L'idoneità della causa sopravvenuta ad interrompere il nesso di causalità

Vittorio Nizza
21 Aprile 2017

La Corte nella sentenza in oggetto analizza la problematica della valutazione del nesso di causa nei casi in cui si susseguano, come normalmente avviene in ambito sanitario, più condotte negligenti dei diversi medici chiamati ad occuparsi del paziente.
Massima

È configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta.

Il caso

Il paziente D. decedeva a seguito dell'esecuzione di un'operazione di rinoplastica, per un errore nell'esecuzione delle operazioni di anestesia.

In particolare, il paziente veniva sottoposto ad una prima visita preanestesiologica effettuata dal dott. Z.. La visita rappresentava un accertamento propedeutico rispetto alla visita preoperatoria poi eseguita dal dott. L.P.

Durante la visita il dott. Z ometteva di annotare sulla scheda clinica alcuni indici di previsione di difficoltà di intubazione del paziente ed eseguiva in maniera errata alcune misurazioni ed il test di Mallampati, formulando così una generica indicazione di procedere regolarmente ad anestesia generale, non segnalando il rischio invece di un'intubazione non facile.

Nella successiva visita anestesiologica, il dott. L.P. si limitava a correggere il test di Mallampati ma ometteva a sua volta di rilevare la misura della distanza tireo-mentoniera. Procedeva quindi ad un'intubazione nei modi ordinari, ripetendo più volte la manovra ma senza riuscirvi provocando così nel paziente un edema indotto della laringe. Il dott. L.P. inoltre a fronte di tale situazione di crisi, ometteva di utilizzare device alternativi e di praticare l'ossigenazione del paziente prima che andasse in arresto cardiaco.

Il paziente decedeva dopo alcuni giorni per insufficienza respiratoria e multi organo in soggetto in stato di corna postanossico consecutivo ad intubazione difficile.

Venivano imputati entrambi i medici anestesisti per omicidio colposo. Il dott. L.P. definiva la sua posizione con un patteggiamento, mentre il dott. Z veniva assolto in primo grado per non aver commesso il fatto, mentre la Corte di appello, in accoglimento del ricorso delle parti civile, aveva riformato la sentenza dichiarando il dott. Z responsabile del reato di cui all'art. 589 c.p. e condannandolo al risarcimento alle parti civili. Avverso tale sentenza proponeva ricorso l'imputato.

La questione

La Corte nella sentenza in oggetto analizza la problematica della valutazione del nesso di causa nei casi in cui si susseguano, come normalmente avviene in ambito sanitario, più condotte negligenti dei diversi medici chiamati ad occuparsi del paziente.

La valutazione su cui si sofferma la suprema Corte riguarda il problema di individuare in quali ipotesi, pur nell'ambito di una condotta di équipe, si possa ritenere che la condotta colposa posta in essere dal sanitario intervenuto in una fase successiva sia idonea ad interrompere il nesso di causa rispetto al medico intervenuto prima che pur a sua volta abbia commesso degli errori rilevanti.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso in esame la Corte ripercorre in maniera critica la considerazioni effettuate dalla Corte d'appello in merito alla sussistenza di un nesso di causa tra la condotta negligente posta in essere dal dott. Z e l'evento morte, tenuto conto dell'incidenza della successiva condotta del dott. L.P.

La Corte d'appello, infatti, aveva ritenuto che la condotta negligente del dott. P.L. non avesse carattere interruttivo ai fini della serie causale determinante il decesso del paziente, poiché tra le due visite, preanestesiologica e anestesiologica, vi era un rapporto di interdipendenza. L'evento morte risultante della serie causale descritta sarebbe stato conseguenza della realizzazione sinergica di un rischio introdotto anche dal primo agente, ossia dal dott. Z.

A parere dei giudici di secondo grado, infatti, sebbene l'erronea esecuzione della visita svolta dal dott. Z. fosse immediatamente e agevolmente riconoscibile dal dott. L.P., tuttavia se le informazioni omesse dal dott. Z. fossero state fornite vi sarebbe stata un'elevata probabilità di un effetto salvifico attraverso l'adozione di una pratica di intubazione diversa e adatta alla condizioni del paziente.

La suprema Corte sviluppa invece un ragionamento più critico e più attento delle peculiarità del caso concreto, superando le considerazioni mosse dalla Corte d'appello che ritiene apodittiche e non supportate da adeguata motivazione.

I giudici, infatti, analizzano separatamente le condotte poste in essere dai due medici. Secondo la Cassazione, in realtà, non risulterebbe in alcun modo che il dott. L.P. sia stato condizionato nelle sue scelte dalla visita propedeutica posta in essere dal dott. Z. il dott. L.P., infatti, aveva la possibilità di verificare in modo semplice e immediato le caratteristiche del paziente ed effettuò in maniera autonoma le scelte per le modalità di esecuzione dell'anestesia.

Le condotte dei due medici non sarebbero tra loro interdipendenti, posto l'elevato grado di autonomia del dott. L.P. nella scelta delle modalità di intubazione, nella esecuzione dell'operazione nonché nell'intervenire nel momento in cui si presento la crisi respiratoria del paziente.

Conclude la Corte nella sentenza in esame che nella serie causale intercorrente tra la condotta del dott. Z. ed il decesso del paziente si sono inseriti una pluralità di fattori successivi e autonomamente determinanti tali interrompere il nesso causale fra la condotta contestata e l'evento morte.

I giudici, quindi, si richiamano al recente orientamento per cui in ambito medico l'interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento si verifica quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta (Cass. pen., Sez. IV, n. 33329 del 2015).

Pertanto, il Collegio annullava la sentenza impugnata senza rinvio perché l'imputato non ha commesso il fatto, dal momento che il comportamento a lui addebitato non rivestì alcun rilievo causale nella determinazione dell'evento a fronte di fattori sopravvenuti rilevanti con portata interruttiva.

Osservazioni

Il caso in esame riguardava il decesso del paziente conseguente alla condotta successiva di due medici, i quali avevano commesso entrambi dei rilevanti errori diagnostici. Dalla risultanze processuali emergeva pacificamente una responsabilità del secondo medico anestesista (giudicato separatamente con sentenza ex art. 444 c.p.p.) che aveva omesso di rilevare nelle visita preoperatoria alcuni parametri, non riscontrati nemmeno dal primo medico, e aveva pertanto scelto di effettuare l'intubazione in maniera normale, nonostante si fosse poi rivelata una modalità inidonea alle caratteriste del paziente, e così non riuscendo ad effettuare tale operazione, ma causando un edema alla laringe. Non solo, ma aveva anche omesso di utilizzare device alternativi e di praticare l'ossigenazione del paziente prima che andasse in arresto cardiaco causato da ipossia. Il decesso del paziente era poi sopravvenuto dopo alcuni giorni.

Il problema riguardava la posizione del primo medico anestesista che aveva effettuato la visita preanestesiologica. Il medico aveva omesso di effettuare la rilevazione di alcuni parametri e aveva sbagliato l'esito di un test, concludendo così per la possibilità di utilizzare una metodologia normale per l'intubazione. Tali dati erano poi stati trasmessi al secondo medico, il quale non aveva colmato le lacune sebbene fossero evidenti e facilmente emendabili e aveva quindi proceduto con l'operazione indicata.

La valutazione dei giudici, pertanto, si concentrava sull'analisi del nesso causale anche nell'ambito del lavoro medico d'equipe, come nel caso in oggetto. La Corte, superando la lettura data dal giudici di secondo grado che avevano apoditticamente ritenuto interdipendenti le condotte dei due medici, riteneva invece necessario effettuare un'attenta analisi di tutti fattori sopravvenuti potenzialmente idonei ad incidere sullo sviluppo causale dell'evento morte.

Nel caso di specie non si poteva non considerare come il secondo medico avesse a sua volta visitato il paziente, senza procedere, pur potendo, alla correzione degli evidenti mancanze del primo sanitario e avesse autonomamente scelto con quali modalità effettuare l'intubazione, l'avesse materialmente eseguita e avesse deciso come intervenire in seguito al verificarsi della crisi respiratoria.

Per giurisprudenza pacifica, è vero che vertendosi in un'ipotesi di lavoro di equipe, la responsabilità per condotta omissiva del primo soggetto che rivesta una posizione di garanzia non viene meno per effetto del negligente o omesso intervento del garante successivo. Occorre però anche che la posizione di pericolo non si sia modificata per effetto del comportamento del secondo garante, in modo da escludere la riconducibilità al primo garante della nuova situazione creatasi.

La sentenza in commento, quindi, richiama la giurisprudenza più recente in materia di responsabilità medica ed evidenzia come qualora vi sia una causa sopravvenuta che inneschi un rischio nuovo ed incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta, questa interrompe il nesso causale, facendo venir meno la responsabilità del primo garante. Valutazione che deve essere fatta tenendo conto di tutti i fattori sopravvenuti.

La sentenza pertanto si inserisce in quel filone giurisprudenziale indicato dalle Sezioni unite del 24 aprile 2014, Thyssenkrupp che hanno sottolineato l'esigenza di limitare l'eccessiva ed indiscriminata ampiezza dell'imputazione oggettiva legata alla sussistenza di una posizione di garanzia. Occorre invece delimitare e diversificare le varie sfere di responsabilità. Le Sezioni unite hanno sottolineato che l'esigenza di delimitazione si è fatta strada attraverso lo strumento normativo costituito dall'art. 41 cpv c.p. Infatti, la diversità dei rischi interrompe, o per meglio dire separa, le sfere di responsabilità.

La giurisprudenza, a cui si ricollega anche la sentenza in commento, è oggi orientata a ritenere interruttivo un comportamento non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio che il garante è chiamato a governare. L'effetto interruttivo può essere dovuto a qualunque circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare.

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