Atti osceni in luogo pubblico. La prostituzione coatta integra lo stato di necessità

20 Ottobre 2015

Non è punibile la persona che abbia commesso il delitto di atti osceni in luogo pubblico quando, al momento del fatto, la stessa era vittima di gravissimi delitti, quali la riduzione in schiavitù, la prostituzione coatta ed altri delitti contro la persona, tutti accertati a seguito di processo con sentenza passata in giudicato e poi acquisita agli atti nel corso del giudizio di merito cosi ché sia emersa in maniera evidente la sussistenza dello stato di necessità ex art. 54 c.p. La Corte suprema annulla senza rinvio la sentenza di merito impugnata perché l'imputata non è punibile per avere agito in stato di necessità.
Massima

Non è punibile la persona che abbia commesso il delitto di atti osceni in luogo pubblico quando, al momento del fatto, la stessa era vittima di gravissimi delitti, quali la riduzione in schiavitù, la prostituzione coatta ed altri delitti contro la persona, tutti accertati a seguito di processo con sentenza passata in giudicato e poi acquisita agli atti nel corso del giudizio di merito cosi ché sia emersa in maniera evidente la sussistenza dello stato di necessità ex art. 54 c.p.

La Corte suprema annulla senza rinvio la sentenza di merito impugnata perché l'imputata non è punibile per avere agito in stato di necessità.

Il caso

Il 16 maggio 2011 il tribunale di Roma condannava una donna alla pena di mesi due di reclusione, concessa la sospensione condizionale della pena, perché ritenuta responsabile di avere commesso, in data 24 settembre 2007, in pubblica via atti osceni consistiti in un rapporto sessuale con altro soggetto.

In data 22 ottobre 2014 la Corte di appello di Roma confermava la sentenza di primo grado ritenendo che non fosse applicabile l'esimente dello stato di necessità sulla base del rilievo oggettivo, promosso dalla difesa, consistente nella sentenza della Corte di Assise di Roma passata in giudicato che attestava che la donna, di nazionalità estera, era sfruttata nel mercato della prostituzione con violenza e coercizione. I giudici di merito, quindi, confermavano la condanna in secondo grado sostenendo che l'imputata poteva rifiutarsi di commettere gli atti osceni sottraendosi alla sua condizione di assoggettata alla prostituzione ed invocando l'aiuto delle Forze dell'ordine. Inoltre, i giudici di secondo grado affermavano che era evidente la consapevolezza dell'imputata di commettere il delitto di atti osceni.

La difesa proponeva ricorso per Cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza di secondo grado per violazione ex art. 606, lett. b), c.p.p. ritenendo che la prova era stata travisata, per illogicità e mancanza o mera apparenza della motivazione relativamente alla sussistenza degli elementi costitutivi soggettivi ed oggettivi del reato.

La questione

La suprema Corte è stata adita per affrontare la sussistenza della scriminate dello stato di necessità in costanza di condotta di atti osceni in luogo pubblico.

L'esimente prevista dall'art 54 c.p. desta, in realtà, non poche problematiche di natura giuridica ed anche culturale.

Essa consta di due fattori prodromici necessari che devono essere oggetto di valutazione processuale: il bilanciamento degli interessi e l'inesigibilità della condotta diversa.

Il giudice, quindi, è tenuto a valutare se il reo abbia operato per il tramite di quella condotta penalmente rilevante al fine di tutelare un interesse ritenuto prevalente su un altro e che pertanto poteva essere sacrificato; allo stesso modo, il giudice dovrà valutare se il reo avesse potuto o meno comportarsi in altro modo senza dunque porre in essere il reato contestato.

Elementi costituitivi della scriminate in oggetto sono la situazione necessitante e la reazione necessitata.

La situazione necessitante consiste in un atto o fatto dal quale scaturisce un pericolo attuale ed incombente il quale, se cagionato da atto umano, non deve essere imposto o autorizzato e se consistente in una minaccia di terzi scrimina l'agente e fa ricadere il fatto in capo ai terzi che hanno posto in essere la minaccia (sul concetto di incombenza del pericolo si veda: Cass. pen., Sez V, 2143/2014).

Inoltre, il pericolo esistente deve lasciare un margine di potere decisionale all'agente perché in caso di costringimento fisico o forza maggiore troveranno applicazione le norme previste dagli artt. 45 e 46 c.p. ma non lo stato di necessità.

L'esimente di cui si tratta, infine, si fonda sul pericolo di danno grave alla persona e non di un mero pregiudizio ai diritti della stessa. Se il danno grave incombe su terza persona si tratterà del c.d soccorso di necessità.

La reazione necessitata o proporzione, invece, è un concetto mutuabile dall'esimente della legittima difesa ma, in questa sede, impone un maggiore rigore: la condotta che si valuta quale necessitata è scriminabile solo se essa è stata l'unica che ragionevolmente il soggetto agente poteva porre in essere (si vedano sul punto: Cass. pen., Sez. III, n. 17592/2006; Cass. pen., Sez. VI, n. 33076/2003).

Infine, sul piano probatorio, la Corte di cassazione, Sez. V, con sentenza n. 32937/2014 (conforme: Cass. pen., Sez. VI, n. 45065/2014), segnala l'obbligo in capo all'imputato ad allegare, con completezza, gli elementi fondanti l'esimente ex art. 54 c.p.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione, nella sentenza oggetto di commento, ha ritenuto che gli interessi in gioco e gli altri requisiti richiesti dalla norma ravvisino la sussistenza dello stato di necessità.

Infatti, la parte della sentenza di merito impugnata, laddove argomenta l'affermazione della responsabilità penale e nega il riconoscimento della sussistenza dello stato di necessità, è ritenuta dai giudici di legittimità lacunosa e priva di esaustiva descrizione delle acquisizioni probatorie, prima fra tutte l'accertamento della qualità di persona offesa dell'imputata nei delitti di riduzione in schiavitù e servitù, di prostituzione coatta connesso allo sfruttamento sessuale posto in essere per lungo periodo e di altri fatti lesivi della persona.

La suprema Corte dichiara che la motivazione della sentenza impugnata è insufficiente, generica e apodittica quando nella parte in cui afferma la necessità che la donna, pur nelle condizioni di soggezione in cui versava, usasse maggiore cautela nell'esercizio del meretricio, appartandosi in un luogo non alla facile vista del pubblico.

I giudici di legittimità colgono l'occasione per una disamina, di encomiabile puntualità, dei precedenti giurisprudenziali e delle norme internazionali e comunitarie che prevedono la tutela delle vittime e rendono per l'effetto applicabile lo stato di necessità. In particolare segnalano la sentenza, Sez. III, 15 febbraio 2012, n. 19225 con la quale era stata già dichiarata configurabile la causa di giustificazione nei confronti di una donna straniera, ridotta in condizione di schiavitù e costretta a prostituirsi, la quale era stata indotta a commettere i reati previsti dagli artt. 495 e 496 c.p. per il timore che, in caso di disobbedienza, potesse essere esposta a pericolo la vita o l'incolumità fisica dei suoi familiari .

Anche nel caso in esame, il comportamento criminale di asservimento è collegato a ripetute condotte di costrizione mediante violenza e minaccia ed anche al permanere dello sfruttamento; tale abitualità trasforma l'essere umano dallo stato di libero e quindi dalla possibilità di autodeterminare con la volontà i propri liberi comportamenti, se recitando le scelte in ordine alla propria esistenza, in un soggetto asservito, ossia utilizzato a fini di profitto, quasi come una res o merce, nello sfruttamento, che nel caso di specie era posto in essere attraverso la prostituzione coatta per lucrare i proventi dell'attività di meretricio” (conforme, Cass. pen., Sez. V, n. 45594/2014).

La suprema Corte richiama, in parte motiva, anche la legge 11 agosto 2003 n. 228 di recepimento delle norme europee e del Protocollo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine organizzato transnazioanle del 2000, c.d. trafficking in human beings, ratificata con legge interna n. 146 del 16 marzo 2006; la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di essere umani del 2005, ratificata con legge del 2 luglio 2010, n. 108; la Direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e repressione della tratta degli esseri umani; la Direttiva 2012/29/UE istituente norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato; infine, la Direzione Quadro 2001/220/GAI.

Alla luce di tali indicazioni normative e dei precedenti giurisprudenziali citati la Corte di cassazione afferma che non è a maggior ragione sostenibile, come semplicisticamente sintetizzato nella parte motiva della sentenza impugnata, che una vittima di schiavitù sessuale, senza alcuna capacità di determinarsi nelle scelte fondamentali della propria vita perché in condizioni di asservimento, tenuta a dimostrare il quotidiano saldo dei proventi della prostituzione coatta alla quale è costretta, spesso con la vigilanza dello sfruttatore o di un suo incaricato – senza alcuna alternativa percorribile, senza alcun aiuto di sottrarsi a tale servitù per le continue violenze e minacce alla quali è sottoposta- possa, e quindi debba, mettere maggiore cura nella scelta del luogo ove effettuare la prestazione sessuale, pretendendo il rispetto di tale indicazione da parte dell'occasionale e frettoloso cliente.”

È stato conclusivamente enunciato il seguente principio di diritto: Il corretto accertamento della liceità oggettiva del comportamento posto in essere in una situazione riconducibile allo stato di necessità presuppone, innanzitutto, la verifica processuale durante il giudizio di merito che sia stato tutelato un interesse giuridico di natura prevalente rispetto a quello oggetto di tutela mediante la fattispecie incriminatrice violata. Inoltre, deve essere del pari accertata l'involontarietà ed inevitabilità del pericolo e la sua attualità al momento del fatto e, di conseguenza, il grado di compressone della libertà di autodeterminazione in capo all'autore del fatto. Infatti, se pure non è necessario che risulti realizzata una vera e propria costrizione della volontà, la dottrina ha opportunamente sottolineato come l'alternativa tra offendere od essere offeso debba essere vissuta in termini autenticamente personali.

Osservazioni

Nel giudizio di bilanciamento fra interessi contrapposti, nel caso di specie, è evidente come e quanto la tutela della vita e dell'incolumità della donna sottoposta ad assoggettamento e riduzione in schiavitù finalizzata alla prostituzione sia, di gran lunga, prevalente rispetto alla difesa del pudore e del buon costume perseguiti dalla previsione penale dell'art. 527 c.p.

Per la migliore comprensione del caso di specie, però, occorre chiarire che con la legge 11 agosto 2003, n. 228 si è non solo riscritto l'art. 600 c.p. ma, soprattutto, si è dato corpo alle istanze normative sovranazionali ed alla migliore dottrina che da tempo invocavano una maggiore uniformità ed equità applicativa nei vari casi sottoposti al vaglio giurisprudenziale.

La riforma sopra indicata ha imposto un chiaro allargamento di tutela verso chi è ridotto in schiavitù e, parimenti, verso chi è mantenuto in tale stato, con violenza e minaccia. Inoltre, si è giunti alla decisione, oggetto di precedenti dibattiti dottrinari, di ritenere punibili sia l'esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli dei diritti di proprietà sia la riduzione o il mantenimento di una persona in di soggezione continuativa, costringendola in tal modo a prestazioni lavorative o sessuali o all'accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne determinano lo sfruttamento.

Rileva, insomma, con la riforma del 2003, la natura permanente del reato di schiavitù: caratteristica che è a fondamento del ragionamento sviluppato dalla Corte di cassazione nella sentenza che si commenta.

Infatti proprio stante l'accertamento, con sentenza passata in giudicato della Corte di assise di Roma, della permanenza dell'assoggettamento della donna alle violenze, minacce e coercizioni fisiche e psicologiche si è potuto scardinate la resistenza, anche culturale, espressa dalla Corte di appello di Roma che non riteneva sussistente lo stato di necessità ed, anzi, recriminava all'imputata il suo libero arbitrio nel potersi liberare e chiedere aiuto alle forze dell'ordine.

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