La portata confessoria degli atti compiuti dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni

23 Agosto 2015

Le relazioni di servizio redatte dal pubblico ufficiale - imputato per reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni o con abuso delle stesse - e inerenti ai fatti per i quali si procede contro lo stesso pubblico ufficiale, non sono assistite da alcuna astratta presunzione di veridicità e possono essere acquisite e valutate, ai sensi dell'art. 237 c.p.p., come scritti provenienti dall'imputato e non ai sensi dell'art. 234 c.p.p. quale prova documentale
Massima

Le relazioni di servizio redatte dal pubblico ufficiale, imputato per reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni o con abuso delle stesse, inerenti ai fatti per i quali si procede contro lo stesso pubblico ufficiale, non sono assistite da alcuna astratta presunzione di veridicità e possono essere acquisite e valutate, ai sensi dell'art. 237 c.p.p., come scritti provenienti dall'imputato e non ai sensi dell'art. 234 c.p.p. quale prova documentale

Il caso

Tizio, pubblico ufficiale in servizio presso un'amministrazione dello Stato, veniva processato per più reati commessi nell'esercizio delle funzioni apicali ad egli assegnate nell'ambito amministrativo di riferimento. Il Tribunale territoriale, in primo grado, riconosceva la prescrizione per taluni reati e condannava il pubblico ufficiale per altri. La sentenza veniva appellata anche da Tizio.

La Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza emessa dal giudice di prime cure, assolveva Tizio da talune imputazioni, confermando la sentenza impugnata per i restanti capi di imputazione riducendo proporzionalmente la condanna.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso Tizio.

In motivazione

Nessun rilievo particolare poi può darsi al contenuto delle relazioni di servizio redatte dall'imputato, relazioni che, nel caso in esame, devono essere considerate alla stregua di dichiarazioni dello stesso, non potendo, nel procedimento che vede il pubblico ufficiale come imputato, le stesse essere assistite dalla astratta presunzione di veridicità. Incidentalmente va notato che le stesse, certamente non valutabili ai sensi dell'art. 240 c.p.p., non sono nemmeno classificabili ai sensi dell'art. 234 (a meno che non si tratti di corpo di reato), come si pretende nel ricorso, quanto piuttosto - ai sensi dell'art. 237 del medesimo codice, vale a dire come scritti provenienti dall'imputato. E' infatti evidente che, se il pubblico ufficiale è imputato (ma anche indagato) per atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, ciò che prevale è appunto la figura dell'imputato su quella del pubblico ufficiale, di talché i suoi scritti, se inerenti ai fatti per i quali è processo, devono essere valutati, appunto, come documenti provenienti dall'imputato.

La questione

La questione in esame è la seguente: se le dichiarazioni contenute negli atti redatti dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni siano da ritenere fidefacenti, alla stregua di una prova legale, ovvero debbano essere ritenute alla stregua delle altre “comuni” prove e, quindi, da sottoporre, obbligatoriamente, al libero convincimento del giudice. In quest'ultimo caso, occorre stabilire anche lo strumento probatorio attraverso il quale tale documento deve trovare ingresso all'interno del processo penale se, alla stregua di una semplice prova documentale – art. 234 c.p.p. – ovvero come documento proveniente dall'imputato ai sensi e per gli effetti dell'art. 237 c.p.p.

Le soluzioni giuridiche

Una prima soluzione giuridica, impraticabile nel sistema processuale penale italiano, inquadrerebbe la questione nell'ambito della prova legale il cui valore cioè è prestabilito “a monte” dal legislatore. Sembrerebbe, a rigore di logica, la soluzione più semplice e praticabile sotto il profilo della coerenza sistematica nel più generale ordinamento giuridico, atteso che il meccanismo della prova legale, ampiamente utilizzato all'interno del sistema processuale civile trova ampia diffusione anche in altri ambiti giuridici, come quello amministrativo e tributario. Sicché, per questioni di coerenza sistematica, la prova legale potrebbe trovare ingresso anche nel sistema processuale penale ed impedire, potenzialmente, che una prova valutata in un modo in un determinato ambito dell'ordinamento (civile, amministrativo) sia valutata in maniera diversa, o parzialmente diversa, nel processo penale. Come è noto, però, il sistema processuale penale italiano rifugge dal meccanismo della prova legale come strumento dimostrativo pre-stabilito, attribuendo al libero convincimento del giudice la signorìa in ordine alla valutazione della prova, con i ben noti limiti il cui rispetto deve trovare preciso riscontro all'interno dell'apparato motivazionale della sentenza penale.

Altra soluzione – in cui si valorizza al massimo il libero convincimento del giudice – vede il caso de quo inquadrarsi all'interno dell'ipotesi contemplata nell'art. 234 c.p.p., a tenore del quale è sempre consentita l'acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone, o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fotografia o qualsiasi altro mezzo. In questo senso, è da registrare un importante approdo giurisprudenziale che ribadisce, ancora un volta, il carattere relativo dei divieti indicati negli artt. 62 e 530, comma 1, c.p.p.: “la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie a lui rese da coimputati o trasfuse dallo stesso curatore nella relazione redatta ai sensi dell'art. 33 l. fall. è utilizzabile quale prova a carico dell'imputato. La relazione del curatore fallimentare diretta al giudice delegato, infatti, non costituisce di per sé notizia di reato, ma documento utilizzabile in giudizio, ai sensi dell'art. 234 c.p.p., quale atto che non ha origine nel processo penale e non è ad esso finalizzato” (Cass., Sez. V, 7 marzo 2012, n. 24114).

La soluzione a cui giunge la Cassazione nella sentenza in commento inquadra, invece, la questione nell'orbita dell'art. 237 c.p.p., fermo restando il libero convincimento del giudice in ordine alla valutazione delle dichiarazione effettuate dal pubblico ufficiale all'interno dell'atto amministrativo incriminato. La giurisprudenza, in passato, è stata ancora più precisa affermando che “le dichiarazioni accusatorie contenute in un documento manoscritto proveniente dall'imputato, spontaneamente esibito al giudice durante l'interrogatorio ed acquisito agli atti del processo (artt. 234 e 237 c.p.p.), sono utilizzabili nei suoi confronti secondo le regole di cui all'art. 192, comma 1, c.p.p., mentre le affermazioni "contra alios" hanno il valore di mero indizio da corroborare con ulteriori riscontri probatori” (cfr. Cass., Sez. IV, 8 novembre 2011, n. 9174).

Osservazioni

Questione che non viene trattata dal sentenza in commento ma che si ritiene di importanza decisiva ai fini del perfetto inquadramento sistematico dell'argomento in questione attiene alla possibilità che la redazione del documento in questione da parte del pubblico ufficiale rappresenti, di per sé, la fattispecie di reato o se, invece, il documento amministrativo rappresenti un mero strumento probatorio della condotta anti-giuridica per cui si procede. Nella prima ipotesi, infatti, l'atto amministrativo, rappresenterà il corpo di reato per cui si procede, mentre nella seconda ipotesi un mero strumento probatorio da utilizzare per giungere alla ricostruzione del fatto contestato nell'ambito processuale.

Nel documento-reato, quindi, non occorre cimentarsi sull'incidenza probatoria delle dichiarazioni ivi contenute, considerando che il mero rilascio delle stesse rappresenta di per sé il reato. Il reato è nella dichiarazione sicché, occorrerà dimostrare quanto è connesso con tale dichiarazione ma non la dichiarazione medesima che come tale assume i crismi del fatto giuridico da cui partire per imbastire l'intera istruttoria penale.

Diversa è, invece, la possibilità che il documento amministrativo possa apportare un contributo probatorio alla vicenda processuale che vede coinvolto il pubblico ufficiale colto nell'esercizio delle sue funzioni. Andiamo per ordine: dal punto di vista sistematico, il fatto che il meccanismo probatorio attraverso il quale l'atto amministrativo (ma anche il semplice documento redatto nell'ambito dell'attività amministrativa) trovi ingresso nel processo penale sia rappresentato dall'art. 237 c.p.p., piuttosto che dalla generica prova documentale di cui all'art. 234 c.p.p. è questione prettamente definitoria che nulla aggiunge in ordine alla valenza probatoria del documento medesimo. Né, tanto meno, può ritenersi che un meccanismo sia più articolato dell'altro, sebbene l'art. 237 c.p.p. si spinga fino ad ammettere l'iniziativa di ufficio del giudice ai fini dell'acquisizione della documentazione proveniente dall'accusato.

Ciò che più rileva, invece, è se quanto contenuto nel documento amministrativo possa essere utilizzato oltre che nei confronti dell'imputato anche nei confronti degli altri soggetti coinvolti nella vicenda processuale. Nel vigente sistema processuale le dichiarazioni erga alios del coindagato o del coimputato sono prese in considerazione da varie disposizioni (artt. 64, 192, 210 e 273 c.p.p.) in riferimento a una loro esternazione orale, in sede di interrogatorio o esame. Nel caso di specie, invece, le dichiarazioni accusatorie sono scritte e pertanto assimilabile alla nozione di documento proveniente dall'imputato/indagato, di cui agli artt. 234 e 237 c.p.p..

Quanto al contenuto, ai tempi e al destinatario, sono rapportabili a una chiamata in correità, ma restano certamente fuori dalla nozione, e correlativa valenza probatoria, delle dichiarazioni contra alios disciplinate dall'ordinamento, posto che non consentono, allo stato, alcun vaglio di credibilità e attendibilità nemmeno nei confronti di coloro destinati a raccogliere il materiale accusatorio.

Se ne è dedotto che, alla stregua di tali puntualizzazioni sul valore delle dichiarazioni scritte de quibus, se non supportato dalla presenza di riscontri, il compendio indiziario non raggiunge la soglia sufficiente a giustificare l'adozione del giudizio di colpevolezza, quandanche in sede cautelare ai fini dell'adozione di qualsivoglia provvedimento cautelare.

Ciò posto, si ritiene, sul solco di ampia e consolidata giurisprudenza, che il contenuto probatorio della documentazione quand'anche amministrativa, ai sensi degli artt. 234 e 237 c.p.p., è utilizzabile, in quanto non acquisita in violazione di legge; inoltre il suo valore probatorio, contra alios, è di mero indizio e necessita di ulteriori riscontri per raggiungere la soglia della valenza probatoria.

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