sé la mancata osservanza della misura da parte del soggetto passivo dell'ordinanza (fatta eccezione, ovviamente, per il caso di evasione, che a rigor di termini non è la inosservanza delle prescrizioni inerenti il carcere ma la fuga dal luogo di contenzione).

Per la custodia in carcere non si pone peraltro alcuna esigenza di contemperare le esigenze cautelari con la prosecuzione delle attività lavorative e/o sociali ed affettive di cui si è detto in principio, e conseguentemente viene meno l'interesse del destinatario alla vicinanza al proprio contesto territoriale di appartenenza.

Tanto premesso in ordine alle misure cautelari cui non si applica la nuova normativa, non è agevole stabilire con precisione a quali delle altre misure cautelari previste dal nostro codice di procedura penale il decreto legislativo si applichi, attesa l'imperfezione tecnica della definizione adottata nel testo.

Soccorre l'articolo 4, che contiene un elenco di misure cautelari per le quali è possibile il riconoscimento delle decisioni in ambito comunitario; questo elenco è parzialmente sovrapponibile al catalogo delle nostre misure cautelari:

  • la lettera a), che prevede una sorta di obbligo di reperibilità (obbligo di comunicare ogni cambiamento di residenza, in particolare al fine di assicurare la ricezione della citazione a comparire a un'audizione o in giudizio nel corso del procedimento penale) ai fini delle notificazioni degli avvisi di fissazione di udienza è assimilabile alla nostra elezione di domicilio; come noto, questo istituto è previsto ai fini di una proficua esecuzione delle notificazioni e l'invito disciplinato dall'articolo 161 del codice di procedura penale non è considerato alla stregua di una limitazione alla libertà personale, sicché non esiste possibilità di applicazione al nostro sistema processuale penale di questa previsione del decreto legislativo, almeno nella sua formulazione “attiva”. Nulla vieta invece di riconoscere un provvedimento di questo tipo emesso da un giudice di altro stato comunitario, e consentirne l'esecuzione nel nostro territorio;
  • la lettera b) dell'articolo 4 in esame ricomprende tutte le misure cautelari che impongono il divieto di frequentare determinati luoghi, posti o zone del territorio dello Stato di emissione: vi rientrano sicuramente il divieto di dimora (art. 283 c.p.p.) e il divieto di frequentare determinati luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.), nonché, ab implicito, l'allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.), anche se per queste ultime due misure è invocabile altresì la lettera f) dell'articolo 4 in esame, che disciplina l'obbligo di evitare contatti con determinate persone che possono essere a qualsiasi titolo coinvolte nel reato per il quale si procede;
  • le restrizioni del diritto di lasciare il territorio dello Stato di cui alla lettera d) dell'articolo 4 corrispondono senza dubbio alla misura cautelare del divieto di espatrio previsto dall'articolo 281 del nostro codice di procedura penale.
    Desta perplessità, a dire il vero, l'inclusione di questa misura cautelare nel novero di quelle per le quali è possibile il reciproco riconoscimento in ambito comunitario.
    Laddove l'autorità giudiziaria abbia disposto che il soggetto non si allontani dallo Stato italiano deve infatti ritenersi che la circostanza che egli lasci il territorio nazionale sia di per sé foriera di pericolo per le esigenze cautelari e che non vi sia alcun interesse da parte del giudice emittente a che il destinatario della misura scelga di non allontanarsi dal proprio Stato di residenza anziché dal nostro. Le prescrizioni inerenti la misura, in questo caso, verrebbero totalmente disattese proprio attraverso il riconoscimento della possibilità di scontare la misura in altro Stato. Tale misura cautelare sembra dunque di fatto incompatibile con il decreto legislativo in esame: nel momento in cui si autorizza qualcuno a lasciare lo Stato per tornare nel suo paese di residenza, cessa ogni tipo di controllo sui suoi movimenti, non potendosi imporre allo stato di residenza di adottare la prescrizione di non allontanarsi da questo, misura del tutto differente da quella originaria.
  • quanto all'obbligo di presentarsi nelle ore fissate all'autorità indicata nel provvedimento impositivo (lettera e)) corrisponde evidentemente all'obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria disciplinato dall'articolo 282 del codice di procedura penale.

Ne deriva che tutte le misure non custodiali previste dal nostro codice di procedura penale sono interessate dalla nuova disciplina contenuta nel decreto legislativo in esame.

La più importante tra le previsioni dell'articolo 4 del d.lgs. 36 del 2016 è quella ricompresa nella generica definizione della lettera c), costituita dall'obbligo di rimanere in un luogo determinato, eventualmente in ore stabilite: essa è applicabile senza dubbio alla misura cautelare degli arresti domiciliari disciplinata dall'articolo 284 del codice di procedura penale.

Tale misura cautelare è, come noto, equiparata a tutti gli effetti, nel nostro sistema processuale, a quella della custodia in carcere, per effetto della disposizione contenuta nel quinto comma dell'articolo 284 del codice di procedura penale che statuisce che l'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare.

Tra gli effetti di questa equiparazione, va ricordato che il periodo di tempo trascorso dall'imputato agli arresti domiciliari è calcolato, al pari di quello trascorso in carcere, come presofferto ai fini del calcolo della pena da espiare e che l'allontanamento ingiustificato dal luogo ove si è ristretti agli arresti domiciliari integra il reato di evasione (art. 385, comma 3, c.p.).

Ciò nonostante, il decreto legislativo in esame ricomprende anche gli arresti domiciliari nel focus di applicazione, segnando – almeno a questi effetti – una netta cesura con la misura cautelare della custodia in carcere.

Ne discende che sarà possibile da oggi ottenere l'esecuzione in altro stato comunitario della misura degli arresti domiciliari comminata dal giudice italiano, così come un nostro concittadino potrà ottenere di scontare nel domicilio in Italia una misura analoga comminata dall'autorità giudiziaria di altro stato della Comunità europea.

Principio analogo è del resto stato da tempo affermato dalla Corte di cassazione in relazione all'estradizione per l'estero, laddove si è precisato che l'assenza, nel regime normativo dello Stato richiedente, di una disciplina che contempli l'operatività di misure alternative alla detenzione, ovvero di criteri analoghi di computo del periodo di privazione della libertà sofferta agli arresti domiciliari, non consente di attribuire alla pena una funzione contrastante con le esigenze teleologiche proprie dell'ordinamento dello Stato richiesto, né comporta, soprattutto, la violazione dei diritti fondamentali dell'individuo (Cass. pen., Sez. VI, 23 gennaio 2009, n. 5400).

Peculiari problemi potrebbero porsi per gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, introdotti nel nostro sistema e disciplinati dall'articolo 275-bis del codice di procedura penale: laddove un cittadino di altro Stato chiedesse di eseguire tale misura nel proprio stato di appartenenza e questo non preveda sistemi di controllo elettronico a distanza assimilabili a quello menzionato, difficilmente il riconoscimento dell'ordinanza cautelare potrebbe operare e le nuove disposizioni previste dal d.lgs. 36 del 2016 resterebbero inoperanti.

Interessante, infine, la previsione della lettera g) dell'articolo 4, che estende l'ambito di operatività del decreto legislativo in esame alle misure che impongono il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali: si tratta all'evidenza di una misura interdittiva, l'unica in un gruppo interamente composto da misure coercitive.

L'estensione della disciplina sul riconoscimento delle decisioni cautelari anche alle misure interdittive non desta sorpresa, in quanto tali misure sono da sempre considerate una species delle misure cautelari al pari di quelle coercitive finora esaminate.

Peraltro, come noto, le modifiche apportate al sistema cautelare dalla legge 47 del 2015 hanno profondamente trasformato il rapporto tra le misure coercitive e quelle interdittive ed assegnato a queste ultime un ruolo nuovo, facendone – almeno potenzialmente – il perno del sistema cautelare.

È oggi imposta al giudice che emette un'ordinanza cautelare la valutazione della possibilità di applicare, in luogo della misura coercitiva della custodia in carcere, una pluralità di misure non custodiali anche contestualmente ad una misura interdittiva; quest'ultimo tipo di misure sono state rafforzate ed è stato esteso il loro termine di durata.

Tenendo presente queste recenti innovazioni legislative, stupisce semmai che il decreto legislativo 36 del 2016 abbia preso in considerazione solo una delle tre misure interdittive previste dal nostro codice di procedura penale tralasciando completamente le altre due, non meno importanti (basti pensare alla centralità della misura della sospensione dall'esercizio di un pubblico servizio prevista dall'articolo 289 del codice di procedura penale).

Il riconoscimento in Italia di misure cautelari emesse da Autorità giudiziaria di altro Stato comunitario

Il Capo III del decreto legislativo disciplina infine il procedimento di riconoscimento in Italia delle misure cautelari emesse dall'autorità giudiziaria di altro Stato comunitario.

Il procedimento segue in questo caso le regole inverse a quelle viste in precedenza ed anche i presupposti sono speculari a quelli previsti nel Capo II del testo legislativo in esame.

La competenza a decidere sul riconoscimento della misura cautelare emessa da giudice di altro stato appartiene alla Corte di appello, organo tradizionalmente competente per provvedimenti analoghi (si veda ad esempio l'articolo 730 c.p.p. per il riconoscimento delle sentenze emesse da giudice straniero).

I requisiti per il riconoscimento sono costituiti dalla richiesta avanzata dal cittadino italiano di adempiere alle prescrizioni inerenti la misura cautelare in Italia, dall'avere il destinatario della misura residenza in Italia e dalla esistenza nel nostro ordinamento di una misura cautelare che contiene obblighi o prescrizioni corrispondenti a quelli della misura emessa dal giudice comunitario.

In caso di difetto di una o più di queste condizioni, il giudice italiano può negare il riconoscimento e restituire gli atti.

Il fatto per il quale il cittadino italiano è stato sottoposto alla misura cautelare deve inoltre essere previsto come reato anche dalla legge italiana.

Sono poi previste all'articolo 11 numerose ipotesi di reato, caratterizzate da particolare gravità ed allarme sociale, per le quali il riconoscimento deve avvenire comunque, anche nell'ipotesi in cui non vi sia la corrispondente norma nel nostro codice: si tratta peraltro di ipotesi tutte codificate e che costituiscono fattispecie penale tipizzate (fatta eccezione per l'ipotesi di razzismo e xenofobia prevista alla lettera x) della norma in esame).

Il riconoscimento può essere rifiutato laddove manchino i requisiti; per la verifica degli stessi la Corte di appello può chiedere anche informalmente informazioni allo Stato dal quale proviene la decisione in esame.

Tra le cause tipizzate di mancato riconoscimento, vanno segnalate quelle relative alla violazione del ne bis in idem e quelle relative alle ipotesi che il reato sia estinto per prescrizione o il soggetto non sia imputabile.

L'effetto del riconoscimento è, specularmente a quanto visto nel paragrafo precedente, la presa in carico da parte dell'autorità giudiziaria italiana (nella specie, del procuratore generale presso la Corte di appello) degli obblighi di controllo e sorveglianza sull'adempimento delle prescrizioni inerenti la misura cautelare emessa dallo Stato comunitario.

Di particolare interesse la norma sulle conseguenze dell'eventuale violazione delle prescrizioni inerenti la misura cautelare: l'articolo 14, comma 3, del decreto legislativo in questo caso prevede la redazione da parte dell'Autorità giudiziaria italiana di un apposito modulo (Allegato II) da inviare all'autorità giudiziaria che ha emesso la misura, perché questa attivi le eventuali sanzioni o disponga gli eventuali aggravamenti delle prescrizioni.

Da tale norma emerge con chiarezza che la misura cautelare non viene recepita nel nostro ordinamento divenendo a tutti gli effetti equiparato ad un provvedimento applicativo di una misura cautelare emessa da un giudice italiano: ciò che viene trasmessa è la mera gestione della sorveglianza sull'adempimento delle prescrizioni.

Pertanto, in caso di violazione delle prescrizioni stesse, tutto quello che l'autorità giudiziaria italiana può fare è di segnalare, nelle dovute forme la circostanza all'autorità giudiziaria competente, che deciderà in conformità alle proprie regole la reazione adeguata.

In conclusione

Con l'entrata in vigore del decreto legislativo 36 del 2016 l'Italia recepisce un importante strumento di cooperazione nella gestione della repressione alle violazioni delle norme penali.

L'integrazione sempre crescente degli Stati della Comunità europea ha comportato che un numero sensibile di reati sono commessi da soggetti provenienti da altri stati della Ce, anche per l'assenza di limitazione alla circolazione degli individui da uno Stato all'altro.

In queste ipotesi, l'applicazione di una misura cautelare diversa dal carcere porta alla conseguenza che il destinatario è assoggettato a prescrizioni che di fatto lo vincolano a permanere nel territorio dello Stato emittente, con possibile sacrificio delle esigenze di lavorative, sociali e familiari in modo assai più stringente rispetto ai casi omologhi commessi da rei nel territorio di residenza.

Per ovviare a questa possibile distorsione, è ora possibile per il destinatario di una misura cautelare diversa dal carcere scegliere di fare rientro nel proprio Stato di residenza o in altro stato della Comunità europea.

La misura cautelare passerà in carico allo Stato di residenza che curerà il rispetto delle prescrizioni imposte dallo Stato in cui è stato commesso il reato.

In questo modo si determina un giusto contemperamento tra le esigenze individuali del soggetto che – va ricordato è comunque da considerarsi innocente fino all'emissione della sentenza definitiva – e le esigenze cautelari sottese alla misura cautelare che mantiene intatto il suo potere di protezione del processo e delle persone offese dai possibili fattori di pericolo.

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