È costituzionale la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria per il delitto di associazione mafiosa

20 Giugno 2017

Nessuna sorpresa: l'ordinanza 136 pronunciata dalla Corte costituzionale il 12 giugno 2017 – come era ampiamente prevedibile sebbene fosse da molti auspicato il totale superamento di ogni presunzione a carattere assoluto in materia cautelare – si pone esattamente nel solco degli insegnamenti del giudice delle leggi degli ultimi anni, com'è confermato dai richiami giurisprudenziali contenuti nella motivazione della pronuncia.
Abstract

Nessuna sorpresa: l'ordinanza 136 pronunciata dalla Corte costituzionale il 12 giugno 2017 – come era ampiamente prevedibile sebbene fosse da molti auspicato il totale superamento di ogni presunzione a carattere assoluto in materia cautelare – si pone esattamente nel solco degli insegnamenti del giudice delle leggi degli ultimi anni, com'è confermato dai richiami giurisprudenziali contenuti nella motivazione della pronuncia.

Praticamente in tutti i precedenti arresti, invero, la Corte costituzionale aveva fatto riferimento proprio al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa al fine di delineare il classico reato le cui ontologiche caratteristiche strutturali legittimano, a differenza di altri, la previsione di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria, con esclusione di ogni altro trattamento cautelare meno gravoso.

I pregressi interventi demolitori della Corte costituzionale sul regime presuntivo assoluto

Per tutti i reati indicati dall'art. 275, comma 3, c.p.p. nel testo previgente rispetto all'entrata in vigore della l. 47/2015, come in precedenza disposto dalla l. 332/1995 per i soli delitti di mafia, era stata prevista una presunzione relativa circa la sussistenza di esigenze cautelari, superabile mediante l'acquisizione di elementi da cui risultasse, invece, l'insussistenza di pericula libertatis, e una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria.

Proprio su questa seconda presunzione, di carattere assoluto, si erano concentrati gli strali della Corte costituzionale, che, con numerose pronunce, a partire dal 2010, ha via via, in riferimento a una molteplicità di reati, dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale presunzione, così come prevista dal Legislatore (cioè insuscettibile di prova contraria), non espellendola dall'ordinamento processuale ma trasformandola da assoluta in relativa (superabile mediante l'acquisizione di «elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»).

Appare utile riportare schematicamente, in ordine cronologico, le sentenze della Corte con le quali è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale, nei termini suindicati, del secondo e del terzo periodo dell'art. 275, comma 3, c.p.p. (nel testo antecedente la l. 47/2015):

  • sentenza 7-21 luglio 2010, n. 265: induzione alla prostituzione minorile o di favoreggiamento o sfruttamento della stessa, di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, comma 1, 609-bis e 609-quater c.p.);
  • sentenza 9-12 maggio 2011, n. 164: omicidio volontario (art. 575 c.p.);
  • sentenza 19-22 luglio 2011, n. 231: associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74 d.P.R. 309/1990);
  • sentenza 12-16 dicembre 2011, n. 331: favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (art. 12, comma 4, d.lgs. 286/1998);
  • sentenza 18 aprile - 3 maggio 2012, n. 110: associazione per delinquere finalizzata alla contraffazione e all'introduzione nello Stato di prodotti contraffatti (art. 416 c.p. realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p.);
  • sentenza 25-29 marzo 2013, n. 57: delitti commessi con la aggravante mafiosa, sia sotto il profilo del metodo mafioso (avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p.), sia sotto il profilo della agevolazione mafiosa (al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo) (art. 7 d.l. 152/1991 conv. in l. 203/1991);
  • sentenza 3-18 luglio 2013, n. 213: sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.);
  • sentenza 16-23 luglio 2013, n. 232: violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.);
  • sentenza 25 febbraio - 26 marzo 2015, n. 48: concorso esterno in associazione mafiosa (artt. 110, 416-bis c.p.).

Le considerazioni del giudice delle leggi muovono dall'individuazione dei quattro principi fondamentali che devono ispirare il Legislatore nel disciplinare la materia cautelare, principi che, peraltro, sono stati certamente recepiti dall'impianto codicistico, con la previsione di un articolato ventaglio di misure cautelari di gravità e afflittività ben differenziate e con l'affermazione della regola della extrema ratio in ordine all'applicazione della misura massima inframuraria, adottabile solo qualora tutte le altre misure meno gravose si rivelino inadeguate a salvaguardare i pericula libertatis evidenziati dal caso concreto:

  • principio di adeguatezza: secondo cui il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto (art. 275, comma 1, c.p.p.) e, conseguentemente, a fare ricorso alla misura massima (custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275 comma 3 c.p.p.);
  • principio di proporzionalità: secondo cui ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata (art. 275 comma 2 c.p.p.);
  • principio del minore sacrificio necessario: la compressione della libertà personale deve essere contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto;
  • principio della pluralità graduata: la previsione di una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, prefigurando criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.

La Corte ha evidenziato come qualsiasi regime presuntivo con carattere di assolutezza, dunque non superabile da prova contraria, si discosti palesemente da tali principi e debba trovare pertanto un'adeguata giustificazione.

È stato affermato che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit» e che «l'irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa«.

Muovendo da tali premesse, dunque, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della presunzione assoluta della sola misura carceraria (trasformandola in relativa) in relazione a una lunga serie di reati.

È certamente interessante operare una sintetica ricostruzione delle motivazioni che, reato per reato, hanno indotto il giudice delle leggi ad addivenire a tale conclusione, osservando che, assai significativamente, il parametro di riferimento costantemente utilizzato dalla Corte in tutte le sentenze sopra richiamate, al fine di verificare la ragionevolezza o meno del regime presuntivo previsto dal legislatore, è rappresentato proprio dal delitto di partecipazione ad associazione mafiosa di cui all'art. 416-bis c.p.

L'analisi viene compiuta esaminando prima le pronunce relative a delitti individuali, poi quelle inerenti a reati a carattere associativo e, infine, i delitti di mafia diversi dall'appartenenza a un sodalizio mafioso.

Con riferimento ai reati sessuali, la Corte ha rilevato che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in questione, non solo presentano disvalori nettamente differenziabili, condotte marcatamente differenti quanto a modalità lesive del bene protetto ma anche e soprattutto possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure.

Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere – e in effetti spesso sono – meramente individuali e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura.

Altrettanto può dirsi per quei fatti che si manifestano all'interno di specifici contesti (ad esempio, quello familiare o scolastico o di particolari comunità), in relazione ai quali le esigenze cautelari possono trovare risposta in misure diverse dalla custodia carceraria e che già il Legislatore ha previsto, proprio in via specifica, costituite dall'esclusione coatta in vario modo e misura dal contesto medesimo: gli arresti domiciliari in luogo diverso dalla abitazione del soggetto (art. 284 c.p.p.), eventualmente accompagnati da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis c.p.p.), l'obbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283 c.p.p.) e l'allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.).

In relazione al sequestro di persona, si è osservato che non è escluso che questo possa costituire frutto di iniziativa meramente individuale. Ma quando pure – come avviene nella generalità dei casi – il sequestro risulti ascrivibile a una pluralità di persone, esso può comunque mantenere un carattere puramente episodico o occasionale, basarsi su una organizzazione solo rudimentale di mezzi e recare una limitata offesa agli interessi protetti (libertà personale e patrimonio).

La fattispecie criminosa, quindi, può assumere le più disparate connotazioni concrete: dal fatto commesso “professionalmente” e con modalità efferate da organizzazioni criminali rigidamente strutturate e dotate di ingenti dotazioni di mezzi e di uomini; all'illecito realizzato una tantum da singoli o da gruppi di individui, quale reazione a una altrui condotta apprezzata come scorretta. Dal che deve conclusivamente inferirsi che in un numero non trascurabile di casi le esigenze cautelari potrebbero trovare risposta in misure diverse e meno afflittive della custodia carceraria.

Anche in relazione all'omicidio volontario si è affermato che non si tratta di un reato che implica o presuppone necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso. Al contrario, l'omicidio può bene essere, e sovente è, un fatto meramente individuale, che trova la sua matrice in pulsioni occasionali o passionali. I fattori emotivi che si collocano alla radice dell'episodio criminoso possono risultare, in effetti, correlati a speciali contingenze ovvero a tensioni maturate, in tempi più o meno lunghi, nell'ambito di particolari contesti, da quello familiare a quello dei rapporti socio-economici.

Trattasi, dunque, di un'ulteriore ipotesi di reato rispetto alla quale risulta del tutto ingiustificata una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia inframuraria, atteso che, in un notevole numero di casi, risultano sufficienti a salvaguardare le esigenze rilevate misure cautelari meno afflittive, che si appalesino in grado di determinare un allontanamento dell'indagato dal contesto in cui il delitto è maturato (misure, come si è detto, ampiamente messe a disposizione dal codice di rito).

Particolarmente rilevanti risultano le argomentazioni sviluppate dalla Corte in ordine ai delitti previsti dall'art. 74 d.P.R. 309/1990 e dall'art. 416 c.p. finalizzato alla realizzazione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., atteso che, in tal caso, non si tratta di reati monosoggettivi, bensì di delitti a carattere associativo.

Il giudice delle leggi, dopo aver riconosciuto che le fattispecie di tipo associativo presuppongono uno stabile vincolo di appartenenza del soggetto a un sodalizio criminoso, volto al compimento di una pluralità non predeterminata di delitti, precisa che questa sola caratteristica non è, tuttavia, ancora sufficiente a costituire un'adeguata “base logico-giuridica” della presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria.

Tale previsione presuntiva si giustifica, non alla luce del mero vincolo associativo a scopi criminosi, quanto piuttosto in ragione delle particolari caratteristiche che esso assume nella cornice della fattispecie.

Caratteristica essenziale, dunque, è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso: connotati tipici della peculiare fattispecie associativa di tipo mafioso.

Altrettanto non può dirsi per altre fattispecie associative, come il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Quest'ultimo si concreta, infatti, in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine (i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. 309/1990). Per consolidata giurisprudenza, essa non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo viceversa sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attività personali e di mezzi economici, benché semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune. Il delitto in questione prescinde, altresì, da radicamenti sul territorio, da particolari collegamenti personali e soprattutto da qualsivoglia specifica connotazione del vincolo associativo.

Si tratta, dunque, di fattispecie “aperta” che, descrivendo solo lo scopo dell'associazione e non anche specifiche qualità di essa, si presta a qualificare penalmente fatti e situazioni, in concreto i più diversi ed eterogenei: da un sodalizio transnazionale, forte di un'articolata organizzazione, di ingenti risorse finanziarie e rigidamente strutturato, al piccolo gruppo, talora persino ristretto a un ambito familiare operante in un'area limitata e con i più modesti e semplici mezzi.

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi, inoltre, anche su delitti di mafia, diversi da quello costituito dall'appartenenza a un'associazione mafiosa; si fa riferimento, in particolare, ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. 152/1991 conv. in l. 203/1991, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché al reato di concorso esterno in associazione mafiosa (artt. 110-416-bis c.p.).

È opportuno rilevare, come già ricordato che, rispetto a tali reati, la medesima Corte costituzionale (ordinanza n. 450/1995), così come la Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza Pantano del 2003), aveva, in passato, riconosciuto la legittimità costituzionale della presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria sancita dal previgente testo dell'art. 275, comma 3, c.p.p., proprio in virtù delle peculiari caratteristiche di tali reati, tutti maturati in ambito mafioso.

Con la sentenza n. 57/2013, la Corte, in riferimento all'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152/1991 (conv. in l. 203/1991), afferma che la circostanza in esame, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi (quella del metodo mafioso e quella della agevolazione mafiosa), è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano partecipi di un sodalizio di stampo mafioso, sia che risultino ad esso estranei.

Inoltre, il giudice delle leggi osserva che, mentre le precedenti declaratorie di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, c.p.p. avevano investito la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria con riguardo a singole, determinate fattispecie criminose, la disciplina dell'art. 7 d.l. 152/1991 è suscettibile di attagliarsi a qualsiasi delitto, anche della più modesta entità, purché connotato dalla finalità di agevolazione mafiosa o dalla realizzazione mediante il metodo mafioso.

Tali considerazioni hanno, quindi, indotto la Corte a escludere che la mera ritenuta sussistenza (a livello di gravità indiziaria) della circostanza aggravante in questione possa legittimare un regime cautelare di presunzione assoluta della sola misura inframuraria.

Analoghe argomentazioni vengono poi riprese dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 48/2015 in relazione al concorso esterno in associazione mafiosa.

Anzi, nella pronuncia sopra richiamata, si afferma che, mentre un delitto aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. 152/1991, come si è detto, può essere perpetrato, sia da un partecipe all'associazione mafiosa, sia da un soggetto estraneo alla stessa, il concorrente esterno è per definizione un soggetto che non prende parte stabilmente all'associazione, quindi ancor meno possono valere, nei suoi confronti, regimi presuntivi in materia cautelare che possono essere legittimati solo dall'appartenenza a un'associazione con connotati mafiosi.

Concorrente esterno è, infatti, colui che senza essere stabilmente inserito nell'organizzazione criminale, e rimanendo, dunque, privo dell'affectio societatis, fornisce un contributo causalmente efficiente – oltre che consapevole e volontario – alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative del sodalizio.

Al contrario, il partecipe intraneus all'associazione mafiosa, sotto il profilo oggettivo, è stabilmente inserito nella struttura criminale della stessa, mentre, dal punto di vista soggettivo, è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell'accordo e del programma criminoso in modo stabile e permanente.

Con le due sentenze da ultimo richiamate, pertanto, la Corte afferma il principio in virtù del quale non è sufficiente neppure la natura mafiosa del delitto (sia che si tratti di metodo mafioso, sia di agevolazione mafiosa, che di concorso esterno ad associazione mafiosa) al fine di rendere costituzionalmente legittima la previsione di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura custodiale massima, ma è necessaria l'appartenenza mafiosa: è cioè indispensabile che, a livello di gravità indiziaria, sia dimostrato che l'indagato fa parte stabilmente, dinamicamente e consapevolmente di un'associazione con i crismi della mafiosità.

Solo in tal caso, infatti, la misura coercitiva inframuraria si impone, al fine di recidere il legame esistente tra il destinatario della stessa e l'organizzazione criminale cui aderisce, caratterizzata da tutti i connotati tipicamente mafiosi (organizzazione rigidamente gerarchica, controllo del territorio, capacità di intimidazione, omertà).

Conseguentemente, allo stato attuale, solo il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa è risultato in grado di superare il vaglio di legittimità costituzionale in ordine alla previsione di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura custodiale inframuraria.

D'altro canto, si tratta di un reato del tutto peculiare, caratterizzato da: la natura associativa, con strettissimi legami di appartenenza; l'adesione permanente, tendenzialmente per tutta la vita, spesso con rituali di affiliazione che richiedono giuramenti di sangue; l'intimo rapporto con il territorio; limiti edittali di pena assai elevati.

Tutte queste caratteristiche inducono a opinare che, più che della partecipazione a un'organizzazione che si prefigge la perpetrazione di una serie indeterminata di delitti, si tratti di abbracciare, permanentemente, tendenzialmente per tutta la durata della vita, valori nettamente contrastanti con quelli statuali, in dirompente e insanabile contrapposizione con principi sanciti dalla Carta costituzionale.

In ordine a reati di differente natura, il Legislatore non deve certamente mostrarsi sordo alle istanze di sicurezza che si sollevano dalla società civile e alla particolare riprovevolezza suscitata dagli stessi ma deve farlo nei modi appropriati, che vengono esplicitamente indicati nell'inasprimento delle pene e nella velocizzazione dei processi, e ovviamente solo nei confronti di chi sia già stato ritenuto colpevole di tali delitti a conclusione di un regolare processo di merito. Per contro, a giudizio della Corte, il Legislatore non può anticipare tali effetti alla fase cautelare, quando ancora non è intervenuta alcuna affermazione di colpevolezza dell'indagato.

Nei casi censurati dal giudice delle leggi, la previsione di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura custodiale inframuraria si pone, dunque, in contrasto con puntuali principi costituzionali:

  • art. 3 (principi di uguaglianza e di ragionevolezza): atteso che, con la previsione di una presunzione assoluta si pretende, in primo luogo, di equiparare, in maniera irragionevole, tutti i suddetti delitti tra loro, non considerando che gli stessi abbracciano ipotesi concrete marcatamente eterogenee e suscettibili di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria; in secondo luogo, si tende a porre sullo stesso piano tali delitti con il reato di associazione mafiosa, delitto avente struttura e caratteristiche del tutto peculiari, non estensibili agli altri reati sottoposti all'esame della Corte;
  • art. 13, comma 1, (principio di inviolabilità della libertà personale): che costituisce il parametro fondamentale in materia di misure cautelari personali;
  • art. 27, comma 2, (presunzione di non colpevolezza): in quanto, con la previsione di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria, si determina un'impropria estensione alle misure cautelari (che vengono applicate in una fase in cui vige ancora il principio di non colpevolezza) di caratteri che sono, invece, tipici delle pene (che possono essere comminate solo a conclusione di un giudizio definitivo di accertamento della responsabilità penale).

In tutte queste ipotesi, ciò che è stato giudicato in contrasto con la Carta costituzionale, non è la presunzione in sé, bensì il suo carattere assoluto che nega totalmente i principi di adeguatezza e minore sacrificio necessario, conseguentemente tutte le suindicate decisioni della Corte non culminano in una totale espunzione delle predette presunzioni dal testo dell'art. 275, comma 3, c.p.p., bensì nella loro trasformazione in presunzioni a carattere meramente relativo.

In tal modo, le presunzioni indicate, pur rimanendo in vigore, perdono la loro assolutezza, divenendo suscettibili di essere superate mediante prova contraria, rappresentata da elementi specifici relativi al caso concreto che siano in grado di dimostrare che le rilevate esigenze cautelari possono essere adeguatamente salvaguardate mediante l'applicazione di misure cautelari meno afflittive della custodia carceraria.

In definitiva, a valle dello sciame di sentenze della Corte costituzionale che ha attinto la disposizione dell'art. 275, comma 3, c.p.p. (antecedente l'entrata in vigore della l. 47/2015), l'unica eccezione legittima ai principi di adeguatezza, pluralità graduata e minore sacrificio necessario è rappresentata dal delitto di associazione mafiosa di cui all'art. 416-bis c.p. (peraltro con esclusione dell'ipotesi del concorso esterno al sodalizio).

A seguito delle nove sentenze che, dal 2010 al 2015, hanno reiteratamente stigmatizzato il disposto di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., dunque, residua una sfera di legittimità costituzionale della presunzione assoluta della custodia carceraria ben più circoscritta rispetto a quella che aveva superato indenne il vaglio di legittimità operato con l'ordinanza n. 450/1995, atteso che, in tal caso, a differenza degli ultimi interventi del giudice delle leggi, tale presunzione era stata ritenuta in linea con i principi costituzionali anche in relazione al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa e ai reati aggravati dal metodo mafioso o dall'agevolazione mafiosa.

La presunzione assoluta della previsione carceraria è stata, infatti, in tal caso, ritenuta ragionevole in base alla struttura stessa della fattispecie e alle sue connotazioni criminologiche, legate alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente a un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice, con la conseguenza che, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, ne deriva un'esigenza cautelare alla cui soddisfazione è adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure minori sufficienti a recidere i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).

Il recente precedente della Corte di cassazione

La questione di legittimità costituzionale del disposto dell'art. 275, comma 3, c.p.p., come novellato dalla l. 47/2015, è stata, ancora una volta, recentemente sollevata innanzi alla Corte di cassazione, proprio con riferimento alla presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria prevista da detta disposizione per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 8240 del 19 gennaio 2016 - dep. 29 febbraio 2016, Vadalà).

Secondo la prospettazione difensiva, la predetta presunzione sarebbe contraria agli artt. 3, 13, 27, comma 2, e 117 della Costituzione, nonché all'art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in ragione della disparità di trattamento operata tra il concorrente esterno dell'associazione mafiosa (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 48/2015) e il mero partecipe della stessa, soggetti per i quali la valutazione in ordine alla pericolosità non potrebbe che essere la medesima.

La difesa del ricorrente affermava, in particolare, che il concorrente esterno potrebbe talvolta apportare un contributo, ai fini del raggiungimento degli scopi dell'associazione, più incisivo di quello del semplice partecipe; di conseguenza, i principi costituzionali invocati imporrebbero anche per gli indagati del reato di cui all'art. 416-bis c.p. una valutazione «tarata sul caso specifico e rilasciata al sereno giudizio del giudice che abbia riguardo unicamente alla posizione personale del soggetto sottoposto alla misura cautelare».

La Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione sollevata proprio prendendo le mosse da quanto statuito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 48/2015 (illustrata in precedenza e richiamata per ampi stralci nella pronuncia della Cassazione). In particolare, i giudici di legittimità evidenziano come la Consulta sia addivenuta a una pronuncia di illegittimità costituzionale della presunzione assoluta prevista per il concorrente esterno ad associazione mafiosa proprio operando un serrato confronto con la diversa figura del partecipante, intraneus al sodalizio criminale.

Come si è già detto, la Corte costituzionale ha sottolineato che, mentre il membro interno dell'associazione è a questa legato da un vincolo stabile e tendenzialmente permanente, così non è, invece, per il concorrente esterno, che può essere chiamato a fornire al sodalizio anche un contributo estemporaneo e occasionale, che non lo vincola stabilmente all'organizzazione.

Si afferma, pertanto, ancora una volta, anche a seguito dell'entrata in vigore della l. 47/2015, che la posizione del partecipante ad associazione mafiosa integra una condizione del tutto peculiare in ragione della sua pericolosità sociale e della persistenza nel tempo della stessa (gli assunti difensivi muovevano, in particolare, dall'introduzione del requisito dell'attualità dei pericula libertatis operata dalla riforma del 2015), che legittima il regime derogatorio della presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura custodiale massima.

Le motivazioni poste a base della decisione

La ricostruzione appena operata dei molteplici interventi demolitori posti in essere dalla Corte in relazione a numerosi delitti, anche associativi o di tipo mafioso, proprio muovendo dal confronto con il reato di partecipazione ad associazione mafiosa, rendeva in verità agevole prevedere l'esito della questione di legittimità costituzionale da ultimo sollevata dalla Corte d'appello di Torino il 14 giugno 2016 in relazione al delitto di cui all'art. 416-bis c.p.

I giudici costituzionali, invero, hanno adottato una soluzione che si colloca in stretta continuità con la giurisprudenza della Corte degli ultimi anni e decenni, ribadendo come la stabile compenetrazione in un sodalizio di stampo mafioso giustifichi pienamente la statuizione di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria, unica in grado di recidere il legame del singolo sodale con l'ambiente criminale di riferimento, secondo una previsione munita di adeguata base statistica.

Ciò a prescindere dal ruolo ricoperto all'interno dell'associazione (apicale o di mera partecipazione), atteso che ciò che rileva – secondo la Corte – è esclusivamente il vincolo stabile e tendenzialmente permanente con l'organizzazione criminale, che legittima il ricorso all'unica misura della custodia inframuraria.

La pronuncia è stata propiziata dalla richiamata ordinanza con la quale la Corte d'appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, c.p.p., «nella parte in cui nel prevedere che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis c.p. è applicata la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».

Il caso concreto riguardava un sodale di un'associazione mafiosa rispetto al quale la Corte torinese poneva in evidenza la possibilità di tutelare adeguatamente le esigenze cautelari mediante applicazione della misura meno gravosa degli arresti domiciliari, corredata da meccanismi di controllo e da adeguate prescrizioni di non comunicazione con l'esterno. In particolare, la Corte rilevava: il lungo periodo di carcerazione già subita (circa tre anni e otto mesi), il ruolo non apicale svolto dall'imputato, l'assenza di responsabilità per reati-fine, la precedente incensuratezza e la disponibilità della convivente ad accoglierlo in casa.

Di contrario avviso la decisione della Corte costituzionale, la quale ha rimarcato che, sin dalla sentenza n. 265/2010, ha costantemente affermato che «l'appartenenza a un'associazione di tipo mafioso implica, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un'esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure 'minori' sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità».

Operando il raffronto con il proprio precedente pronunciamento in materia di associazione destinata al narcotraffico (art. 74 d.P.R. 309/1990), la Corte ha statuito che la differenza fondamentale rispetto al delitto di partecipazione mafiosa va rinvenuta proprio nella specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, «da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso».

Proprio muovendo dalla peculiare valenza del vincolo associativo mafioso, la Corte esclude che possa assumere rilievo la distinzione tra la posizione del mero partecipe e quella degli associati con ruoli apicali, atteso che, a prescindere dalle specifiche condotte dei diversi associati e dai ruoli da loro ricoperti in seno al sodalizio criminale, «il dato che rileva, e che sotto l'aspetto cautelare li riguarda tutti ugualmente, è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo, vincolo che fa ritenere la custodia in carcere l'unica misura in grado di troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza».

In conclusione

In ordine alla presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria prevista in relazione al delitto di cui all'art. 416-bis c.p. dall'art. 275, comma 3 c.p.p. (come novellato dalla l. 47/2015), inteso come partecipazione da intraneus al sodalizio di stampo mafioso, appare assai difficile che la Corte costituzionale, almeno a breve, possa tornare sui propri passi e dichiararne l'illegittimità costituzionale.

È vero che un evidente revirement è stato compiuto, con le sentenze n. 57/2013 e n. 48/2015, superando quanto precedentemente statuito con l'ordinanza n. 450/1995 (e anche in precedenza), in ordine ai delitti di concorso esterno in associazione mafiosa e ai reati aggravati dal metodo mafioso o dall'agevolazione mafiosa. Tuttavia, si tratta di reati che, come evidenziato dalla stessa Corte, pur tradendo evidenti profili di mafiosità, presentano una struttura della fattispecie e delle connotazioni criminologiche nettamente differenti rispetto al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa previsto dall'art. 416-bis c.p..

A tacer d'altro, si tratta di delitti che non presuppongono affatto o, addirittura, ontologicamente escludono l'appartenenza dell'autore a un sodalizio mafioso, non presentando, dunque, quello strettissimo vincolo associativo, tipico delle organizzazioni mafiose, la cui recisione necessita, indefettibilmente, della misura cautelare estrema.

Il delitto di partecipazione mafiosa, invece, come evidenziato, palesa peculiari caratteristiche, che appaiono in grado di legittimare, pur nel mutato quadro normativo, la previsione di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria.

Occorre, sul punto, osservare che la Corte costituzionale, non soltanto ha statuito più volte la piena compatibilità con i principi costituzionali della presunzione in esame in relazione al delitto di cui all'art. 416-bis c.p., già a partire dagli anni novanta (ordinanza n. 450/1995 e altre), ma soprattutto - come si è evidenziato - nella pletora di sentenze che ha falcidiato l'art. 275, comma 3, c.p.p. nel quinquennio 2010-2015, ha costantemente adoperato il delitto di associazione mafiosa come tertium comparationis, al fine di raffrontare a questo altre fattispecie delittuose, verificando in tal modo la ragionevolezza della parificazione effettuata dal Legislatore, con la previsione, anche per tali delitti, di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura custodiale massima.

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