Carcere: trattamenti inumani e spazio minimo vitale

23 Febbraio 2017

Per spazio minimo individuabile in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto.
Massima

Per spazio minimo individuabile in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto.

Il caso

Il tribunale di sorveglianza di Perugia (ord. 890 del 2014) in data 2 ottobre 2014 aveva respinto il reclamo proposto da (OMISSIS), in tema di tutela inibitoria e risarcitoria ex articoli 35-bis e ter ord.pen., avverso la decisione emessa dal magistrato di sorveglianza in data di (OMISSIS). L'azione sostenuta dal detenuto in secondo grado, per come risultava dal provvedimento impugnato, aveva carattere essenzialmente inibitorio (rimozione degli ostacoli alla fruizione dei diritti soggettivi) pur se in prima istanza – innanzi al magistrato di sorveglianza – era stata formulata congiunta istanza risarcitoria, rientrante nella previsione di legge di cui all'attuale articolo 35-ter ord.pen. Il tribunale di sorveglianza esaminava, in via prioritaria, la questione dello spazio vitale minimo interno alla camera detentiva, stante la denunzia di sovraffollamento posta a base del reclamo (in una con altri aspetti accessori, anch'essi valutati). In tale contesto, il tribunale richiamava i recenti arresti della Cedu e si poneva il problema – a fronte dei dati istruttori comunicati dalla Direzione dell'istituto – di stabilire la metodologia di calcolo dello spazio vitale in cella collettiva, partendo dal presupposto di una assenza di indicazioni specifiche da parte della Corte europea sulle modalità di computo. Avverso detta ordinanza il reclamante proponeva ricorso per Cassazione per il seguente motivo: erronea applicazione della disciplina regolatrice.

La Corte di cassazione annullava l'ordinanza impugnata e rinviava per nuovo esame al tribunale di sorveglianza di Perugia.

La questione

La Corte di cassazione con la sentenza n. 52819 del 13 dicembre 2016è tornata ad esprimersi in tema di spazio minimo vitale all'interno della cella carceraria in aderenza a quanto stabilito nelle più recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo, stabilendo però una novità.

Quest'ultima nel motivare circa le doglianze sollevate dal reclamante il quale lamentava la carenza dello spazio minino vitale ha precisato come: appare preliminare ad ogni statuizione – circa la sussistenza o meno degli estremi del trattamento inumano o degradante ed in ordine alla congruità dell'assetto interpretativo e motivazionale esposto dal Tribunale – la verifica delle modalità di computo dello spazio minimo vitale per l'individuo posto in cella collettiva. E nel fare ciò la Cassazione richiama la giurisprudenza della Corte europea che individua nella “quota” dei tre metri quadrati di spazio vitale la soglia al di sotto della quale si verifica, secondo le linee interpretative esposte dalla Cedu: a) l'esistenza di per sé della violazione dei contenuti prescrittivi dell'articolo 3 Cedu, senza possibilità di compensazioni derivanti dalla bontà della residua offerta di servizi o di spazi comuni esterni alla cella (in tal senso, tra le altre, le decisioni Sulejmanovic contro Italia del 6 novembre 2009 e Torreggiani contro Italia dell'8 gennaio 2013); b) la forte presunzione di trattamento inumano o degradante, compensabile – eventualmente – con la considerazione del tempo ristretto di permanenza in tale ambiente e con l'esistenza di una complessiva concorrenza di aspetti positivi del trattamento individuale secondo la decisione Mursic contro Croazia del 12 marzo 2015.Il supremo Collegio, adito dalla doglianza del detenuto di essere sottoposto a trattamento inumano o degradante, per essere ristretto in ambienti carcerari di ampiezza così esigua da non soddisfare i requisiti minimi della abitabilità intramuraria fissati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, osserva come il giudice del reclamo sia chiamato ad accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione.

La Cassazione nel lungo passaggio motivazionale conferma l'opzione interpretativa che intende i tre metri quadrati – più volte indicati come criterio di riferimento nelle decisioni emesse dalla Cedu – come spazio utile al fine di garantire il movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo, il che esclude di poter inglobare nel computo gli arredi fissi, in ragione dell'ingombro che ne deriva. E ciò in relazione alla nozione dello spazio minimo vitale cosi come individuato dalla giurisprudenza della Cedu. Il supremo Collegio però pone un aspetto di novità, che caratterizza la sua decisione; e ciò riguarda la considerazione o meno in termini di ingombro dello spazio occupato nella camera detentiva dal letto, che per comune esperienza è tipologicamente un letto a castello (la camera detentiva non è singola) dal peso consistente. Per il supremo Collegio, non v'è dubbio, che il letto a castello vada considerato come un ingombro idoneo a restringere per la sua quota di incidenza, lo “spazio vitale minimo” all'interno della cella, contrariamente a quanto ritenuto nel provvedimento impugnato. Per cui secondo la Cassazione per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo Io spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto. Tale principio, peraltro, risulta conforme alla stessa evoluzione della giurisprudenza Cedu, anche alla luce della decisione emessa dalla Grande Camera Mursic contro Croaziadel 12 marzo 2015. La Grande Camera, pur non esprimendo una posizione specifica sul tema del letto al contempo afferma con chiarezza che per tale va inteso lo spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi, all'interno della cella. Per tale ragione, secondo la Cassazione, la indicazione funzionale dello spazio minimo individuale come spazio destinato al movimento è tale da comportare, la necessità di escludere dal computo quelle superfici occupate da strutture tendenzialmente fisse – tra cui il letto – mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili. Ebbene alla luce delle pronunce richiamate, per la Cassazione la decisione impugnata dal ricorrente muove da un erroneo presupposto in tema di modalità di computo dello spazio minimo individuale in cella collettiva. E proprio in rapporto al secondo periodo di detenzione dello (OMISSIS). Lo scorporo della quota riferita al letto potrebbe dunque determinare in concreto la esistenza di una offerta inferiore ai tre metri quadri. Ciò, afferma la Cassazione, in rapporto all'attuale assetto interpretativo fornito dalla Cedu (assetto che il giudice interno ha l'obbligo di ritenere un dato integrativo del precetto, stante la formulazione testuale dell'articolo 35-ter) non determina di per sé una violazione dell'articolo 3 Cedu ma una forte presunzione di trattamento inumano o degradante, superabile solo attraverso l'esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo. Il giudice di legittimità, dunque, per le ragioni esposte in motivazione, afferma che il provvedimento vada annullato con rinvio dovendosi dunque procedere a nuova fissazione dello spazio minimo individuale e, lì dove si versi in ipotesi di spazio inferiore ai tre metri quadrati dovendosi compiere un esame globale e analitico dei parametri compensativi prima evidenziati.

Le soluzioni giuridiche

La suprema Corte ponendosi in continuità con l' orientamento consolidato espresso dalla giurisprudenza Cedu ha stabilito: per spazio minimo individuabile in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto. Invero La Corte di cassazione con la pronuncia richiamata ha affermato che ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte Edu in data 8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani c. Italia, dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l'area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili.

Osservazioni

Le condizioni di detenzione dei condannati o delle persone sottoposte a custodia da parte della polizia, sono rimesse alla tutela dello Stato, il quale è obbligato a garantire uno standard minimo delle condizioni di carcerazione, in virtù dell'art. 3 della Convenzione Edu; questo livello minimo di protezione deve tener conto del rispetto della dignità dell'uomo ed in particolare dei detenuti, i quali versano in una condizione evidentemente delicata e vulnerabile, così come la giurisprudenza europea ha più volte affermato rispetto all'interpretazione della Cedu. Sul punto la giurisprudenza della Corte Europea si pone come un faro che illumina il diritto di ogni detenuto a non subire trattamenti inumani e degradanti.

Le numerose pronunce della Corte Europea di condanna dell' Italia per la violazione dell'art. 3 Cedu confermano ancora il livello di inciviltà delle carceri italiane. Emblematica appare la pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani – definita dagli stessi giudici come “sentenza pilota” – la quale ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano. Il caso, come è noto, riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.

La carcerazione – hanno affermato i giudici di Strasburgo – non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l'articolo 3 Cedu pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell'assicurare che ogni persona sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l'interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d'intensità che ecceda l'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente. La Corte europea dei diritti umani nella sentenza definitiva Mursic contro Croazia del 12 marzo 2015 ha fissato il limite minimo che ogni detenuto deve avere in una cella che occupa con altri. La Corte individua cosi una regola valida per tutti i 47 Paesi membri del Consiglio d'Europa, Italia compresa. Nella pronuncia menzionata giudici hanno stabilito che in celle multiple ogni detenuto deve avere a disposizione come minimo tre metri quadrati di superficie calpestabile, perché in caso contrario la mancanza di spazio vitale è ritenuta talmente grave da dare adito alla forte presunzione di una violazione del carcerato a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Nel caso specifico la Corte di Strasburgo ha stabilito che il diritto di Kristijan Mursic è stato violato perché l'uomo è stato tenuto per 27 giorni consecutivi in una cella con altri detenuti in cui disponeva di meno di tre metri quadri calpestabili. I giudici hanno anche stabilito le eccezioni alla regola, specificando alcuni criteri che normalmente li condurranno a non trovare una violazione dei diritti dei detenuti. Uno dei criteri è temporale: la riduzione di spazio sotto i tre metri quadri è breve, occasionale e minore. L'altro è rappresentato dalle condizioni generali di vita del detenuto: sufficiente libertà di movimento fuori dalla cella, partecipazione ad attività, buono stato della cella. La decisione emessa dalla grande Camera nel caso de quo si segnalata dunque per aver affermato con chiarezza che per spazio minino vitale va inteso lo spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi, all'interno della cella. Su tale ultimo assunto dovrebbero muoversi gli Stati membri per garantire ai detenuti trattamenti rispettosi della dignità umana e dei diritti inviolabili.

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