Dall’Unione europea la prima direttiva sui diritti dei minori indagati o imputati

Glauco Giostra
18 Luglio 2016

L'11 giugno scorso è entrata in vigore la direttiva 2016/800/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, Sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali, cui gli Stati membri dovranno dare attuazione entro tre anni. Si tratta della prima direttiva specificamente diretta a stabilire norme minime comuni sulla protezione dei diritti di minorenni inquisiti o ricercati, anche nell'intento di rafforzare la fiducia degli Stati membri nei sistemi giudiziari penali degli altri Stati membri e quindi di facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale.

L'11 giugno scorso è entrata in vigore la direttiva 2016/800/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, Sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali, cui gli Stati membri dovranno dare attuazione entro tre anni. Si tratta della prima direttiva specificamente diretta a stabilire norme minime comuni sulla protezione dei diritti di minorenni inquisiti o ricercati, anche nell'intento di rafforzare la fiducia degli Stati membri nei sistemi giudiziari penali degli altri Stati membri e quindi di facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale (Considerando n. 2). Naturalmente, la direttiva si limita a stabilire norme minime, ben potendo gli Stati membri ampliare i diritti da essa stabiliti al fine di assicurare un livello di tutela più elevato (Considerando n. 67).

Al di là del giudizio sulle singole prescrizioni in cui si declina, si tratta di un provvedimento politicamente importante, perché afferma la necessità che la giustizia penale assicuri al minorenne (inteso – dall'art. 3 – come persona di età inferiore a diciotto anni) norme e professionalità tarate sulla specificità del suo stadio evolutivo, nella consapevolezza che la automatica applicazione del sistema “ordinario” comprometterebbe, da un lato, la possibilità di una adeguata partecipazione al procedimento del minorenne imputato, dall'altro, il suo fisiologico sviluppo psicologico. Si impone così agli Stati membri, i cui ordinamenti in materia presentano soluzioni accentuatamente diversificate, un minimo comune denominatore per garantire un equo processo minorile. Perplessità suscita, tuttavia, l'ambito applicativo della direttiva in esame, sia sotto il profilo soggettivo, che sotto quello oggettivo. Se destinatari delle garanzie in essa previste sono considerati plausibilmente i soggetti minori di età quando vengono sottoposti a procedimento penale, fortemente discutibile è che a costoro, una volta divenuti maggiorenni, le stesse non si continuino ad applicare a meno che non risultino appropriate alla luce di tutte le circostanze del caso, incluse la maturità e la vulnerabilità della persona interessata, e ferma restando la possibilità degli Stati membri di non applicarle comunque al compimento del ventunesimo anno di età (art. 2 par. 3). Dal punto di vista oggettivo, appare fortemente opinabile, nell'an e nel quomodo, la scelta di escludere tendenzialmente l'operatività della direttiva con riguardo all'evanescente categoria dei reati minori (art. 2 par. 6).

Quanto ai contenuti, la direttiva sembra proiettare sullo schermo sovranazionale le medesime problematiche nostrane: vi si registrano, infatti, da un lato, la meritoria individuazione degli imprescindibili livelli di garanzia da assicurare nella giurisdizione minorile e, dall'altro, più di una spia della tentazione di affidarle anche un improprio compito riabilitativo.

Sul primo versante, conforta costatare che il sistema processuale minorile italiano ha le carte abbastanza in regola rispetto alle prescrizioni della direttiva, che per larga parte impongono una più rigorosa disciplina delle garanzie già presenti nel nostro sistema. Si pensi al diritto del minorenne imputato ad essere sempre tempestivamente informato dei propri diritti (art. 4) e al dovere per l'Autorità giudiziaria di comunicare questi diritti anche al titolare della responsabilità genitoriale (art. 5); al diritto all'assistenza di un difensore (art. 6) a spese dello Stato (art. 18); alle tutele riguardanti il minore privato della libertà personale (artt. 9 e 12); alla specifica formazione professionale di tutte le figure che, a diverso titolo, possono avere contatto diretto con il minorenne nel corso del procedimento penale (art. 20). La direttiva, peraltro, appresta anche garanzie inedite rispetto al nostro rito minorile, quale quella – molto importante – della registrazione audiovisiva dell'interrogatorio da parte degli inquirenti (art. 9).

Si deve anche osservare, però, che questo rafforzamento di garanzie ha, per così dire, un grave punto di debolezza. Quasi sempre, infatti, si ammette la possibilità di prescindere dalle garanzie prescritte, in presenza di condizioni individuate in modo pericolosamente vago: agli Stati membri si consente spesso, ad esempio, di derogare in tutto o in parte alla garanzia di volta in volta prevista in considerazione delle circostanze del caso. Una possibilità di deroga a maglie pericolosamente lasche, cui non pone certo efficace rimedio la ricorrente clausola di salvaguardia, alla cui stregua la deroga è ammessa purché l'interesse superiore del minorenne sia sempre considerato preminente. Locuzione, questa, che attraversa l'intera direttiva come una sorta di basso continuo e la cui interpretazione può cambiare senso e ampiezza al sacrificio della garanzia cui si riferisce. Un conto è, infatti, che il preminente interesse del minore sia inteso come dovere di salvaguardarne l'equilibrio e lo sviluppo psicofisico, nonché di assicurarne la possibilità di difendersi al meglio nel processo; un conto che lo si intenda come dovere di farsi carico del suo recupero morale e sociale.

Non si avrebbero dubbi in ordine al fatto che il richiamato the best interest of the child debba essere inteso nel primo senso, se alcuni indizi testuali non aprissero preoccupanti brecce.

Quando nel Considerando n. 1 si enuncia che obiettivo della direttiva è stabilire garanzie procedurali affinché i minori indagati o imputati nei procedimenti penali siano in grado […] di evitare la recidiva, promuovendo il loro reinserimento sociale; quando nel Considerando n. 46 si indicano tra le misure alternative alla detenzione cautelare la partecipazione a programmi educativi quando l'art. 7 (diritto a una valutazione individuale) stabilisce nel suo primo comma che gli Stati membri provvedono affinché sia tenuto conto delle specifiche esigenze del minore in materia di protezione, istruzione, formazione e reinserimento sociale, è difficile sottrarsi alla sensazione che anche in ambito europeo si tenda ad escludere che vi possa essere un minorenne innocente e socialmente inserito che si trovi ad essere coinvolto in una vicenda processuale per un'accusa infondata. Più di un lapsus calami del “Legislatore europeo” sembra tradire l'idea, infatti, che la sola pendenza del processo costituisca titolo per farsi carico del recupero etico e sociale del soggetto coinvolto. Deriva, questa, da scongiurare anche nell'interesse stesso del minore.

Se smarrisce la sua finalità cognitiva per assumerne una pedagogico-correzionalistica, il processo penale da strumento per giudicare un fatto del passato diviene protocollo giudiziario di un intervento riabilitativo che guarda al futuro e le sue garanzie finiscono per essere percepite come involucri vuoti o, peggio, come ostacoli al conseguimento del risultato: il processo tradisce la sua funzione di accertamento per assicurare una sorta di educazione per via giudiziaria del minorenne, colpevole o innocente che sia. Ma se accusatore e giudice perseguono l'interesse educativo dell'imputato, non si comprende più per quale ragione siano tenuti a rispettare un determinato modus operandi, cioè forme e limiti legali che imbrigliano il loro impegno a favore dell'inquisito, né perché e da chi questi debba difendersi.

Emblematico, per l'appunto, quanto previsto in tema di assistenza di un difensore (art. 6). Dopo aver ineccepibilmente fissato il principio secondo cui gli Stati membri devono provvedere affinché il minore sia assistito senza indebito ritardo da un difensore (art. 6, par. 3), con la ricorrente tecnica derogatoria sopra criticata, si prevede che gli Stati possano derogarvi – a condizione che ciò sia compatibile con il diritto ad un equo processo – qualora l'assistenza del difensore non risulti proporzionata alla luce delle circostanze del caso, tenendo conto della gravità del reato contestato, della complessità del caso e delle misure che potrebbero essere adottate rispetto a tale reato. Parametri di giudizio palesemente inafferrabili, la cui evanescenza è aggravata, se possibile, dalla solita clausola di chiusura: fermo restando che l'interesse superiore del minore deve sempre essere considerato preminente. Questo criterio ultimo di bilanciamento, anzi, conferma quel sotterraneo tralignamento funzionale del processo minorile, anche nell'ottica europea. Una clausola come quella poc'anzi riportata ove riguardasse il processo a carico di adulti non avrebbe senso o, comunque sarebbe destinata a rimanere ineffettiva: il preminente interesse dell'imputato, infatti, è sempre quello di poter contare sull'assistenza di un difensore. La disposizione in esame, invece, dà per scontata la possibilità – altrimenti sarebbe in difficoltà di senso – che possa essere nell'interesse superiore del minore privarlo di un difensore. Difficile non cogliervi, in filigrana, un ragionamento del tipo: in determinate circostanze potrebbe anche non essere nell'interesse del minore “difendersi”, poiché tutti i soggetti processuali – giudice, pubblico ministero, servizi sociali – prendono in carico il minore, puntando alla sua riabilitazione. Eppure proprio nell'ottica dell'interesse del minorenne un processo che abbandoni il suo compito di accertamento della responsabilità modulando su presunte esigenze pedagogiche la risposta giudiziaria – spesso troppo blanda per il colpevole, sempre incomprensibile per l'innocente – è comunque votato all'insuccesso, nulla essendovi di più diseducativo di un'ingiustizia.

Se le considerazioni che precedono hanno qualche fondamento, al Legislatore italiano si richiede una speciale attenzione selettiva nel dare attuazione alla direttiva in esame. Da un lato, è auspicabile un impegno convinto non soltanto per introdurre nel nostro ordinamento quelle provvidenze, attualmente assenti, intese a modulare le forme procedimentali alle peculiarità del soggetto accusato ma anche per rafforzare quelle garanzie, pur attualmente previste, la cui realizzazione nel nostro sistema è ancora insoddisfacente o incompiuta. Dall'altro, si raccomanda al nostro Legislatore di non avvalersi degli ampi spazi derogatori previsti e, soprattutto, di non dar seguito normativo a taluni “sbandamenti” correzionalistici presenti nella direttiva in esame. La “disobbedienza” nazionale sarebbe, sotto il profilo formale agevolmente giustificabile, per il rispetto dovuto agli invalicabili principi costituzionali rappresentati dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.) e dal giusto processo, dato che il canovaccio di giurisdizione penale imbastito dall'art. 111 Cost. – su cui dovrebbero essere tessute le diverse species oggettivamente o soggettivamente settoriali – delinea un modello giurisdizionale di tipo cognitivo, un processo del fatto, di cui possono e debbono essere modulate le forme (in ragione del soggetto o dell'oggetto del procedimento), non certo le finalità.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.