La tutela dei principi professionali nell’esercizio della difesa penale

19 Settembre 2016

L'art. 9 del nuovo codice deontologico forense (Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza), situata tra i principi generali (Titolo I), è norma deontologica di fondamentale importanza che ricomprende le prescrizioni di condotta già contemplate, nel codice deontologico del 1997, dagli articoli 5 (Doveri di probità, dignità e decoro) e 10 (Dovere di indipendenza).
Abstract

L'art. 9 del nuovo codice deontologico forense (Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza), situata tra i principi generali (Titolo I), è norma deontologica di fondamentale importanza che ricomprende le prescrizioni di condotta già contemplate, nel codice deontologico del 1997, dagli articoli 5 (Doveri di probità, dignità e decoro) e 10 (Dovere di indipendenza). La radice di tali doveri deontologici si trova non solo nella legge professionale, in particolare negli artt. 2 e art. 3 della l. 31 dicembre 2012 n. 247 ma anche in altre parti dell'ordinamento, ad esempio nell'art. 2233, comma 2, c.c. (adeguatezza del compenso al decoro della professione) e nell'art. 105, comma 4, c.p.p. (riserva disciplinare per i casi di violazione da parte del difensore dei doveri di lealtà e probità).

L'articolo 9 del nuovo codice deontologico

Tra i vari doveri professionali enunciati nella prima parte dell'attuale codice deontologico, quelli contemplati dall'articolo 9 del nuovo codice deontologico, appaiono strettamente connessi alla descrizione della figura dell'avvocato delineata nell'art. 1 del codice deontologico (L'Avvocato). In tale norma di esordio, l'inestimabile valore della funzione costituzionale del diritto alla difesa è infatti affidato all'impegno professionale ed alla missione dell'avvocato, destinatario di obblighi deontologici gravosi, proprio perchè rapportati alle alte finalità di tutela della Giustizia, nella prospettiva difensiva orientata non solo a tutela degli individui, ma anche a quella del generale interesse alla conformità delle leggi ai principi costituzionali ed alla tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali. L'articolo contiene una doppia regolamentazione: la prima dedicata all'esercizio della professione e la seconda destinata ad operare anche al di fuori dell'attività forense. E così il primo comma della norma in esame recita: L'avvocato deve esercitare l'attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. Si è al cospetto dunque di un vero e proprio decalogo per lo svolgimento deontologico della pratica attività forense, dove, ai doveri di probità, dignità e decoro, si affiancano ulteriori requisiti che l'avvocato è onerato d'osservare, come lealtà e correttezza, indipendenza, diligenza e competenza. Lo stesso comma è arricchito dal richiamo all'attenzione che l'avvocato deve sempre rivolgere al fatto che, svolgendo il proprio ministero, egli adempie ad un ruolo di valenza costituzionale ed a compiti essenziali per la società. Sembra invece leggermente dissonante, rispetto alla solennità dell'enunciato che la precede, la chiusa di questo comma, dove il Legislatore deontologico ha, in un certo senso, abbassato il livello del discorso, per esprimere, prendendo atto dell'inarrestabile percorso della dimensione imprenditoriale che avvolge ormai anche le professioni liberali, un richiamo alla sfera del confronto concorrenziale, che l'avvocato, così come nelle altre situazioni del suo quotidiano ufficio, dovrà comunque affrontare in modo leale e corretto. Il secondo comma dell'art. 9 del nuovo codice deontologico forense, stabilisce che: L'avvocato, anche al di fuori dell'attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense. Tale comma, che echeggia testualmente quanto già previsto dall'art. 2 codice deontologico forense (Norme deontologiche e ambito di applicazione - Le norme deontologiche (..) si applicano anche ai comportamenti nella vita privata, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l'immagine della professione forense) di fatto estende la necessaria osservanza dei tre doveri indicati anche ai momenti della vita privata ed estranei all'esercizio della professione ma pur sempre connotati da una apprezzabilità esterna, nei quali eventuali comportamenti contrari rischiano di offuscare la reputazione individuale o collettiva dell'avvocatura. Si osserva infine che l'inserimento di tale norma nell'ambito dei principi generali (artt. 1-22) comporta che la violazione dei doveri ivi elencati possa essere sanzionata soltanto ove essa rientri nell'ambito delle condotte tipizzate nella seconda parte del codice deontologico (artt. 23 e ss.)

Dovere di probità

L'avvocato deve essere probo per definizione. Per i latini il retore era appunto un modello di civili virtù, tanto da essere qualificato da Catone: Vir bonus, dicendi peritus; un uomo cioè non solo onesto ma anche padrone della parola. Probità e comunicazione vengono quindi, da millenni ormai, collegate strettamente tra loro come connotati distintivi dell'avvocato. Qualità morali e capacità tecniche anche ai giorni nostri sono indivisibilmente compendiate nella multiforme attività dell'avvocato, non più relegata alla pronuncia dei discorsi nel Foro, influenzandosi reciprocamente in maniera inevitabile, quanto necessaria. Il diritto di prendere la parola in difesa di una parte è un privilegio che viene riconosciuto all'avvocato. E non solo per ragioni tecniche ma anche in forza dei requisiti morali di cui gli avvocati sono portatori. In tal modo il pregiudizio verso l'accusato anche dei più gravi reati viene in qualche misura depotenziato dall'intervento mediatore dell'immagine irreprensibile del suo difensore. Gli argomenti difensivi possono così ottenere agli occhi del giudicante una posizione di equilibrio rispetto agli argomenti dell'accusa, favorendo l'equità del giudizio. Rettitudine ed onestà sono dunque virtù che l'avvocato, secondo il dettato dell'art. 9 cod. deont. non può permettersi di esercitare a singhiozzo,ma con ininterrotta attenzione sia nella vita professionale, sia in quella privata, per essere davvero quello che la collettività da lui si attende e cioè un professionista che si situa agli antipodi dell'azzeccagarbugli (come intitola in suo saggio Alarico Mariani Marini). Solo così la tecnica del difensore, lungi dallo scadere in tecnicismo, può aspirare ad essere un'arte.

Dovere di dignità

Secondo il DANOVI nell'enunciazione del principio in questione, il codice deontologico si riferisce al contegno da serbare nei rapporti umani e sociali, sinonimo di prestigio, onore e rispetto. Sono doveri e diritti che l'avvocatura nel suo complesso ha rischiato di veder affossati nella massificazione dei mestieri e delle professioni, nella visione mercatoria dei rapporti umani, nella perdita progressiva dell'identità e dell'appartenenza. Ma proprio perché doverosa la dignità, obbligo del singolo avvocato, se custodita e presidiata da ciascuno potrà tornare a vantaggio di tutti. Nel processo penale l'avvocato deve sempre dignitosamente comportarsi e quindi – ad esempio – non indulgere mai ad atteggiamenti di piaggeria nei confronti dei magistrati, siano essi pubblici ministeri o giudici, verso i quali è certamente dovuto il conveniente rispetto, ma non certo un qualsiasi comportamento di sudditanza. Sarebbe questo oltre che contrario al dovere in parola, anche un grave errore strategico, facendo apparire il difensore nel processo un fragile figurante e conseguentemente indebolendo la credibilità e l'efficacia del suo impegno difensivo. Egualmente in modo dignitoso il difensore affronta le difficoltà del processo penale, non dovendo mostrare eccessivamente la soddisfazione per i risultati positivi, né la delusione quelli sfavorevoli, rimarcando verso i clienti quelli che sono i compiti, ma anche i limiti dell'attività difensiva, limiti che non possono essere travalicati solo per soddisfare le richieste a volte improprie dell'assistito.

Dovere di decoro

Tra i doveri in esame questo è quello destinato ad operare nella sfera più visibile ed esteriore. Il comportamento ed il tratto dell'avvocato hanno dunque da essere decorosi, poiché è anche e soprattutto attraverso tali aspetti che il rispetto del dovere deontologico in parola viene trasmesso e recepito. Sicché il decoro viene proprio a manifestarsi nell'aspetto, nei modi e nell'agire dell'avvocato, che si atteggiano in modo confacente alla condizione sociale ed al ruolo rivestito, in tutti i momenti della sua vita pubblica e privata. Soffermandoci per sintesi alla vita forense, è evidente che, se non è in discussione l'ovvia opportunità che il contegno, e l'abito del difensore siano adeguati al luogo in cui esercita la sua professione, è però da sottolineare come sia indispensabile per il penalista – in aggiunta – una particolare cura vero il significato fortemente simbolico e comunicativo della toga che indossa nelle aule di giustizia. Quella nera sopravveste ai giorni nostri purtroppo appare correre il rischio di essere considerata solo un orpello inutile o peggio un fastidioso retaggio del passato. È invece vero il contrario: la toga resta il laico paramento che distingue i protagonisti del processo: giudici, pubblici ministeri, avvocati e altri operatori di giustizia, come cancellieri e ufficiali giudiziari, ciascuno nel proprio ruolo, sono accomunati anche esterioramente proprio dalla toga, opportunamente distinguibile per foggia ed accessori a seconda del ruolo e della funzione di chi la indossa. Indossarla decorosamente ed adeguatamente vuol dire esprimere il dovuto rispetto per la Giustizia ma anche pretendere un eguale rispetto per l'alta funzione della difesa. Vestire la toga con decoro, ha dunque anche una parte importante nella complessiva strategia processuale del difensore, poiché egli anche grazie alla toga sarà immediatamente riconoscibile quanto a ruolo ed esperienza; trarrà beneficio il suo aspetto, il suo gesto e in generale la sua forza comunicativa. Viceversa indossare la toga sciattamente, e in modo inadeguato, viola gravemente il dovere deontologico del decoro e rischia di porre in cattiva luce non solo colui che così si atteggia ma anche i suoi argomenti e in definitiva di contribuire a compromettere il risultato dello sforzo defensionale.

Dovere di indipendenza

L'indipendenza dell'avvocato – e nel nostro particolare discorso quella del penalista – non è solo un principio fondamentale della professione o un mero dovere deontologico, quanto piuttosto uno dei valori più nobili che, anche nell'immaginario collettivo, vale ad identificare l'avvocato come una figura affidabile ed autonoma, immune da influenze esterne. A ben vedere allora l'essere indipendente permette all'avvocato di essere il meritevole depositario della fiducia che gli viene accordata dall'assistito. Bene si comprende che solo a questa condizione il cliente si confiderà senza remore e riserve con il proprio difensore, ove entrambi lo ritengano necessario per gli adempimenti difensivi. Il valore/dovere dell'essere indipendente equivale dunque per l'avvocato a quello dell'essere imparziale che vige per il giudice. Un dovere che, pur nella imprescindibile necessità della sostanza, richiede tuttavia anche massima attenzione all'apparenza: ed infatti l'avvocato non solo deve essere indipendente, ma deve per giunta compiere ogni sforzo perché tale qualità non possa essere messa in dubbio a causa di atteggiamenti e condotte inappropriati. L'indipendenza è il presupposto della libertà, che nelle scelte e nel pensiero è imprescindibile connotato dell'azione difensiva; essa non tollera interferenze indebite nemmeno se provenienti dall'assistito. Ed è anzi in tale situazione, nel rapporto spesso complicato con l'assistito, che il difensore deve assolutamente tutelare la propria totale indipendenza ed autonomia di giudizio e di elaborazione delle strategie e delle scelte processuali, che possono e devono essere condivise con il cliente, ma mai potranno essere imposte dall'assistito, soprattutto se il difensore non le condivida o peggio le ritenga inutili, se non dannose, o soprattutto se esse si manifestano come contrarie alle regole del diritto e della sua deontologia.

In conclusione

La qualità della prestazione professionale dell'avvocato dipende esclusivamente dallo studio della causa e dalla preparazione culturale e tecnica del professionista, o richiede anche un quid pluris, costituito dall'insieme delle condizioni personali e morali che egli è tenuto a possedere? Il quesito è retorico e trova nell'impostazione e nella struttura della deontologia forense una risposta inequivocabile. L'avvocato è tenuto ad informare sempre il proprio agire anche al rigoroso rispetto dei principi e delle regole deontologiche, al fine di rendere la propria attività tecnica adeguata al livello dell'impegno che l'Ordinamento e la Costituzione gli hanno affidato. Un simile mandato non si accontenta di pretendere che il rispetto della deontologia rimanga confinato al tempo ed al luogo della esecuzione della prestazione professionale ma esige che l'avvocato dimostri senza limiti temporali il possesso dei requisiti morali che lo rendono, agli occhi della collettività, idoneo a rivestire il suo delicato ruolo. E così anche nella vita privata ed in contesti anche diversi da quelli dell'esercizio della sua professione l'avvocato è tenuto a prestare massima attenzione, affinché probità, dignità e decoro siano imprescindibili elementi di caratterizzazione del suo stile di vita. Insomma il tutto si riassume nel doveroso mantenimento di quelle caratteristiche, che la legge professionale pone come condizione per l'iscrizione nell'Albo, oggi previste tra le altre dall'art. 17, comma 1, lett. h) della l. 31 dicembre 2012, n. 247 (essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense). In precedenza la legge professionale del 1933 parlava addirittura di condotta specchiatissima ed illibata. Al di là delle parole il concetto appare chiaro: la reputazione del singolo avvocato deve essere presidiata costantemente in ogni occasione, perché su essa si gioca la tenuta delle reputazione e della credibilità dell'intero ceto forense, al quale la società ha affidato compiti difficilissimi, che solo donne e uomini di comprovata onestà e serietà possono svolgere. La reputazione degli avvocati dunque ha molto a che fare con il giudizio che i singoli e la collettività formulano, in un certo momento storico, nei confronti di questa categoria, che ha dovuto affrontare – come molte altre ma forse più di altre – un lungo periodo critico, caratterizzato specialmente dall'aumento esponenziale dei suoi appartenenti, giunti ormai alla soglia di 300.000 unità. In tale contesto si sta sempre più facendo strada l'esigenza di una più chiara esplicitazione ed individuazione delle competenze dell'avvocato. E così il nuovo ordinamento professionale ha finalmente aperto la strada al titolo di specializzazione, per ora impegnato in un accidentato decollo ma che, quando andrà a regime, consentirà di offrire alla collettività maggiore riconoscibilità delle capacità specifiche degli avvocati e la possibilità di trovare più facilmente, eventualmente nell'avvocato specialista, il professionista più adatto all'esigenza. L'avvocatura penalista, da sempre propugnatrice della necessità del riconoscimento della specializzazione, ha ben compreso che, nella quotidiana esperienza del tutto peculiare della difesa penale, i doveri deontologici non sono solo principi di valore collettivo, ma anche vere e proprie boe segnalatrici, che consentono di mantenere una rotta, dalla quale non è ammesso alcun scarrocciamento. Poiché è chiaro che, nel processo penale, assumono un significato assai concreto e spesso drammatico, concetti fondamentali quali Libertà, Giustizia, Diritto e che il compito dell'avvocato difensore, nella partita che li vede messi in gioco, è talmente importante da condizionare pesantemente anche i comportamenti e le mosse degli altri soggetti del processo, così come il risultato della loro complessiva attività. Dunque il tema della strategia nel processo – nella sua accezione di regola generale di condotta che, in considerazione degli sviluppi possibili o probabili di una certa situazione, prefigura le più opportune attività utili a raggiungere lo scopo prefissato – diviene di straordinaria attualità quando si parla della deontologia del penalista. Ed allora la strategia del penalista non può mai prescindere dall'essere rigorosamente conformata ai canoni ed ai principi anche generali della deontologia forense. Senza deontologia, il difensore rischierebbe di cadere preda del compromesso, del ricatto, o anche solo del proprio esclusivo interesse, svilendo il proprio ruolo e rischiando di scivolare in uno dei due baratri che costeggiano sempre il sottile sentiero del suo cammino: da un lato l'infedele patrocinio e dall'altro il favoreggiamento personale.

Casistica

Lealtà e probità in giudizio. Riserva di azione disciplinare e competenza esclusiva degli organismi disciplinari forensi.

In tema di responsabilità disciplinare dell'avvocato, il dovere di probità, dignità e decoro, sancito dall'art. 6 del codice deontologico forense, ha riscontro nell'art. 88 c.p.c., che non solo sancisce il dovere delle parti e dei difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ma impone al giudice, ove il patrocinatore lo infranga, di riferirne all'autorità disciplinare. (Nella specie, applicando l'enunciato principio, la suprema Corte ha respinto il ricorso avverso la condanna disciplinare inflitta ad un avvocato che aveva notificato atti di precetto per somme già incassate dall'assistito) (Cass. civ., Sez. unite, 18 maggio 2015, n. 10090).

È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 105 c.p.p. e dell'art. 2, comma 1, n. 4 della l. 16 febbraio 1987, n. 81, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 102 Cost., nella parte in cui hanno comportato l'abrogazione dell'art. 131 c.p.p. 1930 (la Corte ha osservato che la scelta dell'organo cui devolvere la competenza ad irrogare sanzioni disciplinari per il caso di abbandono o rifiuto di difesa è aspetto che non interferisce con lo svolgimento dell'attività dibattimentale e con le relative cause di sospensione) (Corte cost., 30 dicembre 1994, n. 479).

Probità, dignità e decoro come concetti guidaa cui si ispira ogni regola deontologica.

I concetti di probità̀, dignità̀ e decoro costituiscono doveri generali e concetti guida, a cui si ispira ogni regola deontologica, giacché essi rappresentano le necessarie premesse per l'agire degli avvocati, e mirano a tutelare l'affidamento che la collettività ripone nella figura dell'avvocato, quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività. Riferendosi ad un comportamento posto in essere dall'avv. B. il quale risulta censurabile poiché getta sulla professione l'ombra del discredito che accompagna ogni scelta strumentale e non libera. (C.N.F., 16 luglio 2015, n. 105).

Condotte extraprofessionali contrarie ai doveri di probità dignità e decoro.

Rilevanza disciplinare anche a prescindere dalla notorietà dei fatti.

Deve ritenersi disciplinarmente responsabile l'avvocato per le condotte che, pur non riguardando strictu sensu l'esercizio della professione, ledano comunque gli elementari doveri di probità̀, dignità̀ e decoro e, riflettendosi negativamente sull'attività̀ professionale, compromettono l'immagine dell'avvocatura quale entità̀ astratta con contestuale perdita di credibilità̀ della categoria. La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti, poichè in ogni caso l'immagine dell'avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto. (C.N.F., 14 marzo 2015, n. 59).

Anche il tentativo di condotta scorretta può integrare violazione dei principi di dignità e decoro della professione

Il principio di stretta tipicità dell'illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense, nell'ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati, ma solo l'enunciazione dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza (artt. 5 e 6 del codice deontologico forense), ai quali l'avvocato deve improntare la propria attività, fermo restando che anche il tentativo di compiere un atto professionalmente scorretto costituisce condotta lesiva dell'immagine dell'avvocato ed assume rilievo ai fini disciplinari (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la suprema Corte ha confermato la decisione con cui il Consiglio nazionale forense aveva ravvisato la sussistenza dell'illiceità della condotta posta in essere da un avvocato, consistita nell'aver proposto la sottoscrizione di ricorsi per cassazione predisposti da soggetti non muniti del relativo jus postulandi, pur senza che si fosse effettivamente verificato alcun caso di firma di motivi di gravame redatti da difensori non abilitati) (Cass. civ., Sez. unite, 16 dicembre 2013, n. 27996).

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