Legittimo il divieto “generico” di avvicinamento a tutti i luoghi frequentati dalla persona offesa

Enrico Campoli
23 Novembre 2016

Il divieto di cui all'art. 282-ter c.p.p. non deve riguardare luoghi specificamente determinati in quanto ciò, paradossalmente, consentirebbe all'indagato di avvicinarsi alla persona offesa laddove quest'ultima ne frequentasse altri non facenti parte dell'elenco tassativo formulato dal giudice.
Massima

Il divieto di cui all'art. 282-ter c.p.p. non deve riguardare luoghi specificamente determinati in quanto ciò, paradossalmente, consentirebbe all'indagato di avvicinarsi alla persona offesa laddove quest'ultima ne frequentasse altri non facenti parte dell'elenco tassativo formulato dal giudice.

Il caso

Il 29 dicembre 2015 il tribunale del riesame conferma l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari con la quale quest'ultimo ha disposto nei confronti dell'indagato, in relazione ai delitti p.ep. dagli artt. 612-bis e 582-585 c.p., la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalle persone offese con l'ulteriore prescrizione di non comunicare con le stesse con qualsiasi mezzo.

Ricorre in sede di legittimità la difesa dell'indagato lamentando, tra i vari profili proposti, l'assoluta indeterminatezza dell'oggetto del divieto.

In particolare, secondo il ricorrente la genericità dell'obbligo di non avvicinarsi ai luoghi frequentati dalle persone offese si pone in contrasto con l'art. 282-ter c.p.p., che disciplina il divieto di avvicinamento a “luoghi determinati” in tal modo comportando sia una inammissibile compressione del diritto di circolazione dell'indagato che l'impossibilità di eseguire correttamente la misura.

La questione

Con l'introduzione dell'art. 282-ter c.p.p. il Legislatore ha inteso dare ancor più ampia protezione alle persone offese, vittime della cd. violenza di genere.

Mentre nell'art. 282-bis c.p.p., tenuto conto dello specifico ambito familiare di riferimento, nel prevedere, al comma 2, la facoltà di disporre il divieto di avvicinamento a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, li si individua in particolare (luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti) per la disposizione di cui all'art. 282-ter c.p.p., che riguarda le condotte violente e persecutorie anche di natura extra-domestica, ciò non solo non viene volutamente formulato ma si offre la possibilità al giudice, in sede applicativa, di modularla, alternativamente, anche a mezzo della prescrizione all'indagato di mantenere una determinata distanza da essi.

In sede giurisprudenziale e di merito, si stanno, tuttora, alternando – ingenerando non poca confusione – due differenti interpretazioni: una, legata al dato letterale, secondo cui nell'ordinanza restrittiva vanno specificatamente indicati i luoghi determinati frequentati dalla persona offesa cui l'indagato non può avvicinarsi (Cass. pen., Sez. V, n. 28225/2015; Cass. pen., Sez. VI n. 8333/2015; Cass. pen., Sez. V, n. 5664/2015), l'altra, tesa a ragguagliare in concreto la ratio della norma, che nega tale necessità non solo perché impossibile da individuare ma anche in quanto a dovere assumere prevalenza sono, in condizioni di sicurezza, la libertà di locomozione e la libertà di svolgere una vita relazionale “normale” della persona offesa e non quelle dell'indagato (Cass. pen., Sez. V, n. 48395/2014).

Le soluzione giuridiche

I giudici di legittimità, con la sentenza in commento, hanno affermato i seguenti principi di diritto:

  • l'ordinanza ex art. 282-ter c.p.p. che impone all'indagato il generico divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa è legittima;
  • l'esigenza di tutela della persona offesa può trovare integrale attuazione solo garantendo alla stessa di potere esplicare la propria personalità e la propria vita di relazione senza alcun vincolo ed in condizioni di assoluta sicurezza;
  • l'impossibilità di individuare specificamente tutti i luoghi frequentati dalla persona offesa – che ben può determinarsi in relazione ad essi anche in modo non programmabile – comporta che il divieto di avvicinamento non può essere limitato a luoghi specificamente individuati dal giudice;
  • l'individuazione dei “luoghi determinati” deve avvenire per relationem con riferimento a quelli che, di volta in volta, la persona offesa si trova a frequentare con la conseguenza che ove essi, sia pure per mera coincidenza, vedano la presenza dell'indagato sarà quest'ultimo a doversene immediatamente allontanare.
Osservazioni

In merito alle ordinanze di applicazione del divieto di avvicinamento ex art. 282-ter c.p.p. – circa l'obbligo, o meno, per il giudice di indicare specificamente i luoghi frequentati dalla persona offesa da ostruire all'indagato – il percorso giurisprudenziale segna una nuova tappa, recuperando un indirizzo interpretativo che si era andato disperdendo.

Nella sentenza in commento i giudici di legittimità hanno, difatti, nuovamente, affermato la legittimità dell'ordinanza del giudice che imponga un divieto generico di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa affidando l'individuazione degli stessi al mero evolversi – anche occasionale e, potremmo dire, soprattutto – degli spostamenti di quest'ultima.

Senza infierire sull'insensatezza di una interpretazione giurisprudenziale che pretende un'indicazione preventiva da parte del giudice di tutti i luoghi determinati frequentati dalla persona offesa – quasi come se lo stesso avesse la capacità premonitoria di prevedere il futuro in ogni suo rivolo oppure, dinanzi all'urgenza del provvedere, possa attardarsi a richiedere approfondimenti istruttori di scarsa impellenza – ci si è limitati a sottolineare, non senza ironia, che ragionando in tal modo si giungerebbe alla paradossale conclusione che laddove l'incontro tra la persona offesa ed il suo persecutore/aggressore si svolga in un luogo non individuato dal giudice esso sarebbe permesso.

In sede di merito, alcuni organi di gravame, in assenza dell'elenco tassativo dei luoghi determinati da parte del giudice, sono giunti sino al punto di annullare l'ordinanza applicativa laddove appare evidente che la presunta lacuna, in forza dell'effetto devolutivo, ben poteva essere completato, ove quei giudici ne avessero rilevata la necessità (della piena devoluzione ne sono conferma le sentenze di legittimità sopra menzionate che laddove hanno evidenziato la pregnanza di tale lacuna hanno annullato le ordinanze con rinvio, rimettendo al giudice di merito l'onere di indicazione dei luoghi determinati).

Al di là della considerazione che il Legislatore ha offerto – in alternativa all'indicazione dei luoghi determinati da non frequentare – la possibilità che il divieto di avvicinamento sia declinato a mezzo dell'imposizione di una distanza minima tra le persone, la qual cosa solo apparentemente elide alla radice ogni problema applicativo e interpretativo essendo ciò comunque declinato riguardo ai suddetti, non può non evidenziarsi che lo sforzo normativo è stato quello di assicurare alle vittime della c.d. violenza di genere la continuità, in condizioni di sicurezza, della propria libertà di locomozione e di vita relazionale.

Ebbene, anche in presenza di una dettagliata indicazione da parte della persona offesa – in sede di querela/denuncia o in ogni altra successiva occasione utile – dei luoghi da ella abitudinariamente frequentati in alcun modo tale elenco può ritenersi esaustivo ben potendo la stessa determinarsi, in modo del tutto estemporaneo ed occasionale, e, soprattutto, senza che debba “auto-censurarsi” rispetto alle proprie abitudini di vita.

L'elencazione tassativa dei luoghi determinati non solo è dal punto di vista pragmatico assolutamente impossibile ma finirebbe per imporre – indirettamente – divieti impliciti per quelli non indicati con la conseguenza che ad essere compresse non sarebbero le libertà dell'indagato bensì quelle della sua vittima.

È, invece, proprio a tutela della libertà di locomozione e di vita relazionale dell'indagato che la giurisprudenza più restrittiva impone l'indicazione tassativa dei luoghi determinati ma la stessa appare tradire, grossolanamente, la ratio della norma: sarebbe, difatti, quantomeno assurdo, ad esempio, che entrando in un cinema – non indicato preventivamente dal giudice ed è anche comprensibile perché – l'indagato, resosi conto della presenza della persona offesa, non incorresse in alcuna trasgressione laddove appare evidente che egli se ne dovesse, immediatamente, allontanare.

Mentre, difatti, la presenza dell'agente è funzionale alla sua condotta delittuosa – che, stando all'esempio formulato, troverebbe nella contemporanea presenza nella sala cinematografica ulteriore manifestazione di esplicazione – quella della sua vittima può trovare protezione solo in forza dell'allontanamento del suo persecutore.

Lo spettro di compressione della libertà di locomozione e relazionale non può, quindi, che riguardare l'indagato: la richiesta di determinatezza formulata dal legislatore in relazione ai luoghi non può certo rivolgersi alla persona offesa in quanto la misura cautelare ha quale suo principale contenuto proprio quella di assicurare a quest'ultima la continuità dei comportamenti sino a quel momento sempre adottati.

Già il solo fatto di imporre indirettamente alla vittima una limitazione alla propria libertà di spostamento ovvero un impedimento allo sviluppo della propria vita di relazione – peraltro, certificandola a mezzo di un provvedimento del giudice di cui anche l'indagato è, ovviamente, a conoscenza – rafforza nell'agente l'idea di avere ottenuto uno scopo persecutorio, gli trasmette pericolosamente un significato distorto e cioè che con il suo comportamento delinquenziale non sola ha conseguito uno dei risultati che si riprometteva – confinare il perimetro di vita della sua vittima – ma ha avvinto ancor di più la vita di relazione della persona offesa alla sua.

Non è per niente casuale che l'art. 282-ter c.p.p. abbia trovato luce proprio in forza del medesimo provvedimento legislativo con il quale è stata introdotta la figura delittuosa di cui all'art. 612-bis c.p. (legge 23 aprile 2009 n. 38), ciò a significare che è in quello specifico humus che trova origine la necessità di tutela psico-fisica della vittima ed è in forza delle caratteristiche di quei comportamenti delinquenziali (pedinamenti; appostamenti; etc.) che va modellata la restrizione.

Lo stesso concetto di avvicinamento rappresenta plasticamente che l'impedimento inferto all'agente non riguarda solo i luoghi frequentati dalla persona offesa ma anche la sua persona fisica dalla quale deve mantenere, difatti, una debita distanza.

Ebbene, il soggetto di cui vanno sacrificate le libertà – a meno di non voler sostenere che la stessa persona offesa perseguiti l'agente andando nei luoghi abitualmente frequentati dallo stesso – è l'indagato e nel voler parametrare il sacrificio di quest'ultimo e della sua vittima non può perdersi di vista il fatto che al di là di quello specifico luogo c'è “il mondo”.

È per tali ragioni che le uniche sfere di cui specificamente si preoccupa il legislatore, – cioè, di contemperare le due diverse esigenze dell'agente e della persona offesa – sono quelle lavorative ed abitative, per le quali è richiesta una regolamentazione di fatto, volta per volta, da parte del giudice (art. 282-ter, comma 4, c.p.p.).

In conclusione, dettare un elenco di luoghi determinati – e, soprattutto, ritenerli tassativamente individuati ad esclusione di ogni altro – fornisce una rappresentazione deviata dei reali contenuti ostativi della misura restrittiva: quest'ultima, difatti, non mira ad impedire singoli incontri in “determinati luoghi” bensì ad impedire qualsiasi incontro in ogni dove.

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