L’"oggetto del desiderio" conteso tra direzione penitenziaria e detenuto

22 Febbraio 2016

Non aver restituito al detenuto due riviste per adulti di cui aveva il possesso all'ingresso in istituto costituisce un pregiudizio attuale e grave all'esercizio di un diritto. Alcun diritto, invece, sussiste ad acquistare pubblicazioni dello stesso genere senza l'autorizzazione della direzione penitenziaria. Il magistrato di sorveglianza di Udine mette in risalto le ingiustificate restrizioni del regime speciale di detenzione.
Abstract

Il magistrato di sorveglianza di Udine mette in risalto le ingiustificate restrizioni del regime speciale di detenzione: costituisce un pregiudizio attuale e grave all'esercizio di un diritto non aver restituito al detenuto due riviste per adulti di cui aveva il possesso all'ingresso in istituto. Alcun diritto, invece, sussiste ad acquistare pubblicazioni dello stesso genere senza l'autorizzazione della direzione penitenziaria.

L'ordinanza del tribunale di Udine

L'ordinanza emessa dal magistrato di sorveglianza di Udine, ad una prima lettura, potrebbe sembrare contraddittoria. Da un lato, infatti, accogliendo il reclamo, dispone che, entro tre giorni, la direzione penitenziaria debba restituire al detenuto due riviste per adulti regolarmente comprate in altro istituto dove precedentemente era stato recluso, dall'altro non accoglie il reclamo nella parte in cui il soggetto chiede di acquistare in autonomia e liberamente le riviste per adulti direttamente presso le case editrici, in quanto una tale richiesta è rimessa all'autorizzazione della direzione penitenziaria, competente a stabilire le modalità di ricezione della stampa e delle pubblicazioni dall'esterno.

L'esecuzione del provvedimento consentirà a colui che ha proposto reclamo di essere verosimilmente l'unico detenuto a possedere riviste per adulti all'interno dell' istituto, in quanto erano già in suo possesso al momento dell'ingresso. Gli altri non potranno averne e lui stesso non potrà riceverne ancora.

Eppure non vi è alcuna contraddizione nell'ordinanza, che fa correttamente riferimento alle norme in vigore. L'incoerenza è nel sistema, nelle prassi e nell'applicazione dei principi che regolano la vita delle persone detenute. Diversità e disparità che investono i diritti non solo per la tipologia del regime penitenziario a cui si è assegnati ma anche, come nel caso di specie, rispetto all'istituto in cui si sta scontando la pena.

L'argomento oggetto dell'ordinanza in esame è fra quelli – e non sono pochi – dove può essere decisivo l'orientamento culturale del giudicante. A volte, però, chi è “in gabbia” è proprio il magistrato. Egli deve, nei suoi provvedimenti, innanzitutto far rispettare la legge, operando con quel margine di discrezionalità che la stessa gli concede. Più è ristretto lo spazio della discrezionalità, meno il pensiero del magistrato può incidere nella decisione. Più è ampio, maggiormente le valutazioni potranno trovare accoglimento. L'eterno dualismo tra coloro che vorrebbero più potere discrezionale e quelli che vorrebbero invece ridurlo, diventa bellicoso sul terreno dell'ordinamento penitenziario che si presenta, con il passar del tempo, sempre più scivoloso. Insieme di norme, la maggior parte “belle” sulla carta, evanescenti nell'applicazione e costantemente tradite.

Le ragioni della contesa

Il caso in esame è davvero singolare. L'oggetto del desiderio del detenuto è costituito da due riviste per adulti, che facevano parte del suo bagaglio al momento dell'ingresso nell'istituto penitenziario di Tolmezzo . Egli le aveva acquistate durante la detenzione a Cuneo, dove era possibile far pervenire dall'esterno tale genere di pubblicazioni. Il materiale conteso, dunque, vedeva, da un lato la direzione penitenziaria che aveva privato il detenuto delle sue riviste e non intendeva restituirgliele, dall'altro il legittimo proprietario del bene che lo reclamava non comprendendo le ragioni del diniego alla sua richiesta.

L'articolo 18 dell'ordinamento penitenziario, al comma 6, prevede che i detenuti sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all'esterno. Il tenore della norma è preciso: se vi è libera vendita fuori dal carcere, le riviste possono essere richieste ed ottenute dai detenuti, anche quelle per adulti, c.d. pornografiche.

Letto e riletto l'articolo, altra interpretazione non vi può essere. Il detenuto che vede rigettata la sua richiesta di ottenere una rivista per adulti, non riuscirebbe a trovare alcuna giustificazione al rifiuto. Almeno una giustificazione in diritto.

Ma l'art. 41-bis della medesima legge, al comma 2-quater, per i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione, stabilisce: La sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 prevede […] la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall'esterno.

Questa è la norma che ha applicato l'estensore dell'ordinanza nel non accogliere il reclamo , nella parte in cui veniva richiesta la possibilità di reperire riviste dall'esterno.

Il detenuto, nel passare da un istituto ad un altro, ha visto ridotti i suoi diritti. Potremmo dire ulteriormente annientate le sue esigenze. Buon per lui che almeno, tra le sue cose, aveva custodito con cura quelle riviste che certamente gli avevano fatto compagnia nella solitudine della detenzione e che, grazie all'intervento del magistrato di sorveglianza, probabilmente, continueranno ad aiutarlo a sopportare l'insopportabile.

“Probabilmente”, perché le ragioni sostenute dalla direzione penitenziaria, prima per giustificare il rigetto della richiesta – Non si autorizza la consegna. Non si ritengono di valenza trattamentale – poi nelle note difensive in sede di reclamo del detenuto, dove si è fatto riferimento all'attività rieducativa – è evidente che le riviste in questione non hanno alcuna valenza in tal senso ma costituiscono al contrario uno strumento per rimanere ancorati ad una limitata attività intellettiva, sicuramente non proficua e non utile alla migliore rieducazione delle persone che evidentemente, in passato, non hanno avuto alcuna possibilità di evoluzione in termini di civiltà – lasciano presagire che la questione è tutt'ora aperta.

La direzione, infatti, conscia di non poter far riferimento alla legge – le riviste ormai erano all'interno dell'istituto e non dovevano provenire dall'esterno – ha basato il suo rifiuto condannando e biasimando la lettura delle riviste pornografiche, in quanto il recupero del detenuto dovrebbe essere favorito dalla lettura di libri e riviste formative e istruttive, di arricchimento intellettivo, che consenta agli stessi di riscattarsi nel migliore dei modi da quella sottocultura che caratterizza fortemente gli ambienti delinquenziali e della criminalità organizzata. Inoltre non vi è alcuna utilità didattica o rieducativa – secondo la direzione penitenziaria – e si alimenta la cultura della sopraffazione che può essere solamente nutrita ed accresciuta dalla lettura di certe riviste, dove solamente la figura femminile (ma non solo) è relegata a funzione di mero oggetto di meccaniche fantasie erotiche e affatto rispettata nella propria dignità di persona portatrice di valori morali oltre che intellettuali.

La posizione assunta dalla Direzione Penitenziaria ignora del tutto non solo il comma 6 dell'art. 18 dell'ordinamento penitenziario ma anche che il divieto di lettura pornografica è stato abolito da tempo e che va esclusa l'illiceità qualora l'accesso alle immagini non sia indiscriminatamente aperto al pubblico ma sia riservato soltanto alle persone adulte che ne facciano richiesta. Le argomentazioni usate sono di uno smisurato moralismo, applicato nel deserto del regime penitenziario previsto dall'art. 41-bis dell'ordinamento, dove il “trattamento” è “sospeso” per legge.

Ci chiediamo quale attività metta in atto la direzione penitenziaria per l'arricchimento intellettivo, che consenta di riscattarsi dalla sottocultura della criminalità organizzata , in un istituto, tra l'altro, dove a fronte di una capienza regolamentare di 149 unità, al 31 gennaio 2016 erano presenti 210 persone detenute (dati Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e il personale è insufficiente. Sono previsti solo 6 educatori ma ve ne sono 5 effettivi. Gli amministrativi dovrebbero essere 15 ma ve ne sono 5. La polizia penitenziaria dovrebbe avere 227 unità, ma sono 195 gli effettivi (dati , al 4 maggio 2015, del Ministero della Giustizia).

Il regime speciale previsto dall'art. 41-bis ord. pen. e la possibilità di avere riviste dall'esterno

Quale recupero culturale vuole lo Stato se il regime speciale di detenzione limita o addirittura esclude la possibilità di frequentare la biblioteca, di accedere alla palestra, di avere contatti continui con gli educatori e lo psicologo, d'incontrare genitori, mogli, mariti e figli?

L'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario non è altro che uno strumento di politica criminale che ha il duplice scopo di neutralizzare la pericolosità sociale di taluni detenuti, incidendo direttamente sulla loro vulnerabilità fisica e psichica, e d'indurre gli stessi ad una collaborazione investigativa, che possa consentire eventuali progressi nella lotta alla criminalità organizzata.

Le parole usate dalla direzione dell'istituto per sostenere il rifiuto alla restituzione delle due riviste sono, pertanto, inconciliabili con le modalità con cui l'amministrazione penitenziaria gestisce il regime speciale di detenzione.

Regime che dovrebbe riguardare situazioni di emergenza, come recita il titolo dell'articolo che, al comma 2, prevede una lunga serie di limitazioni all'attività trattamentale quando ricorrono gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza pubblica. Tale comma introdotto dal decreto legge 8 giugno 1992, n.306, convertito in legge 7 agosto 1992, n.356, fu giustificato dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992. Nato come istituto provvisorio, con una scadenza temporale fissata alla data dell'8 agosto 1995, è stato prorogato fino al 31 dicembre 2002, per divenire, poi, con la legge 279/2002 definitivo.

Non è possibile ritenere che uno Stato sia per oltre 23 anni in emergenza e che vi siano sempre gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica. Ciò determina la sfiducia nelle istituzioni, incapaci di trovare effettivi rimedi che possano ripristinare la normalità.

Tra coloro che in questi anni hanno chiesto l'abolizione del regime del c.d. carcere duro, citiamo per tutti il Papa, che toccando i temi fondamentali del sistema penale, in modo coraggioso e schietto, senza alcuna possibilità di fraintendimento, con un monito straordinario per le coscienze, la politica e gli operatori del diritto, ha affermato che le condizioni di detenzione carceraria devono rispettare la dignità umana del detenuto e, infine, che le carceri di massima sicurezza per certe categorie di detenuti rappresentano a volte forme di tortura.

Le parole del Santo Padre – che ci piace ricordare anche nel trattare un argomento certamente non attinente alla religione – mettono l'uomo, la sua individualità e la sua dignità personale al centro, come valore fondante ed imprescindibile di ogni sistema sociale. Principi che, a maggior ragione, devono essere ricordati ed attuati nel sistema penale, che può dirsi degno di questo nome solo se opera in ragione ed all'interno di un corpus di regole che rispettino una legalità sostanziale e non solo formale. Principi a volte scomodi e spesso non compresi e impopolari ma il giustizialismo non porta ad alcuna sicurezza sociale – come hanno dimostrato questi 23 anni – e coltiva solo le paure dell'opinione pubblica.

Il fine dichiarato dell'art. 41-bis è impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, benché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione in relazione ad attività criminali eseguite all'esterno del carcere, ad opera di altri criminali in libertà. Tale scopo è quello indicato nel documento conclusivo approvato il 18 luglio 2002 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata.

Occorre, dunque, verificare se tutte le limitazioni introdotte dall'art. 41-bis rispondono a tale esigenza, o ve ne sono alcune che sono meramente afflittive. Su queste è necessario intervenire, perché rivelano una finalità incoffessata e incoffesabile, solo dissimulata da quella ufficiale.

L'ingresso in un carcere di riviste per adulti, o comunque di riviste in genere, di quotidiani, di libri, crea davvero un problema di sicurezza? O il divieto rappresenta solo una punizione supplementare che stravolge la qualità, la finalità e la natura della pena?

La risposta, in uno Stato di diritto, dovrebbe essere certa e dovrebbe darla la Legge e non essere affidata alla discrezionalità di una direzione penitenziaria, con le conseguenti odiose disparità di trattamento. Purtroppo, invece, la norma è generica e lascia ampio spazio d'interpretazione. Lo dimostra proprio la vicenda oggetto dell'ordinanza in esame. Il detenuto aveva acquistato le riviste per adulti a Cuneo, la stessa condotta gli viene vietata a Tolmezzo.

Il comma 2-quater, lettera c), dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario prevede, per i detenuti, sottoposti al regime speciale di detenzione, la limitazione degli oggetti che possono essere ricevuti dall'esterno. Limitazioni per esigenze di ordine, di spazio (per evitare accumuli di materiale) e per ragioni di sicurezza al fine di evitare che dall'esterno possano arrivare notizie e messaggi al detenuto, in relazione ad attività criminali.

Nel termine oggetti certamente vi sono le riviste e i libri. Basterebbe sottoporre anche questi beni al visto di censura, previsto dalla successiva lettera e) per la corrispondenza, al fine di scongiurare il pericolo che quanto ricevuto possa nascondere messaggi in codice.

L'Avvocatura, da sempre, ha chiesto l'abolizione delle limitazioni al trattamento individualizzato previsto per il regime speciale di detenzione. Oggi sono più di settecento i detenuti sottoposti a tale regime, quantità tale che dimostra l'abuso che si è fatto di tale misura. Le scorciatoie violente, perché di violenza contro la persona si tratta, non conducono ad alcun risultato, ma imbarbariscono le misure che uno stato di diritto dovrebbe prendere nei confronti della criminalità organizzata. La coercizione ingiustificata è arma che deve appartenere solo alla delinquenza, quando viene praticata dallo Stato la partita è già persa.

La norma si presenta poi del tutto generica in alcuni punti, consentendo un ampio potere discrezionale alle direzioni degli istituti, che decidono quanto e come debba incidere il termine limitazione rispetto agli oggetti che possono essere ricevuti dall'esterno.

In conclusione

L'ordinanza del magistrato di Udine ha il merito di evidenziare le contraddizioni del sistema accogliendo il reclamo solo parzialmente. Legittimo per il detenuto, sottoposto al regime speciale di detenzione, avere in cella riviste per adulti ma se le stesse provengono dall'esterno deve essere la direzione penitenziaria ad autorizzare le modalità di ricezione.

È stato, dunque, ritenuto – concordemente con la giurisprudenza dominante – che spetti esclusivamente all'amministrazione penitenziaria regolamentare le limitazioni previste dal comma 2-quater, lettera c) dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario.

Tale principio è la naturale conseguenza dell'anomalia del regime speciale di detenzione, la cui applicazione è disposta non da un magistrato ma dal decreto del Ministro della giustizia, anche su proposta del Ministro dell'interno.

Ma se l'amministrazione penitenziaria, competente a stabilire le modalità di ricezione delle pubblicazioni dall'esterno, non autorizza l'ingresso è esclusivamente per ragioni di sicurezza e non per un esplicito dettato normativo.

Si potrebbe dire, meglio, per ragioni d'insicurezza, in quanto non si è in grado di garantire che quanto entri nella disponibilità del detenuto non nasconda messaggi in codice.

Le carenze organizzative e la mancanza di risorse, come sempre, stravolgono il dettato normativo che prevede limitazioni e non divieti. Non vi è alcun impedimento all'ingresso di riviste nel carcere ma l'impossibilità del controllo ovvero la mancanza di volontà di predisporlo, consentono la violazione di un pacifico diritto del detenuto.

Non è la prima e non sarà, purtroppo, l'ultima se non ci sarà effettivamente la “rivoluzione culturale” a cui ha fatto riferimento il Ministro della giustizia nell'annunciare gli Stati generali dell'esecuzione penale.

Si pensi, ad esempio, all'art. 275-bis del codice di procedura penale, sul controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari. Andato in vigore con il decreto legge 341/2000, riformato con il decreto legge 146/2013, che ha stabilito che l'uso del braccialetto elettronico dovesse essere la regola e non l'eccezione, ancora oggi non trova concreta applicazione per mancanza dei dispositivi di controllo (solo 2.000 in tutta Italia) e molti detenuti – nonostante vi siano pronunce della Cassazione che consentirebbero la scarcerazione in assenza del braccialetto – restano in carcere per un'inadempienza dello Stato.

Ma questa è un'altra storia. Invero, sempre la stessa.

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