Multiculturalismo e diritto penale: i reati culturalmente orientati

23 Agosto 2016

L'intensificazione dei flussi immigratori ha reso la nostra società sempre più multiculturale, al pari delle altre società europee contemporanee. Sul piano del diritto penale, la difficile convivenza fra culture diverse ha posto il problema della valutazione di condotte penalmente rilevanti tenute da individui che provengono da Paesi ove quel comportamento è consentito o tollerato.
Abstract

L'intensificazione dei flussi immigratori ha reso la nostra società sempre più multiculturale, al pari delle altre società europee contemporanee. Sul piano del diritto penale, la difficile convivenza fra culture diverse ha posto il problema della valutazione di condotte penalmente rilevanti tenute da individui che provengono da Paesi ove quel comportamento è consentito o tollerato. L'appartenenza culturale dell'autore influisce sulla genesi e sulle modalità esecutive di numerose condotte tipiche, come i maltrattamenti in famiglia, le violenza sessuale, le lesioni o l'omicidio in funzione vendicativa di un torto subito, la violazione degli obblighi di assistenza familiare, le mutilazioni di genitali femminile, la riduzione in schiavitù, ecc.

Nel commento, dopo una breve introduzione sul fenomeno dei reati culturalmente motivati o reati culturalmente orientati (cultural defense nei paesi di common law), vengono analizzate le posizioni della dottrina, incline da sempre ad una maggiore apertura al fenomeno culturale, e della giurisprudenza, che da una iniziale posizione di netta chiusura sta passando ad un modello di giudizio aperto alla valutazione dei condizionamenti sui motivi a delinquere provenienti dalla cultura di appartenenza del reo.

I reati “culturalmente orientati”

L'attuale dibattito sulla rilevanza penale delle c.d. scriminanti “culturali” origina dal consistente afflusso di migranti provenienti da vari Paesi stranieri che ha investito negli ultimi anni il nostro Paese che, al pari di altri Stati europei, si sta sempre più trasformando in una società multiculturale. È evidente che la compresenza sul medesimo territorio di un numero sempre più crescente di persone appartenenti ai più svariati gruppi etnici, linguistici e religiosi provoca, dal punto di vista dell'ordinamento penale, uno scontro normo-culturale consistente in situazioni di antinomia tra il sistema giuridico del Paese ospitante e quello del Paese di provenienza dei vari gruppi d'appartenenza degli immigrati. Questo conflitto normativo, nel settore penale, è indicato dalla dottrina con l'espressione reati culturalmente motivati o reati culturalmente orientati (cultural defense nei paesi di common law).

Il problema di fondo consiste nel fatto che il soggetto agente, proveniente da un altro Paese, adduce come causa giustificatrice della sua condotta la c.d. motivazione culturale, ossia l'appartenenza ad una cultura d'origine che consente o tollera quel comportamento per il quale è chiamato a rispondere penalmente nel nostro Paese. In tal modo, molti comportamenti considerati penalmente rilevanti nel nostro ordinamento sono ritenuti giustificati, o addirittura doverosi, tra i soggetti appartenenti a determinate comunità, etnie o tradizioni culturali.

Dal punto di vista processuale la nozione di reato culturalmente motivato finisce dunque per andare a coprire tutti quei fatti di reato, rispetto ai quali l'imputato chiede un ampliamento della cognizione processuale anche al proprio background culturale, di talché il giudice possa addivenire a una più corretta ricostruzione della vicenda e, di conseguenza, a una decisione più favorevole per l'imputato. Va aggiunto che la medesima problematica può porsi anche con riferimento a quei cittadini italiani che, appartenendo ad una minoranza culturale, non condividono certi valori diffusi nel contesto economico-sociale del nostro Paese. Si pensi, in particolare, al caso dei Testimoni di Geova, i quali, in quanto contrari alle trasfusioni, vietano la possibilità di praticare al figlio, gravemente malato, tale trattamento sanitario, così provocandone la morte.

Prima di analizzare le posizioni della dottrina e della giurisprudenza sulla questione della rilevanza penale delle cultural defense, occorre precisare che l'art. 42 del testo unico sull'immigrazione attribuisce allo Stato, alle Regioni e alle autonomie locali il compito di favorire la conoscenza e la valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia e l'art. 43, del medesimo testo unico vieta ogni discriminazione diretta o indiretta a danno degli immigrati. Nonostante le predette disposizioni orientino apertamente il nostro Paese verso un modello di società multiculturalista, non è presente, allo stato, alcuna norma che – in qualche modo – dia specifico rilievo alle integrazioni e regolarizzi le modalità di intervento in situazioni di conflitto normativo-culturale, conflitto, quest'ultimo, che rischia così di essere sempre più rimesso alla sola coscienza collettiva.

Tra i comportamenti maggiormente significati che sono stati portati all'attenzione della casistica giurisprudenziale si annoverano, in particolare, le ipotesi dell'accattonaggio, delle mutilazioni di genitali femminile, dei maltrattamenti in famiglia, della riduzione in schiavitù; tali condotte – tutte considerate penalmente rilevanti dal codice Rocco – sono pienamente giustificate dai soggetti appartenenti a gruppi etnici e culturali diversi dal nostro, quali, ad esempio, quelli appartenenti all'etnia Rom, all'etnia islamica e ad alcuni paesi nordafricani.

A fronte delle suddette problematiche, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate circa la possibilità di attribuire rilevanza penale, in termini di scriminanti o scusanti, ovvero di esclusione di circostanze aggravanti, a quei comportamenti che sono espressione della cultura di appartenenza del soggetto agente.

Le aperture della dottrina: tra atipicità del fatto, non colpevolezza dell'autore e inesigibilità della condotta

Parte della dottrina si è espressa positivamente sul punto, affermando la possibilità di ritenere penalmente scriminati quei comportamenti posti in essere da stranieri che, sebbene vietati dall'ordinamento penale, risultino conformi ai principi derivanti dalla cultura e dalle leggi di provenienza di tali individui. I fautori di tale ricostruzione, mediante un approccio di tipo integrazionista-inclusionista, hanno pertanto affermato che tali condotte sarebbero non punibili in quanto riconducibili alla causa di giustificazione dell'esercizio del diritto di cui all'art. 51 c. p. Non manca chi riconduce la rilevanza penale delle scriminanti culturali alle cause di giustificazione di cui agli artt.50 e 54 c.p.

Altra parte della dottrina – con una prospettazione teorica alquanto suggestiva – ritiene invece che nelle predette situazioni ciò che difetta non è tanto l'antigiuridicità, bensì la colpevolezza dell'agente, atteso che quest'ultimo non è in grado di percepire il disvalore insito nella sua condotta e, dunque, la riprovevolezza della stessa.

Non è mancato poi un orientamento minoritario (DE MAGLIE, 226 ss.), secondo il quale la valorizzazione del bagaglio culturale dello straniero condurrebbe indefettibilmente a una inesigibilità della condotta conforme all'ordinamento penale, in quanto contrastante con i suoi valori etici, morali e religiosi.

Le chiusure della giurisprudenza: tra principio di uguaglianza, principio di territorialità e inescusabilità dell'ignoranza della legge penale

Malgrado le suesposte ricostruzioni da parte della dottrina valorizzino giuridicamente le specificità culturali di soggetti appartenenti a gruppi etnici diversi dal nostro, la giurisprudenza, adottando il modello di derivazione francese c.d. assimilazionista, ha mostrato fino a questo momento un atteggiamento di totale chiusura circa la rilevanza penale delle esimenti culturali, ritenute palesemente in contrasto con i principi che animano il nostro ordinamento penale.

Infatti, già a partire dal 1991, la pretura di Torino (Pret. Torino, sent., 4 novembre 1991, in Cass. pen., 1992, 1647), valutando la responsabilità penale addebitabile a due genitori che avevano costretto i propri figli minori all'accattonaggio, aveva affermato che il gruppo etnico minoritario non può pretendere che la sua cultura sia globalmente accolta nell'ordinamento giuridico in cui si stabilisce, specie quando essa entra in stridente contrasto con i principi cardine della Costituzione.

Sulla scia di tale pronuncia, la successiva giurisprudenza di legittimità ha definito quello che è ormai l'indirizzo consolidato in materia, che nega qualsivoglia rilevanza alle scriminanti culturali.

Innanzitutto, il supremo Collegio ha più volte evidenziato la vigenza del principio di territorialità, di cui all'art. 3 c.p., secondo il quale la legge penale italiana si applica nei confronti di tutti coloro (cittadini italiani o stranieri) che si trovano nel territorio dello Stato, fatte salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno e dal diritto internazionale. Dunque, troverà applicazione anche nei confronti dello straniero l'art. 5 c.p., in virtù del quale nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale. Ne consegue che l'eventuale errore dello straniero, che valuta la rilevanza penale della sua condotta alla luce dei valori appartenenti al suo retaggio culturale, si configura quale errore sul precetto, come tale privo di rilevanza scusante, atteso che egli vuole una condotta corrispondente a quella descritta da una norma incriminatrice, nella erronea convinzione della penale irrilevanza della stessa; pertanto, non potrà trovare applicazione l'art. 47 c.p. Alla luce dei principi sanciti nella fondamentale sentenza della Consulta n. 364/1988, la condotta dello straniero, analogamente a quella del cittadino italiano, sarà considerata incolpevole soltanto qualora risulti frutto di un errore scusabile (Cass. pen., 7 dicembre 1989; Cass. pen., Sez. I, 7 ottobre 1992-25 novembre 1992, n. 11376; Cass. pen., Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12089).

In applicazione di detto principio, la giurisprudenza di legittimità ha apertamente escluso che la c.d. circoncisione maschile rituale, eseguita dalla madre al figlio per motivi culturali che determinano l'ignoranza inevitabile della legge, integri il reato di esercizio abusivo della professione medica. In particolare, la Corte, pur negando nel caso di specie l'applicazione in funzione scriminante dell'art. 51 c.p., ha riconosciuto all'interno del c.d. giudizio di inevitabilità un'incolpevole carenza di socializzazione dell'imputata che, tenuto conto della condizioni marginali di vita e delle oggettive difficoltà di recepire un bagaglio culturale differente dal proprio, le ha impedito la conoscibilità della norma penale in bianco violata. Nel caso di specie una giovane donna nigeriana aveva sottoposto il proprio figlio di poche settimane ad un intervento di circoncisione ad opera di una connazionale non abilitata all'esercizio della professione medica, intervento dal quale era derivata una grave emorragia che aveva richiesto un ricovero d'urgenza in ospedale. L'imputata ignorava la natura medica della circoncisione praticata per motivi rituali e la conseguente necessità che ad effettuarla sia un soggetto abilitato all'esercizio della professione medica ma tale ignoranza è stata stimata come inevitabile per essere quella madre di recente immigrata da un Paese straniero in cui tale pratica è diffusa per tradizione etnica, dalla quale la stessa è risultata essere fortemente influenzata in ragione del suo basso grado di cultura. I giudici di legittimità non hanno quindi esitato ad applicare l'art. 5 c.p., riconoscendo sussistente una incolpevole carenza di socializzazione dell'imputata che le ha impedito una normale accessibilità – e quindi conoscibilità – della norma penale violata (nella specie, la norma non penale richiamata dall'art. 348 c.p.) (Cass. pen., Sez. VI, 22 giugno 2011-24 novembre 2011, n. 43646).

Dopo aver escluso il recepimento della c.d. teoria dell'inesigibilità, che non può certo considerarsi un principio generale del nostro ordinamento, la giurisprudenza ha, altresì, respinto la ricostruzione che, facendo leva sulla scriminante di cui all'art. 51 c.p., ritiene giustificati quei comportamenti penalmente rilevanti, ma espressione del bagaglio culturale di appartenenza dello straniero. In particolare, si sottolinea che la valorizzazione del retaggio culturale del soggetto agente al fine di estendere il concetto di diritto di cui all' art. 51 c.p. e, di conseguenza, di ampliare l'alveo di operatività della relativa scriminante, determinerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri consociati, palesemente derogatoria dell'art. 3 Cost. Ad avviso della Corte, i beni presidiati dalla Carta fondamentale rappresentano uno sbarramento invalicabile, di talché nessun rilievo può essere conferito a quei comportamenti penalmente rilevanti, espressione della comunità di appartenenza dello straniero, che violino i principi costituzionali nazionali posti a presidio di beni fondamentali dello Stato. Il fattore culturale non può pertanto giustificare la condotta penalmente rilevante dello straniero, poiché la norma penale violata è volta a protegger i valori fondamentali che fanno parte del patrimonio etico-culturale della nazione e che pertanto non sono suscettibili di deroghe (cfr. ex plurimis Cass pen.,Sez. VI, ord., 20 ottobre 1999-24 novembre 1999, n. 3398, in Cass. pen., 2002, 249; Cass. pen., 8 novembre 2002, n. 55; Cass. pen., Sez. VI, 26 novembre 2008-16 dicembre 2008, n. 46300; Cass. pen., Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12089).

Sempre con riferimento all'art. 51 c.p., la giurisprudenza ha affermato più volte che, in tema di riduzione e mantenimento in servitù (art. 600 c.p.), non è invocabile dagli autori della condotta – sostanziatasi nell'aver costretto minori all'accattonaggio – la causa di giustificazione dell'esercizio del diritto, per richiamo alle consuetudini delle popolazioni zingare di usare i bambini nella richiesta di elemosina, atteso che la consuetudine può avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all'art. 8 disp. prel. c.c. Da ciò consegue che il richiamo alla propria mozione culturale o di costume non esclude in alcun modo l'elemento psicologico del reato (Cass. pen., Sez. III, 26 ottobre 2006-25 gennaio 2007, n. 2841).

In una recente pronuncia del 2015 (Cass. pen., Sez. III, 29 gennaio 2015-13 aprile 2015, n. 14960), la suprema Corte, ribadendo i già più volte espressi principi in materia, ha escluso che lo straniero, imputato del delitto di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e violazione degli obblighi di assistenza familiare, potesse invocare, anche in via solo putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza. In particolare, il Collegio supremo, in una prospettiva in linea con l'art. 3 Cost., osserva che in una società multiculturale, quale la nostra, non è concepibile la scomposizione dell'ordinamento giuridico in tanti statuti individuali quante sono le etnie presenti, posto che l'ordinamento giuridico è e deve rimanere unico, a prescindere dalle etnie in esso presenti. Da ciò consegue che, al fine di garantire la sopravvivenza della società multietnica, chiunque desideri inserirsi in essa, deve verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti, seppur abitudinari e conformi agli usi e alle leggi del proprio Stato di proveniente, con i principi e le norme che reggono lo Stato italiano. Nel caso in esame, la Corte ha peraltro ritenuto non configurabile alcuna scriminante in relazione alla condotta dell'imputato, in quanto contraria a qualsiasi principio, né espressione di alcuna cultura, soprattutto di quella di appartenenza dell'imputato, marocchino di fede musulmana.

Qualche timida apertura della prassi al fattore culturale: tra riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, esclusione della circostanza aggravante dei futili motivi e dosimetria della pena

Nonostante la Corte di cassazione abbia, fino ad oggi, negato la rilevanza penale delle esimenti culturali nel nostro ordinamento, è opportuno sottolineare come il supremo Collegio, in molteplici pronunce, abbia attribuito, sotto diversi profili, un qualche rilievo al fattore culturale. In particolare, si è sostenuto che il differente bagaglio culturale appartenente allo straniero può acquisire rilievo ai fini della personalizzazione della sanzione in concreto irrogabile, ai sensi dell'art. 133 c.p., dal momento che l'aver posto in essere una condotta penalmente rilevante, ma giustificata dai principi della cultura di appartenenza dell'agente, può risultare espressivo di una minore intensità dell'elemento soggettivo del dolo.

È la strada indicata, ad esempio, dalla Corte di cassazione in relazione ad un caso di un imputato marocchino condannato per i reati di maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona, violenza sessuale in danno della moglie e violazione degli obblighi di assistenza familiare. La suprema Corte – dopo aver respinto i motivi di ricorso dell'imputato relativi all'assenza del dolo e all'ignoranza inevitabile della legge penale, seguendo l'orientamento sopra menzionato dello “sbarramento invalicabile” – rileva, infatti, che l'eventuale considerazione, da parte dell'imputato, dei fatti da lui compiuti come innocui, o socialmente utili o non riprovevoli, potrebbe essere apprezzato nel quadro multiforme delle variabili apprestate dall'art. 133 c.p., in punto di personalizzazione e adeguatezza della pena(cfr. Cass. pen., Sez. VI, 26 novembre 2008-16 dicembre 2008, n. 46300).

Del resto, tra gli indici di commisurazione della pena indicati dall'art. 133 c.p. figurano, in effetti, alcuni elementi che si prestano in qualche modo ad una valorizzazione della motivazione culturale: i motivi a delinquere (art. 133, comma2, n. 1 c.p.) e le condizioni di vita individuale, famigliare e sociale del reo (art. 133, comma 2, n. 4 c.p.).

Ci si è inoltre chiesti se la diversità culturale che contrassegna l'autore di un reato culturalmente motivato possa essere presa in considerazione dai giudici ai fini dell'applicazione di talune circostanze attenuanti o, per lo meno, ai fini della non-applicazione di talune circostanze aggravanti.

Vengono in rilievo, in primo luogo, l'attenuante dell'aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale (art. 62 n. 1 c.p.), l'aggravante dell'aver agito per motivi abietti o futili (art. 61 n. 1 c.p.), nonché l'attenuante della reazione in stato d'ira al fatto ingiusto altrui (art. 62 n. 2, c.p.: c.d. provocazione).

In relazione a tali circostanze, tuttavia, si pone un problema preliminare: sulla scorta di quali opzioni culturali il giudice deve valutare il valore morale o sociale dei motivi a delinquere, l'abiezione o la futilità degli stessi, nonché l'ingiustizia del fatto provocatorio altrui?

Se il metro per la loro valutazione dovesse essere individuato, rigorosamente ed esclusivamente, nella coscienza etica media del popolo italiano, ovvero nei valori avvertiti dalla prevalente coscienza collettiva che riscuotano un generale consenso sociale, è chiaro, infatti, che la differenza culturale non potrebbe giocare in alcun modo a favore del reo.

Quanto all'attenuante di cui all'art. 62 n. 1 c.p., la Corte di cassazione ha, in effetti, esplicitamente statuito che ai fini della concedibilità dell'attenuante de qua (motivi di particolare valore morale o sociale), non può farsi riferimento al sistema di valori proprio del soggetto agente, allorché tale sistema non sia quello condiviso dalla generalità degli italiani. Tale pronuncia riguarda il caso di un immigrato di origine marocchina che aveva costretto il nipote quattordicenne a mendicare malvestito per le strade di una grande città: secondo la Corte, invero, non può invocarsi, per ritenere … attenuato ex art. 62 n. 1 c.p. il reato di maltrattamenti, l'«etica dell'uomo», affermata sostanzialmente, sia pure in maniera criptica, sulla base di opzioni sub culturali relative a ordinamenti diversi dal nostro (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 9 novembre 2006-30 gennaio 2007, n. 3419)

In altre pronunce, gli Ermellini hanno invece valorizzato la diversità culturale, configurando la stessa quale attenuante generica ai sensi dell'art. 62-bis c.p. (Cass. pen., Sez. I, 12 novembre 2009-18 febbraio 2010, n. 6587), o, in altri casi, negando l'operatività dell'aggravante dei motivi abietti o futili, di cui all' art. 61, comma 2, n. 1 c.p. Con riferimento a quest'ultima ipotesi, lo scenario derivante dalla compenetrazione di varie culture nel nostro ordinamento ha portato la magistratura a postulare la necessità che l'accertamento della natura del motivo che ha spinto il soggetto ad agire sia il più possibile ancorato al caso concreto ed al carattere del singolo agente, in quanto, se è vero che la futilità del motivo rileva principalmente sul piano oggettivo – quale enorme sproporzione fra stimolo e reazione – è altrettanto vero che la futilità è anche un concetto relativo che, in quanto legato alla sfera morale, che è determinante nei giudizi di valore, non può prescindere da quelle condizioni soggettive di età, di ambiente, culturali, sociali, lavorative; e proprio tali condizioni concorrono, spesso in modo decisivo, a motivare le azioni umane, a regolare i rapporti sociali e a determinare le azioni antisociali. Per questa via si è dunque iniziato a dare rilievo decisivo anche alla cultura del reo.

In particolare, la Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. I, 18 dicembre 2013, n. 51059) ha riconosciuto l'assenza dei futili motivi nel gesto dell'uomo, di radicata fede islamica, che, sentendosi disonorato dai comportamenti della propria figlia, violativi dei precetti del Corano, aveva tentato di ucciderla. Ad avviso della suprema Corte, non possono infatti reputarsi futili i motivi che derivano dalla radicata concezione religiosa di appartenenza, pur se assolutamente distanti da quelli della moderna società occidentale, in quanto, pur sussistendo una sproporzione tra il movente e l'evento cagionato, non può dirsi né lieve, né banale la spinta che ha portato il soggetto ad agire.

Come è stato puntualmente osservato in dottrina (BASILE, 439), uno degli effetti del diffondersi di tale orientamento è stato peraltro quello di consentire la possibilità che la condotta di un soggetto non facente parte della cultura maggioritaria venisse valutata sulla base di un parametro non necessariamente coincidente con i valori espressi da tale cultura, accentuando in tal modo l'eventualità che ciò che occupa il gradino più infimo nella scala di valori della cultura italiana possa invece collocarsi ben più in alto nella gerarchia dei valori propri di un altro sistema culturale.

Osservazioni

La crescente disomogeneità culturale della nostra società, frutto della massiccia ondata migratoria che sta attraversando il nostro Paese da molti anni, pone da tempo sul tappeto il delicato tema della rilevanza penale del fattore culturale. Si tratta di un tema che pone in crisi un ventaglio assai ampio di istituti e di principi penalistici e che il giurista si troverà sempre più spesso ad affrontare in una serie diffusa di ipotesi criminose (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, lesioni, violazione degli obblighi di assistenza familiare, mutilazioni di genitali femminile, riduzione in schiavitù, ecc.).

A fronte di una iniziale, netta chiusura della giurisprudenza di legittimità, si registra una riflessione scientifica aperta a soluzioni che valorizzino il fattore culturale senza compromettere la fondamento del diritto penale interno.

Più recentemente, la suprema Corte, anticipata da alcune “pioneristiche” decisioni di merito, ha aperto alla cultura d'origine del soggetto autore del reato, dandoli rilievo al fine di escludere la futilità del motivo ai sensi dell'art. 61 n. 1 c.p. oppure per riconoscere la sussistenza di circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p., oppure, ancora, per calibrare il trattamento punitivo sulla effettiva capacità a delinquere del colpevole (art. 133, comma 2, c.p.), tenendo conto, in particolare, delle connotazioni culturali del soggetto giudicato e del contesto sociale in cui si è verificato il fatto.

Talvolta, come nel caso della circoncisione rituale, si è giunti a dare rilevanza esimente al contesto culturale di provenienza, sotto il profilo della inevitabile ignoranza della legge penale in cui versa l'autore del reato.

Sembra, in definitiva, che la giurisprudenza, recependo le sollecitazione di una parte della dottrina, si stia orientando verso un modello di giudizio aperto alla valutazione dei motivi a delinquere degli autori di reati culturalmente orientati alla stregua di un sistema di valori non necessariamente coincidente con quelli della cultura dominante.

Si tratta di una evoluzione che merita condivisione perché basata su una corretta interpretazione dei principi costituzionali di uguaglianza (che non tollera trattamenti deteriori nei confronti di chi, per proprie condizioni di razza, di religione, sociali, ecc., non rientra nel modello prevalente) e della personalità della responsabilità penale (che pone al centro dell'attenzione il singolo individuo destinato a subire la pena).

Guida all'approfondimento

FARINI-TRINCI, Compendio di diritto penale. Parte generale, Roma, 2016;

BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, 2010;

DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, Pisa, 2010;

BERNARDI, Il 'fattore culturale' nel sistema penale, Torino, 2010;

PARISI, Cultura dell'"altro" e diritto penale, Torino, 2010.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario