Il dolo intenzionale dell’abuso di ufficio

Antonio Corbo
20 Luglio 2015

l dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio non è escluso dalla mera compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario, per ritenere insussistente l'elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca il fine primario dell'agente.
Massima

Il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio non è escluso dalla mera compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario, per ritenere insussistente l'elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca il fine primario dell'agente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna di due funzionari del competente ufficio comunale che avevano proceduto alla sistematica assegnazione di alloggi popolari a soggetti non aventi diritto, attraverso palesi violazioni dell'ordine di graduatoria, e che avevano giustificato il loro agire adducendo l'esigenza di provvedere con celerità al fine di contrastare il fenomeno delle occupazioni abusive).

ll caso

Gli imputati, nelle rispettive qualità di dipendente e dirigente dell'Ufficio politiche abitative di un Comune, erano stati perseguiti per numerosi reati di abuso di ufficio, relativi a provvedimenti di assegnazione di alloggi popolari adottati in violazione dell'ordine della graduatoria degli aventi diritto, e a vantaggio di persone che occupavano in questa posizioni anche molto remote.

Procedendo nelle forme del rito abbreviato, il primo giudice aveva assolto gli accusati osservando che la sistematicità e la pervasività della violazione delle graduatorie, in difetto della prova di relazioni “privilegiate” tra i funzionari e ciascuno degli assegnatari, non consentiva di affermare la volontà dei primi di avvantaggiare alcuno dei secondi.

A seguito di impugnazione del pubblico ministero, la Corte di appello, invece, aveva affermato la penale responsabilità degli imputati, evidenziando, quanto alla sussistenza del dolo richiesto dall'art. 323 c.p., e quindi della volontà di procurare un ingiusto vantaggio, che la generalizzata e perdurante assenza di indicazioni sui criteri seguiti per le assegnazioni faceva concludere nel senso “che dietro ad ogni designazione illegittima vi sia stata la segnalazione del relativo nominativo”. Tale affermazione seguiva alla constatazione dell'assoluta arbitrarietà nella gestione delle procedure, nelle quali era dato riscontrare: l'assegnazione di case a soggetti in posizione remotissime – distanti anche decine di migliaia di posti dagli aventi diritto ad essere chiamati – ovvero dopo attese a volte molto brevi, a fronte di altre caratterizzate da tempi dilatati fino a cinque o sei anni; la violazione spesso macroscopica delle norme procedurali; l'assoluta assenza di giustificazioni per alcuna delle deroghe all'ordine di graduatoria. Si osservava, inoltre, che l'eventuale concomitanza di finalità pubblicistiche perseguite dagli agenti – che si prospettava derivasse dall'urgenza di assegnare gli alloggi per prevenire occupazioni abusive – non determinava, comunque, l'esclusione del dolo intenzionale, anche perché la rapidità delle assegnazioni sarebbe stata meglio assicurata dallo scorrimento della graduatoria.

Le difese avevano proposto ricorso per cassazione deducendo, in particolare, che, per la prova dell'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio, non sarebbe sufficiente neanche la consapevolezza della “doppia ingiustizia” del fatto, quando lo stesso sia commesso nel preminente interesse della collettività, e che era indimostrata l'asserzione secondo cui le esigenze di celerità sarebbero state meglio garantite dal rispetto delle graduatorie.

La questione

La Sezione VI è stata chiamata a decidere, in particolare, se, e in che limiti, la compresenza di una finalità pubblicistica escluda il dolo richiesto per la sussistenza del reato di abuso d'ufficio, nonché se possa ritenersi correttamente motivata la sentenza di condanna nella parte in cui desume l'intenzionalità di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale a terzi pur in difetto della dimostrazione di rapporti ‘particolari' tra funzionario e soggetto favorito.

In altri termini, quindi, sia problemi di giuridica configurabilità dell'elemento soggettivo della fattispecie prevista dall'art. 323 c.p., sia problemi di prova dello stesso.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione, pur non provvedendo ad enunciarli formalmente, ha evidenziato i seguenti principi di diritto:

a) l'eventuale “compresenza” di una finalità pubblicistica non esclude il dolo necessario ai fini dell'integrazione dell'abuso di ufficio;

b) la prova del dolo previsto dalla fattispecie di cui all'art. 323 c.p. non implica necessariamente la previa dimostrazione dell'esistenza di “particolari” rapporti tra pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) e soggetto beneficiato.

Per quanto attiene al primo principio, la Corte ha innanzitutto richiamato l'affermazione giurisprudenziale, definita “costante”, secondo cui “la concorrenza di una utilità generale del provvedimento illegittimo assunto, e la consapevolezza in proposito maturata nell'agente pubblico, non implicano l'insussistenza del dolo punibile, quando l'indebito vantaggio o l'ingiusto danno costituiscono il fine primario perseguito”. Ha poi rilevato che, nel caso di specie, quand'anche i provvedimenti illegittimi di assegnazione degli alloggi fossero ritenuti dagli agenti funzionali a contrastare il fenomeno delle occupazioni abusive, tale (ipotetica) finalità ‘pubblicistica' era comunque secondaria rispetto all'intento ‘privatistico' (di procurare indebiti vantaggi).

Con riferimento al secondo principio, la Corte ha evidenziato che la prova del dolo intenzionale poteva ritenersi correttamente desumibile in ragione della concorrente presenza delle seguenti circostanze: la situazione di sistematica illegalità dell'azione amministrativa; l'assenza di costanti nelle scelte provvedimentali (nella specie, era possibile rilevare, comparando i singoli casi, l'estrema mutevolezza dei tempi di attesa per le assegnazioni, e del numero di posizioni scavalcate); la totale assenza di documentazione relativa all'attività (illegalmente) svolta; la omessa indicazione da parte degli imputati dei criteri utilizzati (tanto nei singoli casi, quanto in generale). Il concorso di tali vicende, infatti, per i giudici di legittimità, consentiva di formulare solo due spiegazioni: o che i provvedimenti attributivi di un significativo vantaggio patrimoniale (l'assegnazione di un alloggio) venissero adottati “a caso, o con criteri fantasiosi”, o, in alternativa, che detti atti fossero diretti “a favorire il fortunato di turno”. Questa conclusione rendeva ragionevole l'affermazione del giudice di appello secondo cui, posto il descritto quadro fattuale, era irrilevante la mancanza di documentazione di rapporti individuali tra gli imputati ed i soggetti favoriti.

Un'ultima notazione. La sentenza, sia pur incidentalmente, ha anche offerto una significativa precisazione in ordine al requisito, attinente al profilo oggettivo del reato, della “doppia ingiustizia”, per effetto del quale la fattispecie è integrata solo se sia la condotta, sia l'evento (di vantaggio o di danno) siano illegittimi. Nello specifico, la difesa aveva rappresentato che l'assegnazione degli alloggi era avvenuta comunque a persone comunque presenti in graduatoria, e quindi astrattamente legittimate. La Corte, però, ha rilevato che tale argomento è “irrilevante”, perché “si discute non del […] diritto all'assegnazione di una casa popolare ma del […] diritto ad ottenere una casa determinata in un momento determinato”

Osservazioni

1. Il primo principio – secondo cui l'eventuale ‘compresenza' di una finalità pubblicistica non esclude il dolo necessario ai fini dell'integrazione dell'abuso di ufficio – offre una puntualizzazione dell'ambito applicativo dell'elemento psicologico prefigurato dall'art. 323 c.p.

È utile premettere che la fattispecie incriminatrice, come riformulata per effetto della legge 16 luglio 1997, n. 234, richiede esplicitamente, attraverso l'avverbio “intenzionalmente”, la sussistenza del dolo intenzionale dell'evento (di vantaggio o di danno ingiusti).

Il ricorso a tale categoria esclude inequivocabilmente la rilevanza del dolo eventuale, ma anche del dolo diretto: in altri termini, il soggetto deve agire “proprio” per perseguire gli eventi di vantaggio o di danno ingiusti, non essendo sufficiente che il medesimo agisca rendendosi conto del loro verificarsi come conseguenza “certa” della sua azione. La soluzione risulta assolutamente condivisa in dottrina. Nello stesso senso, poi, è orientata la giurisprudenza assolutamente prevalente: tra le altre, Cass. pen., Sez. VI, 24 febbraio 2004, n. 21091; Cass. pen., Sez. VI, 7 maggio 2008, n. 35859.

Tuttavia, “intenzionalità” non significa anche “esclusività” del fine: l'art. 323 c.p. non richiede che l'agente agisca “al solo scopo” di conseguire l'evento tipico. Di conseguenza, è necessario cioè che l'agente agisca anche (rectius: prevalentemente) con l'intenzione di procurare un danno o un vantaggio ingiusti, e non, invece, esclusivamente con tale intenzione.

In questo senso, è orientata la giurisprudenza dominante (v., oltre la sentenza in commento, tra le tante: Cass. pen., Sez. VI, 24 febbraio 2011, n. 18895; Cass. pen., Sez. VI, 19 dicembre 2011, n. 7384; Cass. pen., Sez. III, 17 gennaio 2014, n. 10810).

Non molto distante è l'opinione della dottrina, la quale afferma che non dovrebbe escludersi il reato quando l'agente abbia operato essenzialmente e prevalentemente al fine privato, pur se allo stesso si sia accompagnato, per ragioni contingenti, un fine pubblico.

In questa prospettiva, il requisito della “intenzionalità” dovrà essere escluso quando l'evento tipico sia una conseguenza accessoria dell'operato dell'agente, ponendosi cioè come effetto secondario di una condotta diretta a realizzare un fine pubblico.

Ciò spiega il consistente orientamento giurisprudenziale, richiamato anche dalla Corte costituzionale, ord. n. 251 del 2006, che esclude la configurabilità del reato di cui all'art. 323 c.p. quando l'intenzione primaria dell'agente sia quella del conseguimento di un fine pubblico.

In questo senso, tra le tante: Cass. pen., Sez. VI, 2 agosto 2000, n. 8745 (la quale ha affermato la correttezza della decisione impugnata che aveva escluso la sussistenza del dolo intenzionale nel comportamento del rettore di una università il quale, pur consapevole del blocco delle assunzioni del personale non docente, salvo deroghe per particolari esigenze delle facoltà di agraria, veterinaria e degli orti botanici, aveva assunto personale con la qualifica richiesta per l'utilizzazione in questi ultimi, e lo aveva poi destinato a funzioni amministrative nell'università); Cass. pen., Sez. VI, 6 maggio 2003, n. 33068 (la quale ha ravvisato l'assenza dell'elemento soggettivo richiesto nella condotta del sindaco di un comune che aveva rilasciato un'autorizzazione sanitaria ad un ristoratore non abilitato allo scopo di far fronte ad una situazione emergenziale in occasione di un importante evento turistico svolgentesi nel territorio dell'ente); Cass. pen., Sez. VI, 8 ottobre 2003, n. 708; del 2004 (la quale ha ritenuto non integrato il dolo in riferimento alla condotta di un sindaco che aveva rilasciato un'autorizzazione edilizia in violazione della normativa urbanistica sul risanamento del centro storico, allo scopo esclusivo di favorire il recupero di abitanti nel borgo antico che si stava progressivamente spopolando e rischiava il definitivo abbandono); Cass. pen.,Sez. V, 3 dicembre 2010, n. 3039; del 2011 (la quale ha ritenuto non provato il dolo intenzionale con riferimento alla condotta di un Sindaco che aveva ordinato la rimozione di alcune fioriere da un'area di interesse culturale, non potendo escludersi che il medesimo avesse agito al fine di perseguire un vantaggio per la cittadinanza piuttosto che per danneggiare le parti civili).

Va però precisato che per fine pubblico non può intendersi un fine genericamente collettivo o il fine privato di un ente pubblico o un fine politico. In questo senso, si è espressa Cass. pen.,Sez. VI, 9 novembre 2010, n. 39371, non mass., la quale ha annullato la sentenza di non luogo a procedere emessa dal G.U.P. per aver qualificato come pubblico il fine, in realtà politico, perseguito dagli amministratori comunali, i quali avevano affidato, in violazione della disciplina di evidenza pubblica, gli stadi del Comune e le relative aree pertinenziali alla locale squadra di calcio per evitare iniziative come la cessione di quest'ultima ed il conseguente ‘turbamento' della tifoseria.

2. Il secondo principio – secondo cui la prova del dolo previsto dall'art. 323 c.p. non implica necessariamente la previa dimostrazione dell'esistenza di “particolari” rapporti tra agente pubblico e soggetto beneficiato – ribadisce il principio della libertà della prova.

E' indubbio che l'accertamento processuale di una forma così intensa di dolo, come quella richiesta dall'art. 323 c.p., è “un'operazione complessa e dagli esiti incerti”, la quale richiede di “sondare in profondità il processo motivazionale del pubblico funzionario” (così FIANDACA-MUSCO).

Ciò non toglie, però, che la verifica giudiziale “dovrà pur sempre essere svolta assumendo a punto di riferimento le circostanze esterne del caso e utilizzando massime di esperienza” (FIANDACA-MUSCO).

Ne consegue che ai fini dell'indagine, assumeranno rilievo sia l'atto o comportamento singolarmente valutati, sia gli elementi estrinseci all'atto o al comportamento idonei ad evidenziarne l'ideazione e l'intenzione.

In coerenza con questa impostazione, è generalmente esclusa la necessità della prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari (cfr., in termini, Cass. pen., Sez. VI, 18 novembre 1999, n. 910; del 2000 e, più recentemente, tra le tante, Cass. pen., Sez. III, 7 novembre 2013, n. 48475 nonché Cass. pen., Sez. VI, 15 aprile 2014, n. 36179).

Piuttosto, è possibile rinvenire affermazioni contrastanti circa la possibilità di desumere la prova del dolo intenzionale dalla “macroscopica” illegittimità degli atti adottati: accanto ad un ampio orientamento favorevole (ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, 22 ottobre 2003, n. 49554, nonché Cass. pen., Sez. III, n. 48475 del 2013 e, da ultimo, Cass. pen., Sez. VI, n. 36179 del 2014), altre decisioni, invece, sottolineano la necessità di acquisire ulteriori elementi di convincimento (ad esempio, Cass. pen., Sez. VI 27 giugno 2007, n. 35814 e Cass. pen., Sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 21192).

Guida all'approfondimento

BENUSSI, I delitti contro la pubblica amministrazione, in Trattato di Diritto Penale - Parte Speciale, diretto da Marinucci e Dolcini, vol. I, tomo I, 2013, Padova.

CATENACCI, Reati contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia, Torino, 2011

FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, 2007,

PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, I, Milano, 2008, 6^ ed.

ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2015.

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