Legittimo il ricorso per cassazione della vittima di violenza assistita

19 Dicembre 2016

La Corte di cassazione, pur chiamata a decidere in merito ai poteri del giudice dell'udienza preliminare nella pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere ex art. 425, comma 3, c.p.p., sente la necessità di dedicare ampia parte della motivazione della sentenza alla trattazione di una questione preliminare di non poco rilievo. In particolare ...
Massima

Nei delitti di violenza sessuale aggravati ai sensi dell'art. 61 n. 11-quinquies c.p., il minore che abbia assistito al fatto delittuoso riveste la qualifica di persona offesa in quanto la configurabilità di detta circostanza aggravante determina un'estensione dell'ambito della tutela penale. Come tale il minore è pienamente legittimato a costituirsi parte civile, essendo anch'egli danneggiato dal reato, così come aggravato, e a proporre impugnazione avverso la decisione di proscioglimento dell'imputato.

Il caso

Il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Latina pronunciava una sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste nei confronti di Tizio, accusato di violenza sessuale aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 11-quinquies c.p. per aver costretto la propria convivente a subire con violenza un rapporto sessuale completo, costringendo altresì la figlia minore ad assistere alla violenza. La motivazione della pronuncia si rinveniva nell'insufficienza degli elementi raccolti a sostenere l'accusa in giudizio, non essendo stata riscontrata l'iniziale versione accusatoria da elementi certi – né testimoniali né documentali – alla luce della ritrattazione della persona offesa dinanzi al pubblico ministero e nel corso dell'incidente probatorio. Con un unico motivo di doglianza proponeva ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza la parte civile minore d'età, in persona del tutore e mediante il suo difensore, prospettando l'erronea applicazione di legge in relazione al giudizio di inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio ai sensi dell'art. 425 c.p.p. e vizio di motivazione. La parte civile escludeva, infatti, che la valutazione del giudice dell'udienza preliminare potesse estendersi, qualora l'accusa fosse fondata su prove dichiarative, alla valutazione di attendibilità dei dichiaranti, come invece avvenuto nella sentenza impugnata, in ragione della natura esclusivamente processuale della valutazione rimessa al giudice in questa fase.

La questione

La Corte di cassazione, pur chiamata a decidere in merito ai poteri del giudice dell'udienza preliminare nella pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere ex art. 425, comma 3, c.p.p., sente la necessità di dedicare ampia parte della motivazione della sentenza alla trattazione di una questione preliminare di non poco rilievo. In particolare, i giudici di legittimità si soffermano in premessa sulla questione relativa alla legittimazione della vittima della c.d. violenza assistita a proporre impugnazione avverso una pronuncia di proscioglimento. Infatti, nell'osservare come il ricorso per cassazione fosse stato avanzato dal tutore della minore, costituita parte civile, si poneva come dirimente l'accertamento della qualità di persona offesa della minore stessa al fine di considerarla pienamente legittimata al ricorso per cassazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 428, comma 2, c.p.p.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione – nell'accogliere il ricorso in questione, evidenziando l'insufficienza e contraddittorietà della motivazione e stigmatizzando l'esorbitanza delle attribuzioni del giudice dell'udienza preliminare, che non si era limitato ad una mera valutazione processuale ma che aveva compiuto un vero e proprio giudizio di merito sulla colpevolezza dell'imputato, non ammesso in tale fase – risolve positivamente la questione su cui si era interrogata in premessa. Nei delitti di violenza sessuale aggravati ai sensi dell'art. 61, n. 11-quinquies c.p., il minore che abbia assistito al fatto delittuoso riveste certamente la qualifica di persona offesa dal reato in quanto la configurabilità di detta circostanza aggravante determina un'estensione dell'ambito della tutela penale. Come tale il minore è pienamente legittimato a costituirsi parte civile, essendo anch'egli danneggiato dal reato, così come aggravato, e a proporre impugnazione avverso la decisione di proscioglimento dell'imputato.

Osservazioni

La problematica relativa alla legittimazione del minore che abbia assistito alla violenza di un genitore a costituirsi parte civile e a far valere le proprie doglianze con l'impugnazione in caso di proscioglimento dell'imputato introduce il tema di grande attualità del ruolo da riconoscersi in sede processuale alla vittima della c.d. violenza assistita. Come chiarito dalla pronuncia in commento, si tratta del complesso di ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo, nel breve e lungo termine, sui minori costretti ad assistere ad episodi di violenza e, soprattutto, a quelli di cui è vittima la madre. Ebbene, sulla scorta delle indicazioni già contenute nell'art. 46, lett. d) della Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell'11 maggio 2011 (ratificata in Italia con l. 27 giugno 2013, n. 77), anche il nostro ordinamento interno si è dotato della previsione di una circostanza aggravante, contenuta all'art. 61 n. 11-quinquies c.p., con la quale ha attribuito specifica valenza giuridica alla c.d. violenza assistita. Tale disposizione, introdotta dall'art. 1, comma 1, d.l. 14 agosto 2013, n. 93, sulle disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto alla violenza di genere, poi convertito con modificazioni dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119, nota come legge sul femminicidio, prevede un incremento di pena allorquando, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale e nel delitto di cui all'art. 572 c.p., il fatto sia commesso in presenza o in danno di un minore di anni diciotto o in danno di una persona in stato di gravidanza.

Secondo i giudici di legittimità proprio in considerazione della ratio ispiratrice della disposizione e della sua funzione, ne consegue che il minore che abbia assistito ad uno dei delitti indicati nella disposizione può essere considerato anch'egli persona offesa del reato, in quanto la configurabilità di detta circostanza aggravante determina una estensione dell'ambito della tutela penale anche al minore che abbia assistito alla violenza.

Circa la correttezza della qualificazione come persona offesa dal reato del minore che abbia assistito alla violenza agita su uno degli altri componenti il proprio nucleo familiare o su altra figura per lui significativa, giovi ricordare l'orientamento affermatosi in sede di legittimità sull'integrazione del delitto di maltrattamenti in famiglia e verso conviventi di cui all'art. 572 c.p. Secondo l'impostazione pacifica in giurisprudenza, infatti, tale fattispecie criminosa può dirsi integrata non solo da fatti commissivi, sistematicamente lesivi della personalità della persona offesa, ma anche da quelle condotte omissive connotate da una deliberata indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della persona debole da tutelare. In tal senso, si è considerata ricompresa nel novero dell'offensività di cui all'art. 572 c.p. anche la posizione passiva dei figli minori laddove questi siano diventati sistematici spettatori obbligati delle manifestazioni di violenza, anche psicologica di un coniuge nei confronti dell'altro (così Cass. pen., Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332). Allo stesso modo – già prima della novella legislativa che ha riconosciuto espresso rilievo alla violenza assistita, seppur come circostanza aggravante del reato e non come fattispecie delittuosa autonoma – si era ritenuta in Cassazione la configurabilità del delitto di cui all'art. 572 c.p. a danno dei minori nelle ipotesi in cui questi non fossero stati l'oggetto diretto delle invettive, delle aggressioni e dei comportamenti anche moralmente distruttivi posti in essere dal padre in maniera diretta nei confronti della coniuge e, dunque, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime derivasse non già da specifici comportamenti dell'agente, bensì da un clima negativo generalmente instaurato all'interno di una comunità di soggetti proprio in conseguenza degli atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi, consapevolmente, dall'agente medesimo (in tal senso, v. Cass. pen., Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 e Cass. pen., Sez. VI, 21 dicembre 2009, n. 8592).

Così facendo, si è riconosciuto rilievo ai fini penali all'insieme di condotte violente, reiterate, fisiche o verbali, compiute in danno dell'altro genitore e idonee a provocare nella prole sicure conseguenze negative, spesso indelebili, per la naturale sofferenza del minore costretto ad assistervi e a vivere, così in un contesto di grave deprivazione psichica ed affettiva con irreversibili conseguenze sull'armonico sviluppo della personalità. Si tratta, dunque, di un fenomeno che non può essere sottovalutato anche per le significative ripercussioni a livello psicologico, emotivo, fisico e relazionale sui minori, le quali, secondo le pronunce sopra richiamate, devono essere il frutto di una deliberata e consapevole insofferenza e trascuratezza verso gli elementari ed insopprimibili bisogni affettivi ed esistenziali dei figli stessi, nonché realizzate in violazione dell'art. 147 c.c., in punto di educazione e istruzione al rispetto delle regole minimali del vivere civile, cui non si sottrae la comunità familiare regolata dall'art. 30 della Carta costituzionale. Laddove vi sia una tale deliberata condotta lesiva dei diritti fondamentali della persona e inquadrabile in un vero e proprio sistema vessatorio oltreché in una altrettanto grave indifferenza omissiva verso i figli minori, posta in essere con dolo e in modo abituale nel tempo, potrà dirsi integrata la fattispecie di cui all'art. 572 c.p. Allo stesso modo, in evenienze come quella in commento, in cui si discuta circa la sussistenza di un'ipotesi di violenza sessuale aggravata ai danni del partner, il fatto che l'azione sia stata perpetrata alla presenza di un minore sarà di per sé solo tale da far ritenere ampliato l'ambito della tutela penale. In tal senso, il minore ben potrà essere considerato persona offesa dal reato e in quanto certamente danneggiato dallo stesso, avrà piena legittimazione alla costituzione di parte civile. Il cumulo delle qualifiche in discorso ben potrà poi legittimare il minore, persona offesa e parte civile costituita, a dolersi – attraverso gli strumenti di impugnazione che la legge gli riconosce – di eventuali pronunce a sé sfavorevoli, come quella con la quale, nel caso concreto, si riteneva essere stata erroneamente pronunciata una sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell'imputato in sede di udienza preliminare, ricorribile per cassazione dalla persona offesa costituita parte civile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., così come consentito ex art. 428, comma 2, c.p.p.

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