Il profitto confiscabile nel solco dell’alternativa tra "reati contratto" e "reati in contratto"

Andrea Alberico
19 Gennaio 2016

Il già tortuoso percorso, nell'elaborazione giurisprudenziale, di una definizione stabile del profitto confiscabile si è rivelato ancor più accidentato quando l'illecito penale, che ha generato l'indebita locupletazione, poteva essere ricondotto alla categoria dei reati-contratto ovvero dei reati in contratto.
Abstract

Il già tortuoso percorso, nell'elaborazione giurisprudenziale, di una definizione stabile del profitto confiscabile si è rivelato ancor più accidentato quando l'illecito penale, che ha generato l'indebita locupletazione, poteva essere ricondotto alla categoria dei reati-contratto ovvero dei reati in contratto. Invero, la suddetta classificazione, pur rivelandosi utile nel superare la rigida alternativa tra profitto netto e profitto lordo, ha rivelato la sua fallibilità ogni volta che non è risultata univoca l'allocazione di singole fattispecie criminose all'interno dell'una piuttosto che dell'altra figura.

I limiti di una classificazione incerta

Come è noto, si parla di reati contratto in presenza di una vera e propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico: il legislatore punisce la stessa stipulazione del contratto, che infatti civilisticamente è sanzionato con la nullità (ad es. nel caso del contratto usurario, ovvero nella ricettazione); di contro, si parla di reati in contratto allorché il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere solamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale.

Nell'ipotesi di reato contratto, dunque, è tendenzialmente irrilevante ciò che è avvenuto nel corso delle trattative, ovvero nella fase esecutiva del negozio: è la conclusione dell'accordo a determinare l'illiceità penale. Si pensi all'acquisto di sostanza stupefacente: lo schema astratto è quello di un contratto di vendita di cosa mobile ma la conclusione del negozio integra il fatto di reato perché l'oggetto dello stesso è illecito secondo l'ordinamento penale.

Esattamente opposto, in linea generale, il paradigma di illiceità negoziale che caratterizza i reati in contratto. Come si diceva, in tali situazioni il negozio non è illecito in sé ma ne è viziata la fase genetica (delle trattative), ovvero quella esecutiva. L'oggetto e la prestazione contrattuale appaiono ‘neutri' per l'ordinamento penale; non così il procedimento di formazione della volontà delle parti, ovvero l'esecuzione delle rispettive prestazioni. Si pensi alla truffa, ovvero alla circonvenzione di incapaci: i negozi conclusi dal deceptus sono perfettamente leciti; non così il procedimento di formazione della volontà negoziale, inquinato dalle azioni truffaldine di uno dei contraenti o di un terzo.

La distinzione proposta dalla dottrina, per quanto di primo acchito possa sembrare sufficientemente affidabile, non sempre supera indenne il banco di prova della prassi, ove, in ragione delle peculiarità del caso concreto, può risultare difficile convalidarne i presupposti.

Prima di affrontare gli hard cases conosciuti in giurisprudenza, è bene ricordare in che modo si è fatta strada la distinzione in esame nella individuazione del profitto confiscabile.

Profitto confiscabile, "reati contratto" e "reati in contratto" nella giurisprudenza a partire dalle Sezioni unite 2008

Nel solco della dicotomia in esame, le Sezioni unite n. 26654/2008 (nella nota vicenda Impregilo) hanno potuto superare l'asettica alternativa tra profitto lordo (o Bruttoprinzip) e profitto netto (o Nettoprinzip), privilegiando una indagine che muovesse dalla liceità, ovvero dalla illiceità, dell'attività economica considerata.

Questa posizione, coerente con la natura sanzionatoria della confisca, si presentava infatti come l'unica in grado di contemperare lo strumento repressivo con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale e con la finalità rieducativa della pena, per raggiungere la quale si deve necessariamente passare attraverso la proporzionalità della sanzione.

Secondo il massimo organo nomofilattico, dunque, nei reati contratto, che si connotano per la piena sovrapponibilità tra negozio e illecito penale, è confiscabile l'intero importo della prestazione, ritenendosi punibile l'accordo in quanto tale: il contratto, cioè, è viziato da illiceità genetica, che frustra l'intero assetto patrimoniale prescelto dalle parti.

Nei reati in contratto, diversamente, non è ravvisabile una siffatta illiceità genetica nell'accordo contrattuale, con la conseguenza che dovrà scindersi la componente della prestazione viziata da quella che rimane comunque lecita, il cui valore non potrà essere oggetto di confisca.

L'impostazione è stata anche sviluppata dalla giurisprudenza successiva (Cass. pen., Sez. II, n. 11808/2011), a mente della quale nel caso di “reato in contratto" il profitto tratto dall'agente non è interamente ricollegabile alla condotta penalmente sanzionata, giacché la legge penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale tout court, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell'altra.

Il ragionamento della II Sezione si snoda a partire dalle seguenti premesse: se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell'aggiudicatario di un appalto pubblico, ma poi l'appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all'intero prezzo dell'appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica. E conclude la sentenza: Tale vantaggio corrisponde, quindi, all'utile netto dell'attività di impresa.

Il caso della truffa

Come si accennava in premessa, il richiamo alla dicotomia reati contrattoreati in contratto, se astrattamente consente di raggiungere un criterio stabile nella determinazione del profitto confiscabile, impone, preliminarmente, che vi sia accordo sulla riconducibilità di una singola ipotesi criminosa all''una piuttosto che all'altra classe.

Ed invero, proprio la nomenclatura in esame può essere il volano per determinare risultati contraddittori.

Ciò che è puntualmente accaduto nella giurisprudenza in tema di confisca di profitto ottenuto da fatti di truffa (prevalentemente finalizzata all'ottenimento di erogazioni pubbliche, o comunque in danno dello Stato).

In una pronuncia ancora abbastanza recente, rimasta isolata nel panorama di legittimità, ma che ha avuto un discreto seguito nella giurisprudenza di merito, la Corte ha affermato che La confisca per equivalente ex art. 322-ter cod. pen., ed il relativo sequestro preventivo, nei cosiddetti <<reati-contratto>>, possono avere ad oggetto l'intero prezzo del reato, senza necessità di distinzione tra questo ed il profitto. (Fattispecie in tema di truffa ai danni dello Stato) (Cass. pen., Sez. II, n. 20976/2012).

La sentenza in questione, oltre che fortemente criticata in dottrina, appare anche in insanabile contrasto con quanto stabilito dalle Sezioni unite nella sentenza Impregilo. È dunque opportuno segnalare i motivi di attrito tra questo orientamento e quello precedente a sezioni unite.

Tutto il percorso decisorio della sentenza resa dalla Corte nella particolare composizione muoveva da questa premessa: le condotte truffaldine realizzate a monte o a valle della stipula di un contratto integrano un reato in contratto, con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente. Ed infatti, nel caso ivi sub iudice, l'illecito “amministrativo” addebitato alle imprese aggiudicatarie del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani nelle province campane dipendeva proprio dal delitto di truffa (art. 640 cpv. c.p.). Invece, nell'arresto della II Sezione qui in esame, dopo la citazione di rito della massima delle Sezioni unite, si conclude in modo antitetico: nella specie, il reato per il quale è stato disposto il sequestro è costituito da una truffa ai danni dello Stato. Trattasi di un “reato contratto”, alla stregua della ricostruzione giuridica della figura illustrata nelle pagine precedenti. Consegue che, essendovi la totale immedesimazione del reato con il negozio giuridico, l'intero prezzo è sequestrabile, senza fare alcun riferimento alla distinzione fra questo ed il profitto.

Verrebbe da credere che una simile conclusione sia figlia dell'eccessivo affidamento, da parte della sentenza Impregilo, in una categorizzazione dottrinale (la distinzione tra reati-contratto e reati in contratto) forse ancora non sufficientemente consolidata in giurisprudenza e della quale, peraltro, manca una catalogazione definitiva.

Cionondimeno, in dottrina, se v'era un reato di cui non si dubitava circa la sua riconducibilità al novero dei reati in contratto, questo era proprio la truffa.

Riprova della malintesa applicazione della sentenza Impregilo è contenuta, ancora una volta, nel corpo motivo della medesima decisione delle Sezioni unite.

La Corte, proprio dopo aver esplicitato l'incidenza della distinzione tra reati-contratto e reati in contratto' ai fini della determinazione del profitto confiscabile, precisa: È il caso proprio del reato di truffa di cui si discute, che non integra un "reato contratto", considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell'altra. Trattasi, quindi, di un "reato in contratto”.

La giurisprudenza più recente

La Corte è tornata sul tema con due arresti molto recenti, nei quali sembrerebbe aver definitivamente abbandonato le incertezze dimostrate nella segnalata decisione in tema di truffa aggravata.

Sul finire del 2014, infatti, riaffermando convintamente i postulati della sentenza Impregilo, la Corte ha statuito che In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un'ipotesi di cd. reato in contratto, il profitto confiscabile ex art. 19 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere determinato da un lato, assoggettando ad ablazione i vantaggi di natura economico-patrimoniale costituenti diretta derivazione causale dell'illecito così da aver riguardo esclusivamente dell'effettivo incremento del patrimonio dell'ente conseguito attraverso l'agire illegale e, dall'altro, escludendo i proventi eventualmente conseguiti per effetto di prestazioni lecite effettivamente svolte in favore del contraente nell'ambito del rapporto sinallagmatico, pari alla "utilitas" di cui si sia giovata la controparte. (Nell'affermare il principio, la Corte ha evidenziato che rientrano nel profitto confiscabile anche le somme percepite in relazione a prestazioni del tutto superflue nell'economia del contratto, o eseguite con modalità non conformi a quanto convenuto) (Cass. pen., Sez. VI, n. 53430/2014).

La sentenza si segnala sia per la precisa definizione della confisca come sanzione, sia perché è stata resa proprio in tema di truffa, fattispecie che il Tribunale di merito aveva erroneamente qualificato reato contratto.

Al contrario la Corte, ribadita l'esatta allocazione della truffa tra i reati in contratto, ne ha fatto seguire la necessità di selezionare il profitto confiscabile, che non coincide con l'intero ammontare della prestazione: Soltanto rispetto alla differenza fra l'intero valore del contratto ed il valore della prestazione effettivamente svolta a vantaggio della controparte è, difatti, possibile affermare che l'ente abbia tratto un'utilità economicamente valutabile quale frutto immediato e diretto dell'illecito, laddove la seconda voce – cioè il corrispettivo percepito dall'ente in stretta correlazione alla prestazione eseguita – rappresenta un vantaggio economico conseguenza di un'attività lecita e non trova in effetti la sua causa nel reato.

Ancora più recente, poi, Cass. pen., Sez. VI, n. 9988/2015, a mente della quale In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto conseguito attraverso un reato c.d. in contratto (annullabile perché viziato nella fase preparatoria o di stipula, ma suscettibile di regolare e lecita esecuzione, a differenza dei c.d. reati contratto, radicalmente contaminati da illiceità), il profitto confiscabile deve essere determinato, da un lato, assoggettando ad ablazione i vantaggi di natura economico-patrimoniale costituenti diretta derivazione causale dell'illecito, così da aver riguardo esclusivamente dell'effettivo incremento del patrimonio dell'agente derivante dalla sua condotta illecita, e, dall'altro, escludendo - nei limiti dei c.d. costi vivi - i proventi eventualmente conseguiti per effetto di prestazioni lecite effettivamente svolte in favore del contraente nell'ambito del rapporto sinallagmatico, pari alla "utilitas" di cui si sia giovata la controparte. (Nell'affermare il principio, la Corte ha evidenziato che rientrano nel profitto confiscabile anche le somme percepite in relazione a prestazioni del tutto superflue nell'economia del contratto, o eseguite con modalità non conformi a quanto convenuto).

La sentenza è nuovamente resa in tema di truffa e ribadisce pedissequamente le conclusioni dell'arresto appena richiamato. Merita notare, in particolare, come la Corte detti le coordinate per procedere allo scomputo – dal profitto – del prezzo versato per l'esecuzione della prestazione oggetto del contratto. Così conclude la sentenza: l'utilitas non può essere commisurata al prezzo indicato nel contratto, in ipotesi viziato dall'attività illecita, né al valore di mercato della prestazione ivi prevista, in quanto di necessità inglobanti anche un margine di guadagno per l'ente, un utile d'impresa, un quid pluris rispetto al valore "nudo" della prestazione, che non può essere riconosciuto per le ragioni sopra esplicitate. Ed invero, solo impedendo che dal profitto confiscabile venga defalcato il margine di guadagno tratto dall'ente dalla commessa oggetto dell'illecito, è possibile evitare il "risultato paradossale" in evidente contrasto con la voluntas legis - stigmatizzato da taluna dottrina -, secondo cui, in caso di esatto adempimento del contratto pur inquinato dall'illecito, potrebbe in concreto non configurarsi nessun profitto confiscabile, pur avendo l'ente tratto dall'attività illecita un vantaggio da un punto di vista economico, rappresentato appunto dall'utile di impresa.

In conclusione

Alla luce di quanto analizzato, è possibile segnalare una confortante stabilizzazione della giurisprudenza di legittimità nel ricorso alla dicotomia reato contrattoreato in contratto nella ricostruzione del profitto confiscabile.

Nonostante iniziali tentennamenti dovuti alla difficoltà di catalogare definitivamente le singole fattispecie criminose all'interno dell'una piuttosto che dell'altra classe, gli ultimi arresti di legittimità consentono di tracciare delle coordinate ermeneutiche condivise e condivisibili.

Certo, il ricorso a nomenclature, se mal adoperate, può sempre dare luogo a “truffe delle etichette” ma pare potersi affermare che siffatto rischio, già corso nel recente passato, sia stato neutralizzato dall'allineamento di giurisprudenza e dottrina su posizioni coerenti con i principi e praticabili nella realtà giudiziaria.

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