La nozione di “residenza” rilevante ai fini del rifiuto dell'esecuzione di un Mae

Andrea Bigiarini
22 Febbraio 2017

La nozione di residenza sul territorio italiano rilevante ai fini del rifiuto della consegna di un cittadino dell'Unione europea, da parte della Corte di appello richiesta di dare esecuzione ad un mandato di arresto europeo (Mae), presuppone un radicamento reale e non estemporaneo della persona nello Stato ...
Massima

La nozione di residenza sul territorio italiano rilevante ai fini del rifiuto della consegna di un cittadino dell'Unione europea, da parte della Corte di appello richiesta di dare esecuzione ad un mandato di arresto europeo (Mae), presuppone un radicamento reale e non estemporaneo della persona nello Stato, desumibile da una serie di elementi: la legalità della sua presenza in Italia; l'apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa; la distanza temporale tra quest'ultima, la commissione del reato e la condanna conseguita all'estero; la fissazione in Italia della sede principale (anche se non esclusiva) e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi; il pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali. Il requisito della distanza temporale della condanna dalla fissazione in Italia della sede principale e consolidata degli interessi lavorativi e familiari, in particolare, è da ricollegarsi all'esigenza che il radicamento in Italia possa considerarsi il risultato di una scelta incondizionata, svincolata dalle sorti del processo celebrato nel Paese di origine e dunque non implicante la volontà di agire secundum eventum litis.

Il caso

In esecuzione di un Mae emesso da un tribunale romeno, la Corte di appello di Torino ha disposto la consegna di una cittadina romena all'autorità giudiziaria del Paese richiedente. Il mandato di arresto aveva ad oggetto l'esecuzione di una sentenza di condanna a pena di anni sei e mesi quattro di reclusione, inflitta alla consegnanda per i reati di associazione per delinquere, falsificazione e utilizzo di documenti contraffatti e truffa.

Contro tale provvedimento la sig.ra M. ha proposto ricorso per Cassazione, adducendo violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 18, comma 1, lett. r), legge 69 del 2005 (legge che dà attuazione nell'ordinamento italiano alla decisione quadro 2002/584/Gai sul Mae).

La questione

La ricorrente ritiene che la Corte di appello abbia violato il disposto dell'art. 18, comma 1, lett. r) della legge 69 del 2005. Ai sensi della norma in parola costituisce motivo di rifiuto della consegna l'ipotesi in cui il Mae è stato emesso ai fini dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno.

La medesima disposizione è stata oggetto di una sentenza additiva della Corte costituzionale (n. 227 del 2010), alla cui stregua deve essere rifiutata altresì la consegna di un cittadino di un Paese membro dell'Unione europea che abbia la residenza o la stabile dimora nel territorio italiano, ai fini dell'esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno. Si pone, pertanto, il problema di capire a quali condizioni possano ritenersi integrate le condizioni della residenza o della stabile dimora in Italia del cittadino di un altro Paese membro.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione risponde al quesito facendo proprio il costante orientamento interpretativo dei giudici di legittimità: la nozione di residenza rilevante ai fini del rifiuto della consegna presuppone un radicamento reale e non estemporaneo della persona nello Stato, desumibile dalla legalità della sua presenza in Italia, dall'apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, dalla distanza temporale tra quest'ultima, la commissione del reato e la condanna conseguita all'estero, dalla fissazione in Italia della sede principale (anche se non esclusiva) e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, dal pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali. La nozione di dimora, rilevante ai medesimi fini, si identifica con un soggiorno nello Stato stabile e di una certa durata, idoneo a consentire l'acquisizione di legami con il Paese pari a quelli che si instaurano in caso di residenza.

L'orientamento appena esposto riproduce quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione, che ha elaborato una nozione autonoma dei concetti di residenza e dimora, ai fini di un'applicazione uniforme del diritto comunitario nei diversi Paesi membri. Nella sentenza Kozlowski (n. 66 del 2008), in particolare, la Corte ha segnalato la necessità di una valutazione complessiva ed in concreto degli elementi oggettivi che caratterizzano la situazione del ricercato.

Nel caso di specie assume particolare rilevanza uno dei “fatti sintomatici” sopra elencati: la distanza temporale della condanna dalla fissazione in Italia della sede principale e consolidata degli interessi lavorativi e familiari. Tale requisito è da ricollegarsi all'esigenza che il radicamento in Italia possa considerarsi il risultato di una scelta incondizionata, svincolata dalle sorti del processo celebrato nel Paese di origine e dunque non implicante la volontà di agire secundum eventum litis. Proprio l'assenza di tale condizione risulta dirimente ai fini della soluzione della controversia: sulla scelta del trasferimento in Italia della sig.ra M. risulta, infatti, aver avuto un'influenza determinante proprio il processo celebrato in Romania a carico della ricorrente, conclusosi con la sua condanna ad una pena non esigua, a seguito della quale costei ha rotto gli indugi, cercando di trovare in Italia un centro di interessi per spostare qui l'intero nucleo familiare.

Osservazioni

La sentenza in commento, collocandosi nel solco di un percorso ormai ben tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, non evidenzia novità di rilievo. L'art. 18 della legge 69 del 2005, la cui corretta applicazione è contestata dalla ricorrente nel caso di specie, dà attuazione all'art. 4 della decisione quadro 2002/584/Gai sul Mae. Tale norma prevede una serie di ipotesi in cui lo Stato membro richiesto può rifiutare di eseguire il Mae (per le ipotesi di rifiuto obbligatorio si veda l'art. 3 della decisione quadro). Tra di esse, per quanto rileva in questa sede, spicca il caso (previsto al n. 6 dell'art. 4) in cui la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, qualora tale Stato si impegni ad eseguire la pena (o la misura di sicurezza) conformemente al proprio diritto interno.

Come sopra evidenziato, l'art. 18, comma 1, lett. r) della legge 69 del 2005 contempla siffatta possibilità con esclusivo riguardo al cittadino italiano. Nell'impossibilità di offrire un'interpretazione conforme alla fonte comunitaria della disposizione in parola, la Corte costituzionale, come anticipato, ne ha rilevato l'illegittimità costituzionale per contrasto, mercé la mediazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., con l'art. 18 T.F.Ue che vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità.

Ciò premesso, la soluzione del caso in esame ci consente di esprimere qualche considerazione di carattere più generale sullo strumento del Mae Come noto, il Mae costituisce il primo banco di prova del principio del c.d. mutuo riconoscimento. Non potendo contare su discipline penali e processuali comuni, e nella conseguente impossibilità di adottare un modello processuale penale omogeneo, il legislatore comunitario, fin dal Consiglio europeo di Tampere del 1999, ha concentrato tutti i suoi sforzi nell'implementazione di una cooperazione giudiziaria, che non può prescindere da una fondamentale fiducia reciproca tra gli Stati membri. Su tale pactum fiduciae si fonda il modello del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie interne, di cui la decisione quadro sul Mae è la prima e forse più famosa espressione.

L'adozione della decisione quadro 2002/584/Gai risale ad un periodo storico nel quale gli interventi del legislatore europeo in materia di diritto e processo penale erano animati per lo più da esigenze di celerità ed efficienza nella collaborazione tra gli Stati membri. Le garanzie processuali della persona sottoposta ad indagini o imputata, viceversa, rimanevano sullo sfondo. La dottrina, a più riprese, ha posto in evidenza il prevalente carattere repressivo e di difesa sociale, con conseguente scarsa attenzione ai diritti dell'imputato/indagato, che ha sempre informato gli strumenti europei in materia di processo penale, in primis la decisione quadro sul Mae

Successivamente all'adozione del Trattato di Lisbona, ed alla conseguente abolizione della struttura a pilastri dell'Unione europea, il potenziamento dei diritti dell'indagato/imputato nel procedimento penale ha assunto il carattere di obiettivo autonomo, sganciato dalla prospettiva della mera cooperazione giudiziaria. In questo quadro si colloca l'adozione delle direttive 2010/64/Ue e 2012/13/Ue, rispettivamente sul diritto all'interpretazione e alla traduzione e sul diritto all'informazione nei procedimenti penali, nonché della direttiva 2013/48/Ue sul diritto di accesso a un difensore nel procedimento penale e sul diritto di comunicare al momento dell'arresto. L'espressione più recente di questo new deal europeo è la direttiva 2016/343/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali (su questa rivista, volendo, BIGIARINI, Presunzione di innocenza e diritto al silenzio nella nuova direttiva Ue).

Da ultimo, occorre segnalare che, in attuazione della decisione quadro 2009/299/Gai, in materia di processo in absentia, il legislatore italiano (con d.lgs. 31 del 2016) è intervenuto sul testo della legge n. 69 del 2005, di attuazione del Mae, in una duplice direzione: efficientista, avendo di mira l'obiettivo di facilitare la cooperazione giudiziaria in materia penale e, in particolare, di migliorare il reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie emesse in absentia tra gli Stati membri dell'Unione europea; garantista, perseguendo altresì lo scopo di rafforzare i diritti processuali dell'imputato non presente al procedimento penale a suo carico. Siffatte osservazioni permettono, in conclusione, di sottolineare il mutamento di rotta operato dal legislatore europeo, non solo mercé l'emanazione delle più recenti direttive sui diritti della persona indagata o imputata in un processo penale, ma anche attraverso una rivisitazione in chiave garantista di strumenti - di cui il Mae è l'emblema - inizialmente “pensati” in una prospettiva meramente pratica e “di risultato”.

Guida all'apprfondimento

CHELO, Il mandato di arresto europeo, Milano, 2010;

COLAIACOVO – DE AMICIS - IUZZOLINO (a cura di), Parte speciale. Mandato di arresto europeo, in LATTANZI - LUPO, Codice di procedura penale: rassegna di giurisprudenza e di dottrina, XIII, Milano, 2013, 56;

BARGIS, Libertà personale e consegna, in KOSTORIS (a cura di), Manuale di procedura penale europea, Milano, 2014, 262;

TONINI, Manuale di procedura penale, 17^ ed., Milano, 2016, 1102.

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