Ne bis in idem e reati tributari: la Corte costituzionale restituisce gli atti per jus superveniens

20 Luglio 2016

Restituiti al giudice rimettente gli atti relativi alla Q.L.C. dell'art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede il divieto di un secondo giudizio nel caso in cui all'imputato sia già stata applicata una sanzione amministrativa avente natura penale.
Massima

Deve essere disposta la restituzione al giudice rimettente degli atti relativi alla questione di illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. in relazione all'art. 10-ter, d.lgs. 74 del 2000, nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui all'imputato sia già stata applicata, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Cedu e dei relativi Protocolli.

Il caso

Con ordinanza n. 136 del 21 aprile 2015, il tribunale di Bologna ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., in relazione all'art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui all'imputato sia già stata applicata, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione Edu e dei relativi Protocolli, per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98.

Infatti, davanti al giudice remittente pendeva il giudizio penale a carico di un contribuente, imputato del reato di cui al citato art. 10-ter d.lgs. 74/2000 per non aver versato, entro il termine di legge, l'Iva dovuta dalla società, di cui era il legale rappresentante, in base alla dichiarazione annuale del 2008, per un importo di complessi euro 378.180,71. L'imputato, al momento del processo, aveva già provveduto al pagamento delle somme dovute a titolo di imposta non versata, sanzioni amministrative ed interessi, ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.

La questione

Secondo il giudice bolognese, nel caso di specie, trova applicazione il principio del ne bis in idem sancito dall'art. 4, Prot. 7 alla Cedu, essendo state applicate le sanzioni amministrative di cui all'art. 13 del d.lgs. 471 del 1997 per lo stesso fatto costituente il reato di cui all'art. 10-ter del d.lgs. 74 del 2000, sicché il procedimento penale rappresenterebbe un secondo giudizio vietato dalla norma convenzionale, come del resto già precisato dalla Corte di Strasburgo in casi analoghi a quello in esame, in particolare nelle sentenze 20 maggio 2014, Nykänen contro Finlandia, e 27 novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia.

Il meccanismo del c.d. doppio binario sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per gli illeciti tributari e l'applicabilità cumulativa in relazione allo stesso fatto delle sanzioni previste dall'art. 13 del d.lgs. 471/1997 violerebbe, difatti, la Cedu e, conseguentemente, l'art. 117, comma 1, Cost. per via della natura penale dell'illecito amministrativo in questione, secondo l'interpretazione fatta propria dalla Corte Edu, a partire dalla nota sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi dell'8 giugno 1976 (nello specifico, al fine di individuare la natura penale o meno di una sanzione tributaria, sono stati elaborati tre criteri alternativi, quali la qualificazione giuridica della sanzione nel diritto nazionale, la natura di questa ed il grado di severità della misura stessa).

L'approccio sostanziale adottato dalla Corte Edu, svincolato dal nomen iuris attribuito dallo Stato dell'Unione, è stato successivamente ribadito dalla sentenza della Corte Edu del 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia, nonché dalla sentenza del 4 marzo 2014 Grande Stevens e altri c. Italia.

Con la prima la Corte ha elaborato un'interpretazione uniforme del concetto di same offence, basato sul fatto nella sua concreta materialità, dal momento che il confronto tra norme di tipo logico-formale sotteso al principio di legalità pone l'accento sulla struttura legale astratta della fattispecie (legal characterisation).

Nell seconda decisione, la Corte Edu ha, invece, rilevato l'incompatibilità con il divieto convenzionale del bis in idem del regime del doppio binario sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per gli abusi di mercato, basandosi su due consolidati orientamenti della giurisprudenza di Strasburgo. In particolare, circa il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione amministrativa comminata dal Tuf per gli abusi di mercato, la sentenza in questione valorizza i criteri interpretativi ormai consolidati nella giurisprudenza convenzionale, vale a dire i cc.dd. criteri Engel; mentre, per quanto riguarda in relazione allo scrutinio dell'identità del fatto, la sentenza mette in luce la necessità di un accertamento in concreto della disamina degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte.

Come rilevato dal giudice bolognese, tale interpretazione è stata, inoltre, fatta propria anche dalla Consulta nella sentenza n. 196 del 2010, ove afferma espressamente che tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo, al di là della loro qualificazione formale, devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto.

Sotto il profilo della normativa interna, il giudice remittente evidenzia come l'intero impianto del d.lgs. 74/2000 sia orientato al principio del doppio binario sanzionatorio.

L'art. 13 d.lgs. 471/1997 prevede la possibilità di cumulo della sanzione penale (pur se diminuita) e di quella amministrativa, subordinando l'applicazione della circostanza attenuante al pagamento del debito tributario comprensivo della sanzione; il comma 2-bis subordina, altresì, l'accesso al giudizio di applicazione della pena su richiesta (artt. 444 e ss. c.p.p.) alla ricorrenza della circostanza attenuante di cui al primo comma.

All'art. 20 d.lgs. 74/2000 viene, inoltre, prevista l'autonomia del procedimento amministrativo di accertamento e del processo tributario in pendenza di quello penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.

Il problema del cumulo delle sanzioni dovrebbe essere risolto nel nostro ordinamento dal principio di specialità così come sancito, con specifico riferimento alla materia tributaria, dall'art. 19 del d.lgs. 74/2000, secondo cui quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II del decreto in esame e da una che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale.

Nondimeno, come ricordato dal tribunale bolognese, le Sezioni unite penali della Cassazione, chiamate a dirimere il contrasto sorto in relazione al rapporto tra l'illecito amministrativo di cui all'art. 13 d.lgs. 471/1997 e quello penale di cui all'art. 10-bis del d.lgs. 74/2000, hanno escluso che tra le due norme sussista un rapporto di specialità e hanno ritenuto, invero, sussistente un rapporto di progressione criminosa (cfr. Cass. pen., Sez. un. 28 marzo 2013, nn. 37424 e 37425).

Anche il meccanismo previsto dall'art. 21, d.lgs. 74/2000 dovrebbe in astratto essere idoneo a scongiurare il cumulo delle sanzioni, nella misura in cui si prevede la sospensione della riscossione della sanzione amministrativa fino alla definizione del giudizio penale (eseguibilità, viceversa, consentita nel solo caso in cui il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto).

Tuttavia, in considerazione della natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative tributarie secondo l'interpretazione della Corte Edu, è proprio quest'ultimo meccanismo – sottolinea il giudice remittente – che si pone in evidente contrasto con la logica garantistica del divieto del bis in idem di cui all'art. 4, Prot. VII CEDU, dal momento che, proprio a seguito di una sentenza definitiva di assoluzione in sede penale, riprende vigore l'esecuzione di una sanzione che ha carattere sostanzialmente penale e che viene irrogata in relazione alle medesime condotte. Con la precisazione che, in ogni caso, si verifica una violazione del medesimo principio in chiave processuale, laddove si consente che si determini aprioristicamente, al culmine di un procedimento amministrativo di accertamento o eventualmente di un contezioso tributario, una sanzione di natura afflittiva avente natura analoga a quella penale.

Pertanto, nella prassi può succedere che alla sanzione penale si aggiunga quella prevista dall'art. 13, d.lgs. 471/1997 già inflitta (nella fattispecie, infatti, ci si trova dinanzi a due procedimenti scaturenti dagli stessi fatti, in quanto medesima è la violazione posta in essere dall'imputato che ha dato luogo, da un lato, al procedimento amministrativo di accertamento e, dall'altro, al procedimento penale).

In conclusione, e alla luce di quanto precede, il tribunale di Bologna ritiene che la pronuncia manipolativa invocata appare l'unico rimedio idoneo a scongiurare l'incompatibilità del regime del doppio binario previsto dal legislatore italiano in materia tributaria con il divieto convenzionale di bis in idem.

Le soluzioni giuridiche

La Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 112 del 8 marzo 2016 (depositata il 20 maggio 2016), ha disposto la restituzione degli atti al giudice remittente per una nuova valutazione in ordine alla rilevanza della questione alla luce delle novità introdotte, nelle more del giudizio, dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23).

Tale provvedimento legislativo è, infatti, intervenuto in materia di reati tributari, innovando, da un punto di vista sistematico, anche il rapporto tra gli illeciti penali e amministrativi in questione, modificando alcune delle disposizioni prese in considerazione dal giudice rimettente, e segnatamente gli artt. 10-ter e 13 del d.lgs. 74 del 2000.

In particolare, l'attuale formulazione dell'art. 10-ter d.lgs. 74/2000 prevede che l'omesso versamento dell'Iva dovuta sulla base della dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo, sia punibile con la reclusione da sei mesi a due anni se l'ammontare del versamento è superiore a 250.000 euro (e non più a 50.000 euro).

Mentre il “nuovo” art. 13 contempla una causa di non punibilità per i reati di omesso versamento delle ritenute, omesso versamento Iva ed indebita compensazione se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, venga effettuato il pagamento dell'imposta dovuta e delle sanzioni amministrative. In tal caso, inoltre, il pagamento integrale degli importi dovuti potrà avvenire anche per effetto delle speciali procedure conciliative (in particolare, la conciliazione giudiziale di cui all'art. 48, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) e di adesione all'accertamento (v. d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218), nonché attraverso il ravvedimento operoso, disciplinato dall'art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

Alla luce di tali modifiche, osservano i giudici costituzionali, spetta – come già peraltro riconosciuto nella precedente ordinanza n. 225 del 2015al giudice rimettente valutarne le complesse ricadute nel giudizio a quo, specie in termini di rilevanza.

Osseravzioni

Posto che, in materia di illeciti tributari, le due discipline, vecchia e nuova, differiscono tra loro per una serie di particolari in precedenza segnalati, dalla Corte costituzionale non ci si poteva aspettare altra soluzione se non quella di restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione sulla rilevanza della questione alla luce del mutato quadro normativo.

Il tribunale di Bologna dovrà, quindi, valutare se persista la rilevanza della questione, alla luce non tanto delle nuove soglie di punibilità (certamente superate nel caso di specie, trattandosi di un debito Iva di circa € 378.000), quanto piuttosto dell'eventuale sussistenza degli estremi della nuova causa di non punibilità di cui all'art. 13-bis d.lgs. 74/2000 che prevede l'estinzione del reato qualora l'imputato abbia saldato il proprio debito con l'Agenzia delle Entrate prima dell'apertura del dibattimento di primo grado.

Nell'ipotesi in cui l'imputato, come nel caso di specie, abbia già provveduto al pagamento delle somme dovute a titolo di imposta non versata, sanzioni amministrative ed interessi, ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, la riforma potrebbe verosimilmente aver attenuato gli effetti del doppio binario sanzionatorio.

Certo è che il problema resta aperto, specialmente in relazione ai casi in cui l'imputato non abbia provveduto al pagamento della sanzione amministrativa per via del disposto dell'art. 21, d.lgs. 74/2000: in simili evenienze, infatti, permane la violazione del ne bis in idem processuale e, conseguentemente, dell'art. 4 del protocollo n. 7 così come stabilito dalla Corte Edu nelle sentenze sopra riportate.

In tale contesto, in attesa dell'intervento della Corte di giustizia – invocato dal tribunale di Bergamo, con l'ordinanza del 16 settembre 2015, attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale di cui all'art. 267 T.F.Ue, per valutare la conformità del nostro sistema sanzionatorio sull'omesso versamento Iva con l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – pare che l'effettivo adeguamento dell'ordinamento interno alle disposizioni Cedu non possa che passare attraverso un'organica riforma legislativa.

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