L’astensione dalle udienze, anche se in camera di consiglio, è esercizio di un diritto di libertà garantito dalla Costituzione

Michele Sbezzi
22 Settembre 2015

La sentenza in esame (Cass. pen., Sez. I, 9 luglio 2015 - dep. 2 settembre, n. 35820) costituisce l'ultima, autorevole conferma della modifica intervenuta nella giurisprudenza della Corte relativamente all'interpretazione ed alla portata del diritto degli Avvocati a partecipare all'astensione dalle udienze, ove legittimamente proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria e tempestivamente comunicata, anche quando si tratti di udienza camerale.
Abstract

La sentenza in esame (Cass. pen., Sez. I, 9 luglio 2015 - dep. 2 settembre, n. 35820) costituisce l'ultima, autorevole conferma della modifica intervenuta nella giurisprudenza della Corte relativamente all'interpretazione ed alla portata del diritto degli Avvocati a partecipare all'astensione dalle udienze, ove legittimamente proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria e tempestivamente comunicata, anche quando si tratti di udienza camerale.

Il diritto di astensione dalle udienza nella giurisprudenza della Corte costituzionale

Il mutamento è piuttosto recente, ma ha basi solide - quanto lontane - in una sentenza emessa nel 1996 dalla Corte Costituzionale (n. 171 del 27 maggio 1996)

Ancor prima, nel giugno 1990, era stata promulgata la legge n. 146/1990in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”.

Essa, nel suo testo originale, non ebbe però mai applicazione in materia di astensione dalle udienze.

Ciò in ragione della oggettiva difficoltà a parificare la posizione del lavoratore dipendente, che gode di un diritto costituzionalmente garantito allo sciopero, a quella del professionista autonomo che tale diritto non ha; ma, soprattutto, del fatto che la norma venne interpretata come fonte di un diritto “interno”, avente valore principalmente disciplinare e, evidentemente, sprovvista delle caratteristiche che potessero porla in valido contrasto con il diritto pubblico processuale penale.

Solo nel 2000, proprio per l'indicazione espressa dalla Corte Costituzionale, il Legislatore ha aggiunto l'art. 2-bis al codice di autoregolamentazione, che venne poi – in tal sua rinnovata forma – adottato come codice delle modalità dell'astensione collettiva degli Avvocati dall'attività giudiziaria, nel dicembre 2007, dalla Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

Procedendo in ordine cronologico, va ricordato dunque che la Corte Costituzionale compì il primo passo nell'evoluzione giurisprudenziale che ci ha condotto alla sentenza oggi in commento.

Con la sentenza 171 del 1996, infatti, la Corte, sottolineando che l'ordinamento repubblicano si fonda sul pieno riconoscimento della libertà di associazione e dell'attività sindacale, nonché sulle iniziative prese dalle associazioni rappresentative a difesa di interessi peculiari di categoria , ha sancito che le iniziative delle associazioni di categoria possono esprimersi anche in astensioni collettive dal lavoro e, per finire, che “ … il riconoscimento che la Carta Costituzionale assicura all'autonomia dei singoli e dei gruppi … vale altresì per l'astensione dal lavoro di quei professionisti che svolgono – come gli avvocati e i procuratori legali – la propria attività in condizioni di indipendenza”.

L'astensione dalle udienze, sempre secondo la sentenza costituzionale richiamata, non può esser ridotta a mera facoltà di rilievo costituzionale, trattandosi invece di una vera e propria espressione dei diritti di libertà.

Nella stessa sentenza, inoltre, la Corte sottolineò che le astensioni non regolamentate creavano concreto pregiudizio per l'amministrazione della giustizia e, conseguentemente, per i diritti della persona che in essa trovano tutela.

I tentativi di adeguamento della normativa da parte del legislatore

Preso atto, dunque, di una palese incongruenza fra gli obbiettivi ispiratori della legge 146/1990 ed i suoi strumenti operativi, nonché del correlato dubbio di incostituzionalità della legge medesima per la mancata previsione di una razionale e coerente disciplina che comprendesse, regolamentandole, ipotesi di manifestazioni collettive capaci di compromettere valori primari seppur poste in essere da soggetti autonomi – e non da lavoratori dipendenti – la Corte dichiarò l'illegittimità dell'art. 2, commi 1 e 5, della legge 146/1990 nella parte in cui non era previsto l'obbligo di un congruo preavviso, l'indicazione di un ragionevole limite temporale dell'astensione, gli strumenti atti ad individuare e assicurare le prestazioni essenziali. Così facendo, in buona sostanza indicò al Legislatore la necessità di intervenire sulla legislazione per adeguarla.

Il pressante invito fu, come sopra indicato, finalmente accolto con la novella del 2000, che ha regolamentato anche le forme di astensione collettiva degli avvocati, trattando della funzionalità dei servizi pubblici e del contemperamento delle finalità dell'astensione di liberi professionisti con i diritti della persona costituzionalmente tutelati.

Nonostante ciò, la Giurisprudenza ha però continuato per anni a ritenere incompatibile la regolamentazione del diritto all'astensione collettiva con la trattazione delle udienze in camera di consiglio.

Solo nel 2013, la Suprema Corte a Sezioni unite penali, con sentenza del 30 maggio n. 26711, ripresa poi dalla VI Sezione penale con la sentenza n. 1826 del 2014, riconobbe che il detto codice aveva assunto valore di normativa secondaria e, come tale, andava valutato dal giudice nell'esaminare le richieste di rinvio per adesione all'astensione.

Nonostante l'autorevolezza del precedente, la Giurisprudenza prevalente (si veda, per tutte, la sent. 5772/2012 emessa dalla I sezione penale della Corte Suprema) dovette attendere fino al 2014 perché venisse riconosciuto effetto alla detta modifica della disciplina e, soprattutto, perché venisse ricollegato effetto all'introduzione di una specifica disciplina processuale di deroga al disposto dell'art. 127 c.p.p., che invero sembrava porre un limite insuperabile.

Tale ultima norma, infatti, nel disporre al comma 3 “ Il pubblico ministero, gli altri destinatari dell'avviso nonché i difensori sono sentiti se compaiono ...” ha da sempre giustificato l'interpretazione secondo cui il rapporto processuale, in caso di udienza camerale, si instaura ed è perfetto con la notifica dell'avviso di fissazione di udienza, senza alcuna ed ulteriore necessità.

Le innumerevoli decisioni che si sono nel tempo succedute, tutte sulla stessa scia, sono quindi consistite nel rigetto delle richieste di rinvio avanzate da chi riteneva di dover aderire all'astensione; nessun rinvio appariva giustificato o applicabile alla celebrazione dell'udienza camerale, ove viene sentito solo chi compare.

A riprendere e confermare la sentenza del 2013 delle Sezioni Unite, come sopra indicato, è intervenuta la sentenza 1826/2014 della VI sezione penale della Suprema Corte, che ha ribadito che l'astensione forense non può essere considerata un semplice impedimento partecipativo, bensì esercizio di un diritto di libertà avente fondamento nella Carta Costituzionale.

Nell'ottobre del 2014, si sono poi pronunciate nuovamente le sezioni unite penali, sulla questione di diritto così indicata: “ Se, in relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il giudice sia tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza della tempestiva dichiarazione di astensione del difensore legittimamente proclamata dagli organismi di categoria”.

La sentenza, poi pubblicata con il n. 15232/2015 Sez. Un., intervenne così a ripercorrere la genesi e la storia della vicenda, sottolineando come l'astensione dalle udienze trova il proprio fondamento in un diritto di libertà costituzionalmente garantito, mentre il codice di autoregolamentazione, a decorrere dalle modifiche introdotte con la l. 83 del 2000, ha certamente valore di normativa secondaria, con valore precettivo erga omnes che lascia “ … al giudice solo il potere di accertare la ritualità dell'astensione nonché di operare, se occorre, un'interpretazione anche in chiave sistematica o adeguatrice delle norme primarie e secondarie rilevanti, in modo che il risultato dell'interpretazione sia il più possibile conforme ai principi e valori costituzionali di cui si sta discutendo”.

Nota la Corte che la speciale materia dell'astensione collettiva degli avvocati non può essere interpretata, neppure per via analogica, alla luce del codice di rito e che per questo il Legislatore del 2000 ha “ … riservato alla specifica fonte secondaria costituita dal codice di autoregolamentazione – così come indicato dalla richiamata sentenza 171 della Corte Costituzionale – la competenza a porre norme speciali per la disciplina di questa materia.”

La sentenza, rispondendo al quesito iniziale, giunge quindi ad affermare un principio di diritto, secondo cui “In relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il giudice è tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza di una dichiarazione di astensione del difensore, legittimamente proclamata dagli organismi di categoria ed effettuata o comunicata nelle forme e nei termini previsti dall'art. 3, comma 1, del vigente codice di autoregolamentazione”.

La dichiarazione di astensione pronunciata dal Difensore (anche dal difensore della parte offesa, come prevede l'art. 3 del codice di autoregolamentazione sopra richiamato) costituisce dunque esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, che il giudice deve riconoscere e garantire ove le condizioni di legge (proclamazione e dichiarazione tempestiva) siano rispettate.

Astensione collettiva e diritto al rinvio adell'udienza

La sentenza 35820/2015 emessa dalla I Sezione penale della Suprema Corte sancisce e richiama il percorso sopra riassuntato e ne ribadisce l'assoluta fondatezza. Sembra dunque definitivamente sancito il diritto della difesa – e conseguentemente dell'assistito - a ottenere il rinvio dell'udienza camerale per adesione ad astensione collettiva regolarmente proclamata e tempestivamente comunicata.

Anche con quest'ultima sentenza, infatti, la Corte dichiara che il mancato accoglimento di una richiesta di rinvio per adesione ad astensione collettiva regolarmente proclamata e comunicata “… determina una nullità per la mancata assistenza dell'imputato, ai sensi dell'art. 178, primo comma, lett. c) cod. proc. pen.”.

Aggiunge però parecchio altro al percorso fin qui seguito, specificando che la nullità ha natura assoluta ove si tratti di udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore, ovvero natura intermedia negli altri casi.

Con ciò sembra superare il disposto letterale dell'art. 127 c.p.p., che pareva non conoscere eccezioni, e sancisce che anche in udienza camerale la presenza del difensore può esser considerata necessaria.

Naturalmente, la Corte si esprime nel senso del testo letterale dell'art. 179 c.p.p., che prevede nullità assoluta per assenza del difensore “nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza”.

Giunge però, infine, alla conclusione che, nel caso giudicato e nonostante si trattasse dell'udienza in cui doveva discutersi un'impugnazione a sentenza di condanna, la presenza del difensore non fosse obbligatoria ma solo eventuale, trattandosi di udienza in camera di consiglio disposta ai sensi dell'art. 599 c.p.p.. Sembra potersi intravvedere un contrasto.

Si ritorna, dunque, al problema della valenza del disposto dell'art. 127 c.p.p., il cui limite, evidentemente, non può ritenersi superato dal disposto del codice di autoregolamentazione.

Orbene, la questione dell'obbligatoria presenza del difensore è stata vagliata negli anni da dottrina e giurisprudenza, ma resta comunque difficile una sicura individuazione dei casi in cui la presenza del difensore non sia obbligatoria, posto anche il fatto che l'assistenza tecnica in procedimento penale è obbligatoria e che, per tal causa, la parte che non provveda a nominarne uno di fiducia verrà assistita da un difensore d'ufficio, scelto da appositi registri.

Viene peraltro in mente anche l'obbligo del difensore nominato a prestare la miglior difesa possibile (e quindi ad esser sempre presente), pena un'accusa di infedele patrocinio o, quantomeno, un procedimento disciplinare per mancato ossequio al codice deontologico.

Nonostante tutto ciò, l'interpretazione letterale delle norme sopra richiamate conduce alla decisione in argomento.

Essa propone qualche problematicità.

Quando la presenza del difensore è necessaria? E quale difensore è necessario sia presente?

Se il problema potesse risolversi facendo semplicemente riferimento al codice di rito, ed ai casi in cui la presenza necessaria è esplicitamente sancita, i casi certi sarebbero piuttosto pochi.

La presenza necessaria (l'udienza si svolge con la presenza necessaria del pubblico ministero e del difensore) è infatti espressamente indicata, per esempio, dall'art. 391 c.p.p. (udienza di convalida), dall'art. 420 c.p.p. (costituzione delle parti), dall'art. 666 c.p.p. (procedimento di esecuzione).

Non è prevista, almeno in forma espressa, nel giudizio direttissimo o in quello immediato; e neppure in dibattimento, nonostante l'art. 484 c.p.p. obblighi il presidente a nominare un difensore di ufficio nei casi in cui quello di fiducia non sia presente.

In conclusione

La soluzione, dunque, non sembra potersi trarre da una dizione codicistica specifica, che espressamente prescriva la presenza necessaria. Soprattutto nel caso giudicato con la sentenza n. 35820, che prevede la possibilità astratta di un'udienza in camera di consiglio in cui la presenza sia necessaria ma poi perviene a soluzione apparentemente diversa.

Peraltro, è da osservare che la Corte fa riferimento alla presenza obbligatoria e non a quella necessaria.

La soluzione, in mancanza di un'espressa e completa previsione codicistica, potrebbe provenire dall'esame della funzione in concreto da espletare.

Ma, nel caso in esame, trattandosi di appello avverso sentenza di condanna, da discutere nelle forme della camera di consiglio avanti il giudice dell'impugnazione, non può agevolmente sostenersi che la presenza del difensore non sia necessaria.

La soluzione, quindi, sembra doversi trovare caso per caso, facendo ricorso alla previsione codicistica che ne regola lo svolgimento.

Sembra indubbio che, nel caso in questione, nonostante il tenore letterale della sentenza in argomento (che pur potrebbe esser viziata da semplice lapsus calami) e vista l'espressione usata dal Legislatore al comma 3 dell'art. 127 c.p.p., non possa dirsi necessaria la presenza di un difensore che ha diritto di parola solo se presente e seppur la sua funzione possa apparire irrinunciabile nella discussione di un'impugnazione a sentenza di condanna.

La forma dell'udienza in camera di consiglio obbliga a ritenere, in conformità alla previsione codicistica, che la presenza del difensore sia solo eventuale.

Si tratta dell'effetto della necessità di contemperare i diritti delle parti – nella specie il diritto di libertà costituzionalmente previsto e garantito – alla necessità di espletamento della funzione del giudice, al pubblico interesse a che le pubbliche funzioni non vengano interrotte o ritardate, alle esigenze correlate alla ragionevole durata del processo penale.

Sufficiente garanzia e tutela sono, certamente, il riconoscimento della sussistenza di un diritto ad aderire alle astensioni e, soprattutto, la previsione dello specifico rimedio dell'eccezione di nullità, seppur intermedia e dunque da eccepirsi entro limiti stabiliti e cogenti.

Eppure, la sentenza in argomento sembra poter aprire la porta a nuove interpretazioni, in grado di superare il tenore letterale dell'art. 127 c.p.p.

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