Associazione per delinquere di “lieve entità” di stupefacenti e confisca estesa

21 Dicembre 2016

Con la sentenza in commento (Cass. pen. 11 giugno 2016, n. 27770), la suprema Corte afferma che la condanna per associazione per delinquere finalizzata alla commissione di fatti illeciti di lieve entità in materia di stupefacenti osta alla applicabilità della confisca di beni disposta ai sensi della l. n. 356 del 1992, art. 12-sexies, comma 1, ferma restando la possibilità per il giudice di disporre la confisca di quegli stessi beni laddove ritenuti profitto o provento o prodotto del reato.
La vicenda processuale

Nel caso di specie, la Corte di appello di Catania, in parziale riforma della sentenza emessa dal Gup in sede, ha condannato gli imputati, tra l'altro, per il delitto di associazione finalizzata alla commissione di fatti di c.d. piccolo spaccio di stupefacenti, mantenendo la confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306/1992 (convertito con modificazioni dalla l. 356/1992), dei beni in sequestro.

Contro la sentenza gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo che la Corte territoriale avrebbe dovuto revocare i provvedimenti di confisca, anche per il fatto che la qualificazione in termini di associazione finalizzata al compimento di episodi di c.d. piccolo spaccio di stupefacenti esclude la possibilità della confisca, integrando detto reato associativo, non già una figura circostanziata dell'associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui ai commi precedenti dello stesso art. 74 d.P.R. 309/1990 ma un reato autonomo collocabile nel paradigma dell'art. 416 c.p.

La natura della fattispecie di cui all'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/90

Una corretta analisi della sentenza impone preliminarmente la disamina della fattispecie di cui all'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990, che prende in considerazione l'associazione costituita per commettere fatti di lieve entità.

La previsione risponde in parte – o meglio indirettamente – alle critiche che molti studiosi ed operatori giudiziari avevano rivolto ad un peculiare aspetto della disciplina risalente al 1975 (MILONE).

La pratica quotidiana è infatti consapevole del fatto che la dimensione delle organizzazioni operanti nei traffici illeciti di sostanze stupefacenti può essere grandemente variabile, tanto più che sotto il profilo del requisito di organizzazione può essere sufficiente una predisposizione di mezzi assai semplice e rudimentale. Tutto questo tenuto conto della necessità di valorizzare il principio di proporzione della pena rispetto al fatto, accompagnata dalla consapevolezza che la dimensione associativa e il carattere organizzato dell'attività di spaccio non sono incompatibili con un programma delittuoso costituito da fatti di lieve entità. L'irragionevolezza di prevedere un unico trattamento punitivo, caratterizzato soprattutto da minimi edittali assai elevati, per realtà tanto diverse, quali le bande di narcotrafficanti internazionali o le piccole squadre di pusher dedite allo spaccio al dettaglio di dosi di strada, ha indotto il Legislatore a prevedere una figura associativa “minore” che ricalca assai da vicino l'attenuante tipizzata dall'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 rispetto alla quale è individuabile un'identica finalità (FIDELBO).

Il vero e principale problema della figura in esame, comunque, è dato dalla sua imperfezione tecnica.

La norma persegue il proprio intento di riduzione della risposta sanzionatoria disponendo che, per le associazioni dedite a traffici di lieve entità, si applicano il primo e il secondo comma dell'art. 416 del codice penale: commi che riguardano, rispettivamente, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l'associazione, e coloro cui può ascriversi il solo fatto di partecipare all'associazione medesima.

L'espressione utilizzata dal Legislatore è tipica del rinvio quoad factum. Se di questo si trattasse, le fattispecie associative “lievi” non potrebbero considerarsi una sottospecie della figura delineata all'art. 74 T.U. stupefacenti; avrebbero il nomen iuris (e non solo il trattamento sanzionatorio) dell'associazione “ordinaria”; costituirebbero, in una parola, un reato diverso da quello denominato associazione per il narcotraffico nel linguaggio corrente.

Le conseguenze d'una siffatta impostazione sono rilevantissime.

Cambierebbe anzitutto il regime di esecuzione delle pene inflitte per il reato di lieve entità sottratto come tale alle severe restrizioni che segnano, in generale, la fattispecie sanzionata all'art. 74, d.P.R. 309/1990.

Si consideri anche la questione del c.d. patteggiamento allargato, cioè dell'applicazione negoziata di pene fino alla soglia dei cinque anni per la specie detentiva (primo comma dell'art. 444 c.p.p.). L'accesso al rito è infatti precluso, oltre che in casi ulteriori, con riguardo ai reati indicati al comma 3-bis dell'art. 51 c.p.p., il quale compie un generico riferimento, tra gli altri, al delitto punito dall'art. 74 d.P.R. 309/1990.

Sembra ovvio che la qualificazione autonoma del fenomeno associativo, per i fatti di lieve entità, può aprire la strada ad una soluzione processuale che, altrimenti, risulterebbe sbarrata.

Sul piano sostanziale, l'applicazione della fattispecie non potrebbe essere neutralizzata per il concorso con circostanze di segno opposto. Dovrebbe discutersi, ancora, circa il regime delle circostanze speciali previste in altri commi dell'art. 74, d.P.R. 309/1990, alcune (quelle ad effetto comune) potrebbero considerarsi applicabili anche in rapporto ad una figura associativa autonoma, pur essendo evidenti i problemi di compatibilità logica tra l'assunto della lieve entità ed i fattori aggravanti di cui si discute (numero elevato dei partecipi, arruolamento di tossicomani, alterazione delle sostanze, ecc.); sarebbe invece pressoché inconcepibile, e non solo dal punto di vista logico, l'applicazione dell'aggravante riferita alle associazioni armate.

A tale ultimo proposito, sarebbe dubbia anche l'applicabilità del quarto comma dell'art. 416 c.p. (scorreria in armi), visto che l'art. 74 d.P.R. 309/1990 richiama solo i primi due commi della disposizione codicistica.

A prescindere poi dal regime delle circostanze, l'esistenza di una fattispecie “autonoma” introdurrebbe nel sistema seri elementi di irrazionalità.

Qualche esempio. La norma in esame non richiama neppure il terzo comma dell'art. 416 c.p., che regola distintamente il trattamento dei capi dell'associazione, sia pure al fine di equipararlo a quello dei promotori ed organizzatori. Occorre allora stabilire cosa accada dei dirigenti – figura regolata dal primo comma dell'art. 74 d.P.R. 309/1990 – quando si tratti di figure riferibili ad una associazione di lieve entità. Certo non è immaginabile che rispondano, essi soli, delle rilevantissime pene previste dalla figura specializzata; tuttavia, non è agevole neppure la soluzione di applicare loro il primo comma di una norma che, in altra disposizione, li separa nettamente dai destinatari “naturali” della relativa previsione sanzionatoria. Il problema è ancora più serio per i finanziatori della associazione dedita a traffici di lieve entità, visto che la loro figura è del tutto sconosciuta alla lettera e, per certi versi, alla stessa portata sostanziale dell'art. 416 c.p., avuto riguardo, almeno, alla previsione del primo comma.

Si consideri ancora il caso dell'associazione tra piccoli trafficanti che abbia programmato, come quasi sempre accade, anche reati non riconducili al T.U. delle sostanze stupefacenti.

Sul piano generale, come si è visto, il carattere “misto” del programma associativo determina la contemporanea applicazione dell'art. 416 c.p. e dell'art. 74, d.P.R. 309/1990.

La soluzione, però, sarebbe improponibile per ragioni evidenti, qualora l'organizzazione considerata fosse già qualificata come ordinaria associazione per delinquere. E ciò renderebbe irrilevante, fuori dal piano della commisurazione in concreto delle pene, la presenza nel programma associativo di delitti concernenti gli stupefacenti.

Si comprende bene, a questo punto, perché tra gli studiosi sembri prevalere, ad onta del tenore letterale della norma, l'assunto per cui il rinvio alle disposizioni dell'art. 416 c.p. debba considerarsi effettuato quoad poenam (GRILLO; PALAZZO).

È significativo peraltro, a dimostrazione d'un groviglio pressoché inestricabile, come non sempre la tesi venga articolata fino al punto di ammettere, per la figura in esame, una schietta natura circostanziale, con tutte le conseguenze del caso (a cominciare dalla possibilità che la circostanza resti soccombente, in un giudizio comparativo ex art. 69 c.p., rispetto ad aggravanti speciali e finanche riguardo ad aggravanti comuni (RONCO; INSOLERA).

Sotto altro punto di vista, si osserva che il fatto che la disposizione rinvii all'art. 416 c.p., anziché prevedere una riduzione di pena rispetto a quella contemplata per le ipotesi associative di cui ai commi precedenti, unito alla considerazione che la stessa individui un'offesa quantitativamente e qualitativamente differente rispetto a quella colta dalla disposizione di cui al primo comma, prevalentemente valutata sul piano del minore grado di allarme sociale sollevato e della minore pericolosità degli autori dei fatti, ha indotto i giudici di legittimità a ritenere che tale fattispecie costituisca ipotesi autonoma di reato; ciò, a fortiori, può dirsi adesso che con l'art. 2, d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, conv. dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, anche l'art. 73, comma 5, T.U. stup. costituisca fattispecie autonoma e non mera circostanza attenuante, per cui risulta del tutto chiara la volontà del Legislatore di tracciare una netta distinzione tra il piccolo spaccio e il grande traffico, anche a prescindere dal tipo di sostanza oggetto dell'attività; il rinvio all'art. 416 c.p. andrebbe così interpretato non solo quoad poenam ma anche quoad factum, in modo da estendere all'ipotesi di associazione finalizzata alla commissione di fatti di spaccio di lieve entità non soltanto il quantum di pena applicabile, bensì il complessivo regime giuridico dell'associazione per delinquere semplice (MILONE).

Quanto alla giurisprudenza, le soluzioni sembrano molto orientate dal contesto processuale nel quale, di volta in volta, la questione assume un diretto rilievo.

Non risultano ad esempio intervenute pronunce di segno contrario all'ammissibilità del patteggiamento allargato, il che manifesta più che altro una certa tendenza a favorire soluzioni processuali ergonomiche (Cass. pen., 18 marzo 2009, n. 11938).

Si è determinato, invece, un vero e proprio contrasto per quanto attiene all'applicabilità delle norme di esecuzione che introducono un trattamento differenziato per le associazioni finalizzate al narcotraffico (Cass. pen., 6 aprile 2000, n. 1483, in Arch. nuova proc. pen., 2000, 275. In senso contrario, Cass.pen., 11 marzo 2002, n. 10050, in Arch. nuova proc. pen., 2002).

La soluzione che nega autonomia alla fattispecie lieve potrebbe sembrare la più ragionevole, e probabilmente la più aderente all'intento del Legislatore.

Nell'art. 74, l'impianto sanzionatorio è fondato sulla creazione di due fondamentali fasce, che dividono i semplici partecipi da coloro i quali, a vario titolo, assumono un ruolo di preminenza.

Questa struttura essenziale è riprodotta dai primi due commi dell'art. 416 c.p., anche quanto ai capi, per ciò che riguarda i valori di pena. Semplicemente, allora, saranno suscettibili dell'applicazione delle sanzioni previste dal primo comma dell'art. 416 c.p. i soggetti la cui posizione, nell'ambito di una associazione dedita a traffici di lieve entità , sia riconducibile alle figure tipizzate nel primo comma dell'art. 74 d.P.R. 309/1990.

Per i semplici partecipi, correlativamente, saranno applicabili le pene fissate al secondo comma della norma codicistica.

A riprova della considerazione “unitaria” che il Legislatore esprime riguardo alle previsioni contenute nell'art. 74 d.P.R. 309/1990 può citarsi il fatto che, quando ha inteso stabilire un trattamento differenziato per la fattispecie associativa lieve, l'ha fatto espressamente. Questo almeno è avvenuto con il più recente provvedimento di indulto (l. 31 luglio 2006, n. 241), ove l'applicazione del beneficio è stata esclusa, con indicazione analitica, solo per i fatti previsti ai commi primo, quarto e quinto della norma in esame (LEO).

Residuano difficoltà tecniche (per altro non esclusive della nostra materia) per quanto concerne il concorso tra la circostanza in questione e figure aggravanti con autonoma determinazione della pena, prima fra tutte quella prevista al quarto comma dello stesso art. 74 d.P.R. 309/1990, fondata sulla disponibilità di armi.

Un problema, quest'ultimo, di rilevanza pratica scarsa o nulla, essendo ben difficile che possa qualificarsi nel senso della lieve entità un gruppo criminale programmaticamente orientato a servirsi di armi od esplosivi per i propri traffici.

La questione è stata così definita dalle Sezioni unite n. 34475/2011, chiamate a pronunciarsi sulla specifica questione dell'applicabilità della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p.; se cioè il rinvio, effettuato per il tramite dell'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. ai delitti previstidall'art. 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente dellaRepubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fosse comprensivo anche dell'ipotesi di associazione finalizzata al compimento di fatti di lieve entità.

Ebbene la suprema Corte ha superato l'orientamento favorevole all'estensione del rinvio anche all'ipotesi associativa attenuata, prevalentemente fondato sull'impossibilità di estendere il regime giuridico dell'art. 416 c.p. all'art. 74, comma 6, T.U. stup. per via dell'eterogeneità dell'oggetto giuridico rispettivamente tutelato e ha escluso con riferimento all'associazione finalizzata alla commissione di fatti di lieve entità l'operatività della presunzione di adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere, in ragione, da un lato, del minor disvalore della condotta criminosa, tale da consentirne l'assimilazione alla fattispecie associativa “generale”, dall'altro, della necessità di adottare, nello specifico caso relativo all'applicabilità di presunzioni che comportino una limitazione della libertà personale, un criterio interpretativo restrittivo, quello del minor sacrificio necessario.

Due, essenzialmente, le condivisibili linee portanti della conclusione: da un lato la natura di fattispecie autonoma di reato, e non già di circostanza attenuante del reato di cui al comma primo, della ipotesi di “associazione lieve” e, dall'altro, l'esigenza, imposta anche dai principi costituzionali di cui agli artt. 3,13 e 27 Cost., di interpretare restrittivamente il campo applicativo della duplice presunzione (di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza esclusiva delle misura della custodia cautelare in carcere) dettata dall'art. 275, comma 3, c.p.p.
Sotto il primo profilo la Corte evidenzia gli indici sintomatici di detta autonomia:

a) il rinvio testuale, quoad factum e non quoad poenam, del comma sesto dell'art. 74 d.P.R. 309/1990 ai commi primo e secondo dell'art. 416 c.p. – nei termini usati dal Legislatore – come plasticamente indicativo della volontà di riservare all'ipotesi criminosa in questione, in ragione del minor allarme sociale suscitato dai fatti e della minore pericolosità degli autori degli stessi, un regime diverso da quello previsto per l'ipotesi criminosa contemplata dal comma primo dello stesso art. 74 d.P.R. 309/1990;

b) la diversamente inevitabile considerazione, ove si optasse per una scelta opposta, di un'irrazionale scelta del Legislatore che, dopo aver assimilato la fattispecie del comma sesto all'associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p., riserverebbe ad essa, nonostante il ritenuto minor disvalore della condotta criminosa contemplata (sia rispetto alle ipotesi di cui ai commi precedenti del detto articolo sia rispetto a molte delle condotte riconducibili nell'ambito dell'art. 416 c.p.) un trattamento processuale differenziato e maggiormente afflittivo di quello previsto per l'associazione per delinquere comune.

Sotto il secondo profilo, la Corte richiama i tratti eccezionali di un istituto processuale – già ridimensionato, come noto, dalla Corte costituzionale (nn. 265 del 2010 e 164 e 231 del 2011) quanto, in particolare, alla presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere, ricondotta, con riferimento ad alcune ipotesi delittuose, tra cui anche l'art. 74 del d.P.R. 309 del 1990, nei termini di mera presunzione iuris tantum – la cui interpretazione deve, proprio in ragione della natura derogatoria rispetto al regime ordinario ispirato al criterio del minore sacrificio necessario, essere operata in termini restrittivi anche con riferimento al catalogo dei reati da essa considerati.

Quanto al profilo relativo ai rapporti tra la fattispecie associativa di cui all'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990 e la fattispecie monosoggettiva – ormai anch'essa autonoma – di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup., il cui approfondimento è necessario ai fini del corretto inquadramento dell'ipotesi associativa di volta in volta considerata entro la disposizione più favorevole, il giudice di legittimità ha avallato un indirizzo piuttosto rigoroso che richiede la valutazione e il relativo riscontro della “lieve entità” relativamente al complesso dei fatti che caratterizzano la vita dell'associazione. Per ritenere applicabile la fattispecie associativa di minore gravità la suprema Corte, infatti, ha ravvisato la necessità di valutare l'attività svolta dall'associazione nella sua interezza, fin dal momento genetico della sua costituzione; d'altra parte, la preordinazione del sodalizio al compimento di fatti di lieve entità – come anche la loro effettiva realizzazione – non è ritenuta condizione sufficiente all'applicazione dell'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990 non potendo considerarsi l'entità delle operazioni di scambio della sostanza stupefacente fattore univocamente espressivo di un'attività di spaccio organizzata dalle dimensioni trascurabili.

Non solo, quindi, si esige che tutte le singole condotte commesse in attuazione del programma criminoso siano sussumibili nella fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, T.U. stup. ma si richiede anche che esse, valutate nel loro insieme – in relazione ad esempio alla molteplicità degli episodi di spaccio, alla loro estensione in un dato arco temporale e al tipo di organizzazione predisposta –esprimano una minima offensività; manifestino cioè una realtà criminologica del tutto differente rispetto a quella paradigmatica dell'organizzazione criminale dedita al grande traffico di stupefacenti (Cass. pen., Sez. IV, 2 luglio 2013, n. 38133).

Ora, se l'indirizzo della suprema Corte appare alquanto restrittivo quanto alla configurabilità dell'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990 alla luce probabilmente delle notevoli conseguenze in termini di regime giuridico che la sussunzione del fatto associativo sotto questa fattispecie comporta, non deve stupire la maggiore flessibilità adottata nel qualificare i singoli delitti-scopo di spaccio dell'associazione, quale che sia, come fatti di lieve entità ex art. 73, comma 5 d.P.R. 309/1990.

Può dirsi, infatti, che in presenza di un'attività organizzata di spaccio il criterio di valutazione dell'entità del fatto riferito alla quantità della sostanza stupefacente acquisti una certa “relatività” proprio in ragione della dimensione associativa; pertanto i delitti-scopo potranno essere ritenuti fatti di lieve entità anche ove non abbiano ad oggetto quantità minime – in quanto se fossero tali non consentirebbero lo svolgimento di un'attività organizzata – purché siano valorizzati altri parametri idonei a connotare i fatti come piccolo spaccio, come l'organizzazione di vendita al dettaglio e il raggiungimento con essa di una soglia di redditività contenuta (Cass., Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 41090).

L'esito positivo della valutazione di live entità dei singoli fatti, peraltro, non impone di escludere la sussunzione del sodalizio sotto la fattispecie associativa base, in quanto solo a seguito di una valutazione ulteriore sul complesso delle attività svolte e sulla loro offensività potrebbe ritenersi integrata l'ipotesi associativa meno grave (MILONE).

Le conseguenze in tema di confisca

Ritenuto che il rinvio di cui all'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990 sia quod factum e considerata la natura autonoma della fattispecie de quo, la suprema Corte ha, per la parte dedotta, accolto l'impugnazione.

Si afferma al riguardo che l'impossibilità intrinseca di disporre la confisca c.d. estesa in relazione alla natura del reato per il quale è intervenuta condanna deriva dalla tassatività dell'elencazione dei reati, in riferimento ai quali la condanna legittima l'adozione del provvedimento di confisca c.d. estesa, ovviamente quando sussistano le condizioni della sproporzione e della mancanza di giustificazione circa la provenienza dei beni.

Nel caso in cui la condanna abbia ad oggetto un reato escluso dall'elenco, la confisca c.d. estesa non può aver luogo, ferma restando la possibilità di una confisca ex art. 240 c.p., sempre che ne ricorrano le condizioni.

Per il collegio nessun dubbio può residuare sull'impossibilità di procedere alla confisca c.d. estesa nei casi di condanna per il reato di c.d. piccolo spaccio di sostanze stupefacenti, tanto più dopo le modifiche legislative che, come già detto, hanno trasformato in un'autonoma fattispecie di reato quella che un tempo ea considerata circostanza attenuante ad effetto speciale.

In particolare, per quel che attiene alla figura di reato di cui all'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990 e, quindi, per l'associazione costituita al fine di commettere i fatti di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R.309/1990, la sentenza in commento anzitutto conferma la suindicata posizione delle Sezioni unite, che correttamente escludono che essa corrisponda ad una circostanza attenuante ad effetto speciale, rispetto alla figura associativa regolata dai primi commi dello stesso art. 74 d.P.R. 309/1990.

Data anche la necessità di fare riferimento alle ipotesi di cui all'art. 416, commi 1 e 2, c.p. richiamati dalla disposizione contenuta nell'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990, per la suprema Corte in simili casi deve escludersi la giuridica possibilità di disporre la confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306/1992.

Con tale ultima disposizione, il Legislatore italiano ha introdotto un'ipotesi particolare di confisca, avente lo scopo di sottrarre il denaro, i beni o le altre utilità di cui il condannato, per uno dei reati elencati, non giustifica la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte, o alla propria attività economica.

Questa forma di confisca si applica anche nei casi di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. La l. 24 dicembre 2012, n. 228 ha stabilito (art. 1, comma 190) che le disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 ; si applicano anche ai casi di sequestro e confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306/1992 (anche, quindi, in relazione ai rapporti con il fallimento).

Tale sanzione si pone in un rapporto di continuità con la confisca misura di prevenzione prevista dall'art. 2-ter l. 575 del 1965, oggi art. 24 d.lgs. 159 del 2011.

Si tratta di un ulteriore strumento di ablazione estesa destinata a superare il problema fondamentale che impedisce l'applicazione della confisca tradizionale e cioè l'accertamento del nesso causale tra i profitti e il reato; uno strumento che dovrebbe consentire, in conformità del resto alle sollecitazioni delle fonti sovrannazionali e da ultimo alle indicazioni dell'art. 5 della direttiva n. 2014/42/Ue, di sottrarre gli assetti patrimoniali accumulati nel tempo dal crimine organizzato o dalla criminalità economica.

L'ambito di applicazione di questa forma di confisca allargata si è sempre più esteso, anche nei confronti dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione con l'art. 1, comma 220, lett. a) l. 27 dicembre 2006, n. 296.

Dalla lettura dell'art. 12-sexies, d.l. 306/1992 emerge come la sua applicazione richieda la verifica di taluni presupposti: la titolarità o la disponibilità dei beni; la sproporzione tra il loro valore e il reddito o l'attività economica; la mancata giustificazione della loro origine; la condanna per determinati delitti.

Ed invero, la suprema Corte ha ripetutamente ribadito che l'accertata responsabilità per taluno dei reati presupposti costituisce elemento di per sé rivelatore di dedizione all'illecito, con la conseguenza che il patrimonio in possesso del reus sarà ritenuto frutto di pregresse attività illecite dello stesso tipo, in forza di una presunzione iuris tantum, ancorata al criterio della sproporzione tra redditi leciti e patrimonio effettivamente — ed ingiustificatamente — detenuto.

Anche la Corte costituzionale ha affermato che la confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306/1992 ha struttura e presupposti diversi dall'istituto generale previsto dall'art. 240 c.p., avendo il Legislatore non irragionevolmente ritenuto di presumere l'esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati e i beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza (Corte cost., 29 gennaio 1996, n. 18).

Si tratta, però, di mere presunzioni, non richiedendo la norma né la prova dello svolgimento di un'attività criminale di carattere continuativo — che al limite potrebbe essere implicita solo in una condanna per associazione mafiosa e solo per il periodo di accertata partecipazione all'associazione — né la prova di una correlazione tra l'acquisto del patrimonio ingiustificato e un'attendibile continuità nel reato, in quanto la confisca di tutto il patrimonio ingiustificato consegue automaticamente alla condanna per un singolo specifico delitto.

Sotto tale aspetto, va sottolineato che la scelta dei reati matrice per cui deve intervenire condanna è da intendersi, in ossequio al principio di stretta legalità che governa la materia penale ed alla natura punitiva (in senso lato) della confisca estesa, tassativa ed insuscettibile di estensione analogica (Cass. pen., Sez. II, 23 settembre 2010, n. 36001; contra, Cass.pen.,Sez. I, 28 maggio 2013, n. 27189, inedita).

Ciò posto, risulta evidente che l'ipotesi delittuosa cui all'art. 416, commi 1 e 2, c.p., cui si riferisce, per espresso richiamo, la disposizione contenuta nell'art. 74, comma 6,d.P.R. 309 del 1990, per il quale è intervenuta condanna, non rientra nel novero dei reati matrice della confisca estesa, derivandone la coerente conclusione della giuridica impossibilità di disporre in simili casi la confisca dei beni ex art. 12-sexies, d.l. 306/1992, per l'assenza dell'antecedente giuridico costituito dalle norme tassativamente enunciate in tale articolo, tra le quali figurano, sì, alcune ipotesi peculiari di associazione per delinquere quali, l'art. 416, comma 6, c.p., (associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone) ovvero lo stesso art. 416 c.p., finalizzato alla commissione di determinati reati previsti dal codice penale ovvero da leggi speciali ma non alla commissione di reati in tema di stupefacenti, per i quali soccorre l'apposita figura dell'associazione delinquenziale disciplinata dall'art. 74, comma 1, del più volte citato d.P.R.309/1990.

Sicché, appare del tutto condivisibile l'iter argomentativo della sentenza in commento, che, sul presupposto del rinvio quod factum dell'art. 74, comma 6, d.P.R. 309/1990 ai primi due commi dell'art. 416 c.p. e della mancata tassativa inclusione di tali ultime disposizioni nel novero dei reati matrice che fondano la confisca estesa, esclude l'applicabilità della confisca antimafia alla fattispecie autonoma dell'associazione con finalità di spaccio di lieve entità.

Residua, in ogni caso, la possibilità di disporre, in ossequio alle regole generali del codice penale, la confisca ordinaria ex art. 240 c.p. purché ne sussistano i presupposti legali ed in presenza di una adeguata motivazione.

In conclusione

Se ne ricava un sistema assolutamente omogeneo bipolare che, da un lato, mostra una giustificata linea di rigore verso qualsiasi forma associativa finalizzata alla commissione di fatti in tema di stupefacenti direttamente connessa alla gravità intrinseca della condotta anche per i reati-fine e dall'altro, tempera opportunamente tale rigore nella residua ipotesi di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di fatti di modesta rilevanza per i quali una assimilazione alla associazione per delinquere "ordinaria" non sarebbe ragionevole, oltre che nei confronti di fatti di spaccio di speciale tenuità.

Guida all'approfondimento

FIDELBO, I reati in materia di stupefacenti, in Trattato teorico pratico di diritto penale, in Palazzo - Paliero (diretto da) Reati in materia di immigrazione e di stupefacenti, Torino 2012, 452 ss.;

GRILLO, sub art. 74 d.p.r. 9-10-1990, n. 309, in Palazzo – Paliero, Commentario breve alle leggi speciali complementari, Padova, 2007, 2824 ss.;

INSOLERA, L'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, in Bricola e Insolera (a cura di), La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, Bologna,1991, 123 ss. afferma che ripugna in base a considerazioni di tipo sistematico e sotto il profilo del diverso ed autonomo oggetto della tutela la prospettazione di un rapporto circostanziale, ma sembra riferirsi alla relazione tra l'art. 416 c.p. e l'art. 74 d.P.R. n. 309/1990.

LEO, L'associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti (Art. 74 D.P.R. n. 309/90), in Cadoppo, Canestrari, Manna, Papa (diretto da), Trattato di Diritto Penale, Parte Speciale, IV, I delitti contro l'incolumità pubblica e in materia di stupefacenti, Torino, 2010, 702 ss.

MILONE, L'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope: un'indagine sugli aspetti più controversi della fattispecie nel diritto vivente, tra paradigmi teorici e prassi giurisprudenziale, in Morgante, Stupefacenti e diritto penale: un rapporto di non lieve entità, Torino, 2015, 225 ss.;

PALAZZO, Consumo e traffico degli stupefacenti. Profili penali, Padova, 1993, 183 ss.;

RONCO, Stupefacenti (diritto penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XXX, Roma, 1993, il quale, pur affermando che le disposizioni dell'art. 416 c.p. si applicano quoad poenam, assume espressamente che [anche] la fattispecie in questione sarebbe figura autonoma, non collocabile con le altre [il riferimento è segnatamente a quelle dei primi due commi dell'art. 74] nel rapporto che esiste tra figura-base e figura circostanziale.

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