Gli effetti della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 99, comma 5, c.p. sul giudicato penale

Andrea Ricciardi
20 Settembre 2017

La questione esaminata dalla Cassazione ha ad oggetto gli effetti che la pronuncia di incostituzionalità dell'art. 99, comma 5, c.p., così come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, ha prodotto sull'esecuzione di quella porzione di pena ...
Massima

La declaratoria di incostituzionalità, pronunciata dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 185/2015, non ha riformato nella sua interezza l'art. 99, comma 5, c.p. ma si è limitata ad escluderne l'obbligatorietà per determinati reati; di conseguenza, il giudice dell'esecuzione non è tenuto a disapplicare la recidiva obbligatoria, rideterminando la pena inflitta dal giudice della cognizione con sentenza divenuta irrevocabile prima della pronuncia di incostituzionalità, solo perché applicata su presupposti diversi da quelli oggetto della declaratoria di incostituzionalità.

Il caso

La Corte di appello di Catanzaro, in funzione di giudice dell'esecuzione, rigettava l'istanza, formulata dal condannato e finalizzata ad ottenere la rideterminazione della pena sul presupposto che la recidiva ex art. 99, comma 5, c.p., contestata sulla base di una valutazione fondata sulla particolare gravità dei precedenti penali dell'istante, non consentiva di formulare un giudizio favorevole nei suoi confronti, tenuto anche conto della pericolosità sociale e dell'elevata capacità criminale manifestatasi costante nel corso degli anni.

L'istante, per il tramite del suo difensore, impugnava l'ordinanza dinanzi alla Suprema Corte, chiedendone l'annullamento, per violazione dell'art. 99 c.p. e della l. 87/1953 n. 30, per l'omessa rideterminazione del trattamento sanzionatorio alla luce dei principi espressi dalla Corte costituzionale con sent. n. 185 del 8 luglio 2015, con cui era stata dichiarata la parziale illegittimità dell'art. 99, comma 5, c.p. nella parte in cui prevedeva l'obbligatorietà della recidiva, in riferimento al soggetto già recidivo che commette uno dei reati indicati nell'art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p.

La questione

La questione ha ad oggetto gli effetti che la pronuncia di incostituzionalità dell'art. 99, comma 5, c.p., così come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, ha prodotto sull'esecuzione di quella porzione di pena inflitta dal giudice della cognizione, riferibile all'applicazione della suindicata circostanza aggravante, censurata dalla Corte costituzionale successivamente alla irrevocabilità della sentenza di merito.

In particolare, il giudice di merito aveva ritenuto sussistente la recidiva, ex art. 99 comma 5 c.p., sulla base di presupposti diversi da quelli “colpiti” dalla declaratoria di incostituzionalità.

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente, la Corte, in una prospettiva de iure condendo, si sofferma sinteticamente a delineare le motivazioni, elaborate dalla Corte costituzionale, poste a fondamento della parziale illegittimità dell'art. 99, comma 5, c.p.p., nella parte in cui prevedeva l'obbligatorietà della recidiva nei casi di mero riscontro formale della precedente condanna e dall'essere il nuovo reato ricompreso nell'elenco di cui all'art. 407, comma 2, lett. a) c.p.

Osserva la Corte, infatti, che «la previsione di un aumento obbligatorio di pena esclusivamente legato al dato formale del titolo del reato, senza alcun accertamento della concreta significatività dell'episodio delittuoso, è stato ritenuto dalla Corte costituzionale, contrastante con il principio di proporzione tra qualità e quantità della pena, atteso che la preclusione dell'accertamento della sussistenza delle condizioni che dovrebbero legittimare l'applicazione della recidiva poteva rendere la pena palesemente sproporzionata all'effettivo disvalore della condotta illecita presupposta. È, pertanto, divenuta illegittima l'applicazione meccanica della recidiva di cui all'art. 99, comma 5, laddove il giudice della cognizione abbia, cioè applicato l'aumento in quanto obbligatorio, poiché nel diverso caso in cui il giudice della cognizione abbia motivato in concreto sulla rilevanza del nuovo episodio non vi è questione alcuna».

Il Supremo Collegio, dunque, distingue due casi alternativi idonei a produrre differenti effetti sul giudicato e, conseguentemente, ampliando o delimitando i poteri dell'organo esecutivo.

Il primo riguarda l'ipotesi in cui il giudice della cognizione ha applicato la recidiva di cui all'art. 99, comma 5, c.p., in quanto obbligatoria” prescindendo, cioè, da una valutazione complessiva della personalità del reo. In tali casi la successiva pronuncia di incostituzionalità rende illegittimo il relativo l'aumento di pena, con generale rilievo ai sensi della l. 87 del 1953, art. 1953.

L'altro, di converso, riguarda i casi in cui, la recidiva, di cui all'art. 99, comma 5, c.p., benché prevista come “obbligatoria” in quanto antecedente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, è stata ritenuta sussistente dal giudice della cognizione sulla base di una complessiva valutazione – tenuto conto di tutte le circostanze concrete- della personalità del reo, nonché della gravità dell'episodio delittuoso. In simili casi la pronuncia della Corte Costituzionale non sarà idonea a “travolgere” il giudicato.

Fatta questa distinzione, in relazione alla prima ipotesi, la Corte, nella sentenza in commento, nel delineare la latitudine dei poteri del giudice dell'esecuzione, ripercorre quelli che sono i principi enucleati dalla giurisprudenza a Sezioni Unite nella celeberrima sentenza n. 18821/2014, relativa agli effetti che la pronuncia di incostituzionalità dell'art. 69, comma 4, c.p. (così come modificato dalla legge 251/2005 art. 3) ha prodotto sul giudicato, formatosi antecedentemente ad essa.

Sinteticamente e ai fini che qui interessano, tale norma stabiliva il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti (nel caso di specie la lieve entità ex art. 73 comma 5 d.P.R. 309/1990) su quella prevista dall'art. 99, comma 4, c.p.

Espunta dall'ordinamento la norma costituzionalmente illegittima, le Sezioni Unite affermano che il giudice dell'esecuzione sarà titolare di un potere/dovere di effettuare ex novo, mediante l'esame degli atti processuali ex art. 666, comma 5, c.p.p., il giudizio di bilanciamento e, di conseguenza, rideterminare la pena in senso favorevole al condannato, scorporando, eventualmente, quella frazione di pena derivante dall'applicazione della recidiva.

Si assiste, dunque, ad una evoluzione – in senso accusatorio – della giurisdizione esecutiva. Quest'ultima, infatti, non viene più concepita come un mero suggello burocratico del diritto penale materiale ma viene, altresì, intesa e riconosciuta come una vera e propria fase giurisdizionale in cui l'intervento del giudice dell'esecuzione si esplica attraverso prerogative proprie della fase della cognizione.

Sulla scorta di tale indirizzo ermeneutico la Corte nella sentenza in commento giunge ad affermare che «alla giurisdizione esecutiva sono riconosciuti ampi margini di manovra, non circoscritti alla sola verifica della validità e dell'efficacia del titolo esecutivo, ma incidenti anche sul contenuto di esso, allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, intervenute dopo l'irrevocabilità della sentenza, lo esigano».

Ovviamente, continua la Corte, «il giudice dell'esecuzione non ha la stessa libertà del giudice della cognizione e tanto potrà pervenire alla valutazione sempre che la stessa non sia stata precedentemente esclusa dal giudice di merito: in sintesi non potrà mai contraddire quanto statuito dal giudice di merito». La Corte conclude il ragionamento affermando che «è compito del giudice dell'esecuzione valutare la sussistenza delle condizioni per poter applicare la recidiva di cui all'art. 99 comma 5, qualora questa fosse stata applicata automaticamente dal giudice della cognizione»

Nel caso di specie, però, la recidiva benché contestata antecedentemente alla sentenza della Corte costituzionale, era stata ritenuta dal giudice di merito sussistente sulla base di una valutazione complessiva della personalità dell'imputato; dunque, era stata applicata non “in quanto obbligatoria”, cioè sulla base del mero riscontro formale della precedente condanna e dall'essere il reato ricompreso nell'elenco di cui all'art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p., ma attraverso una valutazione complessiva della personalità dell'imputato: in altre parole, era stata ritenuta sussistente sulla base di presupposti diversi da quelli censurati dal Giudice delle Leggi.

La Corte, nel risolvere la questio iuris, afferma il seguente principio di diritto:«la sentenza della Corte Costituzionale n. 185 del 2015 non impone di escludere la recidiva solo perché, a suo tempo, ritenuta sulla scorta di presupposti diversi da quelli conseguenti alla declaratoria di illegittimità, che non ha riformato nella sua interezza la previsione di cui all'art. 99 comma 5, ma si è limitata ad escludere l'obbligatorietà dell'aggravante per determinati reati».

Osservazione

La sentenza in commento risulta particolarmente interessante in quanto stabilisce che la declaratoria di incostituzionalità relativa all'obbligatorietà della recidiva di cui all'art. 99, comma 5, c.p., non è idonea a travolgere il giudicato sempre e comunque; al contrario occorrerà, verificare – di volta in volta – alla luce delle risultanze processuali – i presupposti che ne hanno determinato l'applicazione e, di conseguenza, il relativo aumento di pena.

Se, infatti, il giudice della cognizione ha contestato la recidiva, in quanto obbligatoria, la successiva pronuncia di incostituzionalità, legittima il giudice dell'esecuzione a rideterminare la pena; più in particolare, l'organo esecutivo, nell'ambito dei suoi poteri, dovrà effettuare – ex novo – una valutazione complessiva della personalità del reo, nonché della gravità dell'episodio delittuoso e, di conseguenza, confermare o meno il relativo aumento di pena.

In tale ipotesi, infatti, si appalesa, nella realtà ordinamentale, una patologia normativa (incostituzionalità di una norma/parte di essa) e contestualmente la necessità di ripristinare la legalità della pena in quanto inflitta sulla base di una norma illegittima.

Ciò sarà possibile solo riconoscendo all'organo esecutivo il potere di “calibrare” la pena alla norma, così come costituzionalmente intesa.

Solo in tal modo il finalismo rieducativo della pena troverà concreta attuazione.

La pena, infatti, per assolvere la funzione che la Costituzione, nell'art. 27, comma 3, le ha assegnato, deve essere percepita da chi la subisce come “giusta”. Una pena imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione determina un ostacolo al perseguimento di tale scopo.

Nel caso in cui, il giudice della cognizione ha applicato la recidiva sulla base di presupposti diversi da quelli oggetto della declaratoria di incostituzionalità, le determinazioni dell'organo esecutivo non potranno mai contraddire quelle rese nel corso di merito.

In simili casi, i poteri dell'organo esecutivo saranno fortemente ridimensionati, non potendo pervenire a valutazioni differenti da quelle cui è pervenuto il giudice di merito.

Nel caso analizzato dalla sentenza in commento, il giudice della cognizione, nonostante la recidiva fosse prevista come obbligatoria ha comunque effettuato in sentenza una valutazione complessiva della personalità del reo.

In questo caso, la declaratoria di incostituzionalità, non è idonea ad inficiare il giudicato in quanto l'applicazione di tale circostanza aggravante e il relativo aumento di pena, si basa su presupposti diversi da quelli che hanno determinato l'illegittimità della norma.

È salvo, dunque, il principio di legalità della pena.

Guida all'approfondimento

Alfredo Gaito- Giancarlo Ranaldi, Esecuzione penale, 3° ed., Giuffrè Editore, 2016.

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