La Cassazione abbatte il muro che impediva i rimedi risarcitori per detenzione inumana

24 Marzo 2016

Il decreto legge 92/2014, convertito in legge 117/2014 ha introdotto l'art. 35-ter dell'ordinamento penitenziario "Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati". Una norma che il Legislatore di un Paese civile, nonostante l'evidente, costante e sistematica emergenza, non avrebbe mai voluto scrivere. Quello italiano vi è stato costretto.
Abstract

Il decreto legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito in legge 11 agosto 2014, n.117, ha introdotto l'art. 35-ter dell'ordinamento penitenziario Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati.
Una norma che il Legislatore di un Paese civile, nonostante l'evidente, costante e sistematica emergenza, non avrebbe mai voluto scrivere. Quello italiano vi è stato costretto.

La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo – Torreggiani ed altri dell' 8 gennaio 2013 – aveva, infatti, messo in mora l'Italia ad assicurare al soggetto che avesse sofferto una situazione detentiva inumana e degradante (art. 3 Cedu) , rimedi effettivi, sufficienti ed accessibili, sia preventivi che compensativi. Rimedi che devono coesistere in modo complementare.

L'urgenza di provvedere al rimedio preventivo è indicata come la strada maestra, in quanto non si può tollerare oltre la violazione di diritti. Ma quando ciò avviene deve sempre essere consentito a chi ha subito tale violazione di ottenere un risarcimento, cioè il rimedio compensativo.

L'ingiunzione della Corte europea era dovuta alla situazione di degrado delle nostre carceri, all'inadeguatezza degli strumenti per combatterla e per vedere riconosciuta un'azione risarcitoria.

Ove l'Italia non avesse ottemperato, la Corte europea avrebbe esaminato le migliaia di ricorsi pendenti, con i quali veniva chiesto un indennizzo economico per aver subito un trattamento penitenziario in violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Dopo la riforma, infatti, i 3.685 ricorsi, pendenti presso la Corte Edu, sono stati dichiarati irricevibili, avendo l'Italia introdotto il rimedio risarcitorio davanti al giudice nazionale. Il Ministro della Giustizia, nel valutare gli effetti dell'innovazione ha affermato che vi è stato un risparmio per l'Italia di 41.157.765 euro. In prospettiva, se i 18.219 ricorsi pendenti davanti ai Giudici nazionali fossero stati proposti a Strasburgo (ove il rimedio interno non fosse stato introdotto), la stima sarebbe pari a un costo di ulteriori 203.488.011 euro, per un totale di 244.645.776 euro.

Ma i conti nascondono un vero e proprio caso di giustizia negata. Da un lato Strasburgo ritiene di non interessarsi più dei ricorsi provenienti dall'Italia, avendo tale Paese trovato una soluzione interna, dall'altro la riforma stenta a decollare per le interpretazioni restrittive date alla norma.

Dai dati raccolti presso tutti i tribunali di sorveglianza e presso i giudici civili, competenti per il risarcimento (quale sconto di pena o monetario), al fine di conoscere l'effettiva applicazione della norma, il risultato emerso è stato ed è del tutto deludente. Pochissime le istanze accolte, moltissime le dichiarazioni d'inammissibilità (sondaggio effettuato dall'Unione Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere).

Se è vero che è stata evitata la condanna da parte dell'Unione europea e scongiurata un'onta politica, è altrettanto vero che tutto questo ha un prezzo troppo alto, se davvero si vuole dare un' effettiva indicazione di trasformazione culturale.

Segnali positivi vengono dalla suprema Corte di cassazione ed in particolare dalla I Sezione penale. La sentenza (Cass. pen., Sez. I, 16 luglio 2015 – 12 gennaio 2016, n. 873) di cui ci occuperemo ne è un esempio.

Il decreto impugnato e annullato. La ritenuta genericità delle doglianze e il ruolo della magistratura di sorveglianza

Il decreto emesso dal magistrato di sorveglianza di Catanzaro, oggetto del ricorso proposto innanzi la Corte di cassazione dal detenuto, ha dichiarato inammissibile l'istanza avanzata ex art. 35-ter dell'ordinamento penitenziario, per le seguenti ragioni:

L'istanza era formulata genericamente, non avendo il detenuto dedotto e documentato specifiche e dettagliate condizioni di detenzione, tali da integrare eventuali violazioni dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. In particolare il detenuto si era limitato a richiamare l'art. 35 ter e le non meglio precisate condizioni dell'Istituto o degli Istituti in cui era o era stato ristretto.

La Corte di cassazione ha censurato tale giudizio, precisando, tra l'altro, che l'istanza-reclamo non poteva ritenersi affetta da una genericità talmente assoluta da essere riconducibile alla categoria della manifesta infondatezza, per difetto delle condizioni di legge […] Proprio la natura essenzialmente compensativa, più che risarcitoria in senso stretto, del rimedio introdotto dall'art. 35 ter Ord. Pen. , finalizzato a garantire una riparazione effettiva delle violazioni dell'art. 3 della Convenzione EDU derivanti dal sovraffollamento, richiesta dalla Corte Europea nella sentenza pilota Torreggiani, esclude che la domanda debba essere corredata dalla indicazione precisa e completa degli elementi che si pongono a fondamento della stessa ed, in specie, che figurano il pregiudizio da ristorare [..]. È quindi soltanto necessario che vengano indicati i periodi di detenzione, gli istituti di pena e la riconducibilità delle condizioni detentive alle suddette violazioni derivanti dal sovraffollamento, mentre la sussistenza del pregiudizio per specifiche violazioni dell'art. 3 della Convenzione EDU costituisce thema probandum.

Il ragionamento della suprema Corte va condiviso non solo in diritto ma anche e sopratutto per ragioni pratiche e di sistema.

Nel caso di specie, il detenuto fa riferimento a periodi di detenzione patiti presso gli istituti di Palmi, Rossano, Paola e Catanzaro, sostenendo di aver subito trattamenti disumani e degradanti, dovuti alle situazioni logistiche e all' organizzazione degli istituti. Affermazioni troppo generiche per il magistrato di sorveglianza di Catanzaro, che dichiara il reclamo inammissibile perché, tra l'altro, non documentato.

Si volevano probabilmente foto o filmati della vita detentiva e certificazioni relative alla struttura dell'edificio dove l'interessato era recluso. Probatio diabolica per qualsiasi detenuto!

Sul punto va, invece, evidenziato che tra le funzioni del magistrato di sorveglianza specificamente indicate nell'art. 69 ord. pen., vi è quella di vigilare sull'organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena e di prospettare al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all'attuazione del trattamento rieducativo (comma 1) ed inoltre che l'esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti (comma 2).

Il Legislatore del 1975, epoca di entrata in vigore dell'ordinamento penitenziario, ha istituito la figura del magistrato di sorveglianza e a questi ha affidato una pluralità di attribuzioni che lo identificano come il garante della legalità negli istituti di pena. In questi quarant'anni, però, tali funzioni di controllo si sono ridotte sempre di più, fino al quasi totale esaurimento. Circostanza che ha indotto, da tempo, alcuni enti locali a istituire la figura dei Garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e recentemente anche il Parlamento a nominare un Garante nazionale.

Il provvedimento del magistrato di sorveglianza di Catanzaro, così come quello analogo di molti suoi colleghi, pertanto, è la prova che non vi è più alcuna funzione di controllo sull'esecuzione della pena da parte dei giudici, che pretendono dal detenuto di avere notizie che loro stessi, per legge, dovrebbero avere già acquisito.

Se fosse stato rispettato il dettato normativo, infatti, le modalità di detenzione nel carcere di Catanzaro sarebbero state note a colui che aveva ricevuto il reclamo, mentre quelle di Palmi, Rossano e Paola – altri luoghi in cui l' interessato era stato recluso – sarebbero state facilmente reperite dagli altri colleghi.

Quanto sopra esposto fa comprendere come vada necessariamente rivisto, al più presto, il ruolo importantissimo della magistratura di sorveglianza, che deve vivere il carcere, stare vicino ai detenuti, seguire il loro percorso e denunciare le violazioni di legge al ministero della giustizia. Ne più, né meno di quanto già previsto dall'ordinamento penitenziario.

Le recenti riforme, invece, vanno purtroppo nel senso opposto, allontanando ancora di più il magistrato dai luoghi di pena. L'istituzione delle video conferenze per i colloqui con i detenuti e per lo stesso procedimento di sorveglianza, sta spogliando definitivamente il magistrato di sorveglianza dal suo ruolo di protagonista dell'esecuzione penale.

Gli anni bui della detenzione in Italia, per i quali la Corte europea dei diritti dell'uomo ha più volte condannato il nostro Paese, fino a giungere alla sentenza pilota del caso Torreggiani, avrebbero dovuto vedere la magistratura di sorveglianza denunciare con i suoi provvedimenti la situazione d'illegalità permanente e diffusa delle nostre carceri.

(Segue). L'“innaturale” competenza del giudice civile

Si legge ancora nel decreto impugnato:

Il risarcimento previsto dall'art. 35 ter Ord. Pen. ha natura civilistica, tanto che per i soggetti non detenuti o per quelli che non stiano subendo un pregiudizio attuale, è prevista la competenza del Giudice Civile; con la conseguenza che l'atto introduttivo doveva rispondere ai requisiti dell'art. 125, comma 1, Cod. Proc. Civ. , che prevede siano esplicitate le ragioni della domanda, ovverosia le ragioni in fatto e in diritto della stessa.

Anche tale valutazione è stata censurata dalla Corte di cassazione : è in radice da escludere che il procedimento in esame possa considerarsi strutturato come – o equiparabile quanto a forma a – un processo civile che si svolge innanzi al Giudice penale […] va assicurata la maggiore possibile accessibilità ed effettività del rimedio di cui si discute. Va inoltre ritenuta errata la tesi che condizione di accoglibilità della domanda riparatoria rivolta al Magistrato di Sorveglianza sia l'attualità del pregiudizio.

La suprema Corte, con questa e altre sentenze, ha posto fine – ci auguriamo – al contrasto giurisprudenziale che, di fatto, ha impedito per molto tempo e sta ancora impedendo l'applicazione della riforma.

L'art. 35-ter ord. pen., individua, nel primo e secondo comma, la competenza del magistrato di sorveglianza a decidere i ricorsi del detenuto che lamenti il pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen. quando lo stesso violi l'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nel terzo comma, prevede la competenza del giudice civile per i ricorsi di coloro che non sono più detenuti.

Il citato articolo 69 ord. pen., prevede l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti.

Non vi è dubbio che la norma non è chiara sulla competenza tra Ufficio di Sorveglianza e Giudice Civile, in relazione alle istanze provenienti dal soggetto che, da detenuto, lamenti una pregressa, ma non più attuale detenzione in violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

La mancanza di attualità sembrerebbe far venir meno la competenza prevista dal primo e dal secondo comma (Ufficio di sorveglianza), in favore di quella indicata nel terzo comma (giudice civile). Ma il terzo comma fa riferimento a soggetti che hanno terminato di espiare la pena detentiva e quindi sarebbe da escludere la competenza del Giudice Civile.

La lettura organica dell'art. 35-ter ord. pen., deve necessariamente – così come indicato da questa e altre sentenze della Corte di cassazione – far ritenere competente l'ufficio di sorveglianza, anche nel caso in cui l'interessato sia detenuto e l'oggetto del reclamo sia un pregresso periodo di detenzione,. Il riferimento all'art. 69 ord. pen. e quindi all'attualità, di cui al primo comma, è implicitamente effettuato anche al comma 3 (coloro che hanno subìto il pregiudizio di cui al comma 1), laddove certamente quanto lamentato non può più essere attuale, in quanto il proponente è persona libera.

Il pregiudizio a cui fa riferimento il primo comma è, dunque, lo stesso menzionato nel terzo ed il requisito dell'attualità non è significativo, come non deve esserlo quello della gravità – pur indicato dall'art. 69 ord. pen. cit. – che determinerebbe una differenza tra violazioni gravi e non gravi, che spalancherebbe le porte ad una valutazione discrezionale non augurabile e del tutto sconosciuta alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

A quanto sopra riferito deve aggiungersi che il magistrato di sorveglianza è il giudice “naturale” delle istanze dei detenuti e un intervento del giudice civile sarebbe sistematicamente “innaturale” e comporterebbe una serie di problematiche che rallenterebbero l'esito del reclamo. Inoltre sarebbe esclusa al giudice civile la possibilità di ridurre la pena, come previsto dal primo comma dell'art.35-ter e potrebbe esclusivamente liquidare il danno nella misura prevista dal secondo comma: otto euro per ciascuna giornata di pregiudizio. Tradendo le indicazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo che privilegia il risarcimento compensativo.

In conclusione

La sentenza della Corte di cassazione a cui abbiamo fatto riferimento (Cass. pen. 873/2015) e le altre che hanno affrontato, con lo stesso orientamento, lo spinoso tema dell'interpretazione dell'art. 35-ter dell'ordinamento penitenziario, hanno avuto il merito di abbattere il muro che non ha consentito alla riforma di decollare sin dal primo momento.

Il meccanismo dei rimedi risarcitori si sta, dopo oltre tre anni dalle indicazioni della Corte Edu, lentamente mettendo in moto e potrebbe andare a regime a breve.

Va, però, precisato che la strada principale indicata dalla sentenza Torreggiani, tracciata già dal 1948 dalla nostra Carta costituzionale e ribadita dal 1975 dall'ordinamento penitenziario è un'altra. È quella preventiva, certamente non quella risarcitoria, che deve restare sussidiaria e confinata a casi eccezionali.

Su questo fronte ben poco si è fatto e restano enormi criticità, nonostante la parziale diminuzione del sovraffollamento. L'Italia resta ancora, rispetto agli altri Paesi europei, tra le nazioni che hanno il numero maggiore di detenuti a fronte dei posti disponibili. Inoltre permangono le criticità relative alla sanità, all'igiene, al lavoro, al trattamento e alla stessa detenzione, in molti casi ancora scontata in istituti fatiscenti .

Nei giorni scorsi il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha archiviato l'indagine aperta con la sentenza Torreggiani. Il Ministro della Giustizia ha dichiarato che l'Italia, da maglia nera per il sovraffollamento delle carceri, è diventata modello per altri Paesi.

Pur dando atto al Ministro di essere il protagonista di una grande stagione riformatrice in tema di esecuzione penale, di aver indicato la strada – non facile e ancora, come da lui stesso ammesso, in gran parte da percorrere – per una rivoluzione culturale che possa finalmente portare la detenzione in Italia a conformarsi ai principi costituzionali, avvertiamo il pericolo che senza la pressione del Consiglio d'Europa, si possa ritornare nelle paludi in cui da memorabile tempo molti provvedimenti giacciono. Tortura docet.

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